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Psyco boom

di Agnese Codignola - 22/09/2007

Agli italiani piacciono sempre di più. E aumentano i consumi: nel 2006, l'aumento delle prescrizioni di antidepressivi ha superato dell'8 per cento i già alti livelli del 2005, per un totale di 650 milioni di euro. Come a dire, che agli italiani non importa niente dei molteplici e autorevoli appelli alla prudenza indotti dall'emergere di alcuni effetti collaterali anche gravi, e nonostante gli studi disponibili dicano tutti la stessa cosa: gli antidepressivi dati in modo automatico e senza una giusta terapia di supporto sono inutili. Anzi: controproducenti.

Eppure, almeno in Italia, il marketing stravince sulla cautela. Ed è riuscito, negli ultimi anni, a catturare pazienti sempre più giovani: il depresso-tipo, insomma, non è più l'anziano o la donna in menopausa o la persona di mezza età, comunque qualcuno che fa i conti con le pene del tramonto della vita. No, proprio il contrario: oggi a impasticcarsi è sempre più spesso il giovane che sta impostando la sua attività lavorativa, che è sul punto di realizzare progetti, di sposarsi o fare figli. È anche l'adolescente problematico o il bambino con qualche difficoltà, magari di rendimento scolastico. E anche se, dopo il boom del biennio 2001-2002 (vedi grafico), si è registrato un calo nelle prescrizioni in età pediatrica, i dati sono preoccupanti: nel 2006 sono state più che doppie rispetto a quelle del 2000.

Come spiega Corrado Barbui, psichiatra dell'Università di Verona: "Un tempo gli antidepressivi si prescrivevano soltanto nei casi di una certa gravità, mentre oggi si consigliano per tutto, dagli attacchi di ansia e di panico all'obesità, dai disturbi del comportamento alimentare a tutto ciò che viene catalogato come ossessivo compulsivo, dalle strategie per smettere di fumare ai disturbi dell'umore stagionali e via discorrendo, anche se spesso non ci sono prove che dimostrino l'efficacia di un certo farmaco in situazioni i cui contorni sono così sfumati. E anche se tutti gli studi approdano alla medesima conclusione: tranne che in situazioni molto gravi, in prima battuta bisognerebbe ricorrere a una terapia psicologica o comportamentale, molto più efficace del solo farmaco".

Tutta colpa delle pressioni dell'industria? No. Imputati sono anche i servizi pubblici, carenti nell'assistere coloro che ne hanno realmente bisogno. Ancora Barbui: "Per instaurare una terapia psicologica o cognitivo-comportamentale ci vuole una preparazione specialistica e, soprattutto, la possibilità di stabilire un programma che duri nel tempo, spazi e degli operatori che lo portino avanti e molto altro. Spesso non ci sono le risorse, e si ricorre ai farmaci: basti dire che due terzi delle prescrizioni sono fatte dai medici di famiglia, i quali non hanno né la formazione né la concreta possibilità di instaurare una cura diversa".

In sintesi: malinconici, vittime di un qualunque disagio e pseudo-depressi chiedono aiuto al medico di base. Che non ci capisce un gran ché e prescrive il farmaco. Magari il più nuovo. E non gli si può dare la croce addosso. Perché ad aiutarlo non c'è nulla. Ad esempio non ci sono linee guida. È vero, spiegano gli psichiatri, che per curare una persona che soffre di un disagio mentale ci vogliono interventi complessi per i quali non c'è una formula unica. Ma questo non significa che si debba procedere a tentoni. Al contrario: si possono recepire i dati certi ottenuti in sperimentazioni controllate e convalidate, e su quelli elaborare una strategia.

In Gran Bretagna, dove la situazione non è molto migliore rispetto all'Italia, si stanno muovendo in questa direzione: per esempio, sono previsti finanziamenti per la valutazione di programmi di counselling elettronico, visto che solo un depresso su quattro si rivolge a uno specialista, e per l'analisi dello stigma sociale che ancora circonda la malattia mentale, e fondi per il controllo degli studi in corso, al fine di non disperdere energie. Non solo: il 4 luglio scorso, il Parlamento ha approvato una serie di provvedimenti per migliorare l'assistenza e proteggere i minorenni da ogni forma di accanimento farmacologico. il caso inglese dimostra che procedere con un metodo scientifico si può, e solo facendolo si potranno realizzare piani terapeutici che portino a risultati concreti, senza esporre i pazienti a rischi inutili.

Perché pericoli ce ne sono: quello dei rischi legati alla terapia farmacologica soprattutto con Ssri è uno dei grandi temi che tiene banco sulla letteratura scientifica internazionale degli ultimi mesi. Come spesso accade, infatti, via via che nuove generazioni di depressi e di malati di vari disturbi dell'umore si curano con i farmaci (solo i depressi in terapia farmacologica, secondo l'Oms, sono 35 milioni in tutto il mondo) vengono alla luce i lati più oscuri dei farmaci, e a quel punto si cerca di correre ai ripari tamponando le falle con misure non sempre efficaci.

Il dibattito che più agita le acque è quello sul supposto aumento di rischio di suicidio tra i giovani al di sotto dei 24 anni che assumono antidepressivi dell'ultima generazione, gli Ssri, la classe del Prozac per intenderci (vedi la scheda). Ma la segnalazione non è l'unica. Qualche settimana fa il 'New England Journal of Medicine' ha riportato due studi sul rischio di malformazioni nei feti di donne che assumono Ssri nel primo trimestre di gravidanza.

Questi allarmi confermano la necessità assoluta di condurre studi più approfonditi prima di introdurre molecole nuove sul mercato e, soprattutto, quella di utilizzare i farmaci con grandi cautele. Ad aggravare la situazione, poi, ci si mette la scarsa aderenza a tempi e dosi: una cura con antidepressivi richiede almeno 20 giorni e ha effetti soddisfacenti se viene prolungata per almeno sei mesi. Ma stando ai dati dell'Osmed, circa il 50 per cento dei malati italiani interrompe il trattamento entro 90 giorni dalla prima prescrizione, e oltre il 70 per cento nei primi sei mesi.

Ecco allora il vero nocciolo dell'inquietudine che genera negli addetti ai lavori l'abuso di Ssri: di questi farmaci si sa poco, certo non si conosce per bene il meccanismo d'azione. Fanno aumentare la concentrazione di serotonina, noradrenalina e dopamina laddove ce n'è bisogno, cioè tra una cellula nervosa e l'altra, ma che cosa questo significhi dal punto di vista molecolare è in gran parte ignoto. Uno studio appena pubblicato su 'Pnas' ha dimostrato un fatto inatteso, e cioè che gli antidepressivi Ssri agiscono sul recettore del fattore di crescita vascolare-endoteliale, stimolando la formazione di nuove connessioni nervose nella zona dell'ippocampo, e questa potrebbe essere una spiegazione plausibile della latenza dell'effetto, ma i riscontri sono scarsi e non convincenti fino in fondo e mancano quasi del tutto nell'uomo, così come poco si sa delle basi genetiche della malattia. E, stando così le cose, piena luce sugli effetti collaterali di questi farmaci la fa l'esperienza, la fanno i milioni di persone che li prendono. E giorno dopo giorno rischiano di scoprire qualche novità.