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Il Che come d'Annunzio, l'altra faccia del mito. Il sacrificio in guerra è culto per la bella morte

di Dino Messina - 22/09/2007



«Un'ombra domina l'America Latina nella seconda metà del secolo XX e si prolunga nel Duemila: l'ombra di una rivoluzione mancata. Mancata come espansione, proseguimento e correzione della grande rivoluzione della prima metà del secolo scorso: la rivoluzione messicana. Mancata come espansione e proseguimento della piccola rivoluzione della seconda metà dello stesso secolo: la rivoluzione cubana».
Ludovico Incisa di Camerana, sottosegretario agli Esteri nel governo di Lamberto Dini, diplomatico di carriera con lunghi soggiorni fra gli anni Cinquanta e Sessanta in Venezuela e Argentina, autore di saggi come L'Italia della luogotenenza e I caudillos, comincia con una considerazione sul fallimento di un'illusione il suo nuovo saggio, I ragazzi del Che, appena uscito da Corbaccio nella collana storica diretta da Sergio Romano (pagine 406, e 20). Scritto in occasione dei quarant'anni dalla morte di Che Guevara, eliminato il 9 ottobre 1967 da un soldato ubriaco il giorno dopo la cattura sull'altopiano della Bolivia, il libro di Incisa di Camerana è soltanto per metà una biografia di Ernesto Guevara de la Serna. Per l'altra metà è la storia del suo mito e dell'influenza che le sue idee hanno avuto sia in America Latina sia in Europa.
Il medico argentino, nato il 14 giugno 1928 in una famiglia altoborghese decaduta, scopre la sua vocazione rivoluzionaria nell'incontro a Città del Messico con un esule cubano, Fidel Castro. È il 1956. Il 25 novembre il Che, così chiamato per sottolineare il suo intercalare argentino, si imbarcherà con altri 81 compagni su un vecchio battello diretto a Cuba. Guevara scriverà con Castro una pagina di storia. «Ma il mito — ci dice Incisa di Camerana — nascerà soltanto dopo la morte, anzi proprio per le modalità della morte. Intanto il Che era andato in Bolivia, in una zona pochissimo popolata, con la coscienza che si trattasse di un'operazione disperata. Più che uno spregiudicato materialista, un rivoluzionario romantico che ricorda i nostri eroi risorgimentali Carlo Pisacane e i fratelli Emilio e Attilio Bandiera. Dopo la cattura nessuno ebbe il coraggio di formare il plotone d'esecuzione per eliminare quell'uomo malandato. Per ucciderlo ci volle la raffica di mitra di un sottufficiale ubriaco». Un episodio, scrive Incisa di Camerana, «che a noi italiani ricorda l'assassinio di Francesco Ferrucci e l'infamia di Maramaldo. Un'esecuzione comunque illegale, non derivando da un regolare processo e non essendo prevista in Bolivia la condanna a morte».
Il personaggio Guevara, secondo l'interpretazione di Incisa di Camerana, sembra dunque scolpito più che sull'esempio degli eroi sudamericani, il cubano José Martí e il venezuelano Simón Bolívar, o i messicani Pancho Villa ed Emiliano Zapata, su quello dei nostri eroi risorgimentali. Ma c'è di più: l'ingenuità con cui si lancia in certe avventure, come la spedizione in Tanzania e Congo, lo stile frugale e il disinteresse per la propria incolumità, ricordano all'autore la ricerca della «bella morte» e l'estetica di certi scrittori europei. «Sul piano storico-politico — scrive lo storico — la sua figura è meglio conosciuta nel quadro di quel volontarismo europeo, di una giovane borghesia attivista, disposta a vincere o a perdere, pronta nella guerra o nell'insurrezione a giocare il tutto per tutto e specialmente se stessa, l'élite dei reparti d'assalto. Il mito dell'esperienza della guerra, il mito dei caduti, della legittimità della morte e del sacrificio in guerra, che affascina, come lo descrive George Mosse, i volontari delle guerre europee, diventa per una gioventù latinoamericana, che si candida al protagonismo, il mito dell'esperienza della rivoluzione ». E non c'è da stupirsi se, in questo quadro, l'autore affianchi il nome del Che a quelli di Gabriele d'Annunzio e Filippo Marinetti, ma anche di André Malraux e Curzio Malaparte. Un accostamento con protagonisti della destra europea che ad alcuni apparirà sacrilego, ad altri svelamento della vera natura di un mito.
Questa lettura etica ed estetica dell'avventura guevarista non può che avere un esito pessimistico: fatta salva l'eccezione di Cuba, la teoria dei «focos» rivoluzionari attorno ai quali doveva divampare la rivoluzione poteva affascinare, in America Latina come in Europa, soltanto una minoranza di studenti e intellettuali. Dagli ufficiali rivoluzionari venezuelani, che si ritrovarono senza seguito nella sierra, al nostro Giangiacomo Feltrinelli, editore e ammiratore del Che finito tragicamente su un traliccio di Segrate, gli imitatori di Guevara andarono tutti incontro all'isolamento e al fallimento. Così come alla luce della storia si dimostrano sterili i due capisaldi della teoria rivoluzionaria guevarista: la sconfitta dell'esercito e la conquista del consenso fra i contadini. «Ogni movimento di qualche consistenza in America Latina — ci dice Incisa di Camerana — non ha potuto fare a meno dell'appoggio dell'esercito. Quanto ai contadini, non sono mai stati conquistati dal mito rivoluzionario. Anzi, l'idea di rivoluzione è completamente tramontata nel subcontinente. Al punto che un leader come Rubén Zamora ha dichiarato: "La lotta armata non è più un'alternativa di potere in America Latina"».
Al di là della faccia sulle magliette, secondo l'autore de I ragazzi del Che, del mito Guevara resta poco anche in Europa. Il Sessantotto è lontanissimo, i suoi leader come Régis Débray hanno preso sentieri inaspettati. E gli studenti oggi sono certo più affascinati dalla tecnologia e dai consumi che dalle teorie pauperiste del rivoluzionario argentino.