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La fine della dinastia di Teodosio in Occidente

di Francesco Lamendola - 24/09/2007

 

  

      La perdita di prestigio del generale Ezio, che aveva sconfitto Attila ai Campi Catalauni ma non aveva potuto impedire l'invasione unna dell'Italia, prepara la sua caduta, affrettata dall'insofferenza di Valentiniano III per il suo onnipotente capo dell'esercito. Ma l'uccisione di Ezio porterà con sé, in rapida successione, quella dello stesso imperatore, la brevissima avventura dell'usurpatore Massimo e il sacco vandalico di Roma, nel 455, molto più grave di quello alariciano del 410. Alla partenza di Genserico per l'Africa, in Italia regna il caos da cui emergerà un patricius senza scrupoli, Ricimero, deciso a governare per l'interposta persona di sovrani-fantoccio. Con la fine della dinastia teodosiana nell'Impero d'Occidente, quest'ultimo entra in uno stato di crisi permanente che terminerà solo nel 476, con la deposizione dell'ultimo sovrano nominale: Romolo Augusto.

 

 

1.  PREMESSA METODOLOGICA.

  

      Una importante premessa è necessaria, prima che ci accingiamo a narrare la catastrofe finale della dinastia di Teodosio il Grande in Occidente, e cioè che il periodo 454-455, a dispetto della sua enorme importanza storica, è uno dei peggio conosciuti e dei più confusi nelle fonti contemporanee.  Nel breve arco che va dalla seconda metà del 454 ai primi mesi del 455, avvenimenti decisivi impressero alla storia dell'Occidente l'ultima grande svolta prima del crollo definitivo: la morte di Ezio, l'assassinio di Valentiniano, l'usurpazione di Massimo e il sacco vandalico di Roma sono altrettante tappe fondamentali lungo la strada che conduce all'estinzione finale dell'Impero. Ma, come spesso avviene, proprio là dove desidereremmo essere meglio informati per comprendere il significato profondo di quegli eventi, le fonti a nostra disposizione non solo si assottigliano sempre di più, ma ci fuorviano continuamente con una massa di aneddoti , di leggende, di supposizioni, di voci e di ipotesi accettati indiscriminatamente per veri, e  come tali tramandati alla posterità, sicché proprio quest'ultimo periodo del lungo regno di Valentiniano III (iniziato nel lontano 425, sotto la reggenza di sua madre Galla Placidia) è avvolto nelle nebbie di una conoscenza approssimativa e imperfetta, spesso decisamente inadeguata. Siamo costretti a rimpiangere il venir meno di fonti tutt'altro che sempre attendibili, e che tuttavia di una qualche utilità erano pur state nel lumeggiare l'oscurità degli anni precedenti. La Storia nuova di Zosimo si arresta bruscamente alla vigilia del sacco di Roma del 410; le Historiae adversus paganos  di Paolo Orosio giungono soltanto alla pace del re visigoto Wallia con la corte di Ravenna (416);  la Getica di Jordanes non aggiunge che pochi particolari a quanto già sappiamo, e il De Bello Vandalico di Procopio non è servito che a portare gli storici moderni fuori strada con i suoi fantasiosi aneddoti privi di spessore storico. Di conseguenza, proprio su questo fondamentale periodo della storia tardo-romana sono fiorite leggende e dicerie prive di valido fondamento,  che però hanno trovato molti studiosi moderni eccezionalmente creduli e ben disposti: e così la leggenda dei "retroscena" romantici delle uccisioni di Ezio e di Valentiniano, o quella dell'"invito" di Eudossia  a Genserico, sono state riprese senza che venisse compiuta alcuna seria ricerca sulle loro origini.

       Dobbiamo purtroppo riconoscere che neanche la maggior parte dei lavori più seri sulla storia del tardo Impero vanno esenti, allorchè si accingono a narrare quei due anni fatali, da gravi ingenuità e manchevolezze; e dispiace constatare come perfino l'opera grandiosa di un Gibbon o di un Gregorovius, per non parlare di autori assai più recenti,  non sfugga all'impressione di un che di puerile e di fantastico, che stona con l'accurata precisione di altre parti. Finalmente, nel 1917 apparve un breve lavoro di Roberto Cessi (1), che avendo per oggetto proprio la catastrofe imperiale del 454-55, additava la via per una interpretazione seria e ragionata di quegli eventi, scendendo sotto la superficie delle tradizioni letterarie antiche e abbandonando decisamente lo schema dell'aneddotica procopiana, che tanto ha nuociuto alla retta comprensione di essi.  Quel lavoro non andava forse esente, a nostro giudizio, da esagerazioni intellettualistiche nella supposizione di manovre politiche nascoste, tuttavia segnava un deciso passo avanti nell'interpretazione di quel periodo storico, che aveva avuto solo dei precursori isolati nella storiografia dei decenni precedenti. (2) Tuttavia non possiamo nasconderci che quel lavoro, così stimolante e suscettibile di fecondi sviluppi, è praticamente caduto nel vuoto; la sua profonda lezione non è stata raccolta e lavori pur intelligenti e molto seri, che sono apparsi in seguito, hanno continuato a ignorare le motivazioni politiche profonde del dramma di Ezio e di Valentiniano, l'ultimo dei Teodosidi.

      È quindi tempo di riconsiderare con la massima attenzione l'intera questione; e, se le supposizioni volta a volta avanzate per spiegare quei fatti dovessero mancare il bersaglio, o fornire un quadro d'insieme solo imperfettamente comprensivo della complessità dei problemi allora esistenti, ciò sarà pur sempre preferibile alla logora tradizione aneddotica che umilia la storiografia del tardo Impero, abbassandola sovente al livello della favola o del pettegolezzo.

 

2. LA CRISI DEL POTERE DI EZIO.

 

      L'autorità del patricius Ezio, che fino al 452 era stata pressochè assoluta nell'Impero d'Occidente, era uscita gravemente indebolita dalla sua completa impreparazione davanti all'invasione Unna in Italia. Già l'indomani della battaglia sui Campi Catalauni, Ezio era stato fatto segno a quelle stesse critiche, che il partito nazionalista romano aveva levato contro Stilicone dopo le battaglie Pollenzo e di Verona. Tuttavia, se il generale fu preso così interamente alla sprovvista dall'irruzione di Attila nella Pianura Padana l'anno dopo, è assai probabile che all'opinione pubblica italica fosse stato fatto credere - in parte in buona fede - che la ritirata degli Unni oltre il Reno nel 451 era stata loro imposta da una sconfitta decisiva. Ma nella primavera del 452, penetrati i temutissimi nomadi asiatici nella Penisola, che da quarant'anni era rimasta inviolata, le critiche e i sospetti ripresero consistenza e divennero generali. Benchè a giudizio del Gibbon, Ezio "non si dimostrò mai così grande come in quel tempo in cui la sua condotta veniva biasimata da un popolo ignorante e ingrato" (3), agli italici terrorizzati non poteva sfuggire il fatto che l'onnipotente ministro aveva commesso un errore imperdonabile, politico e militare al tempo stesso, che Aquileia, Concordia, Altino, Padova e le altre città della Valle Padana avevano scontato duramente.

      Un nuovo colpo al prestigio di Ezio era poi venuto dal fatto che il ritiro insperato e quasi miracoloso di Attila dalla Penisola era avvenuto in seguito all'ambasceria del Senato di Roma capeggiata da Papa Leone, nella quale nessuna parte aveva avuto il patrizio. Tuttavia la posizione di Ezio a corte era rimasta abbastanza forte anche dopo questi avvenimenti; e se, come politico, egli aveva rivelato inaspettatamente delle gravi manchevolezze, quasi tutti riconoscevano che egli era l'unico uomo in grado di affrontare con qualche probabilità di successo il pericolo unno, che continuava ad incombere minaccioso a nord delle Alpi. Al momento della ritirata, Attila aveva continuato comunque a proclamarsi fidanzato di Onoria (figlia di Galla Placidia e sorella di Valentiniano III), sostenendo che lei gli aveva mandato un anello di fidanzamento e che quindi gli spettava, secondo l'uso barbarico, la metà dell'Impero d'Occidente. Pertanto aveva minacciato di rinnovare l'invasione dell'Italia qualora Onoria non gli fosse stata consegnata insieme alla dote esorbitante, e sia Valentiniano che l'aristocrazia senatoria continuavano a vedere in Ezio l'unico valido baluardo contro il re unno.

      La prova che il potere di Ezio era ancora formidabile si era avuta allorchè il patrizio, ingelosito del proprio luogotenente Maioriano (che cominciava a godere del favore della stessa famiglia imperiale) ne aveva chiesto e ottenuto il congedo, rimanendo arbitro incontrastato della situazione. Ma, alla vigilia della stagione campale del 453, Attila era morto improvvisamente e ben presto era apparso chiaro che gli Unni, lacerati da discordie intestine e assaliti dai popoli germanici che avevano sottomesso, non costituivano più un pericolo immediato per l'Impero. Questo avvenimento non mancò di ripercuotersi negativamente sull'autorità e sul prestigio di Ezio: venendo meno l'ossessione del pericolo che aveva giustificato il suo strapotere, molti incominciarono a pensare che il sostegno malfido della sua spada non fosse più indispensabile alla difesa dello Stato.

      Ezio aveva prontamente fiutato il cambiamento dell'atmosfera a corte e si era affrettato a premunirsi. Il suo obiettivo era quello di legare a sé l'imperatore sempre di più, cercando d'imparentarsi con la casa reale, così come avevano fatto prima di lui Costanzo in Occidente e Marciano in Oriente. Rimasto vedovo molti anni prima, Ezio era passato a seconde nozze proprio con la vedova del suo vecchio nemico Bonifacio, Pelagia. La tradizione, anzi, vuole che lo stesso Bonifacio, rimasto mortalmente ferito nella battaglia di Rimini, consigliasse alla moglie un tale matrimonio (e chissà che una qualche reminiscenza di questo fatto storico non abbia ispirato, tanti secoli dopo, la storia di Arcita e Palemone nel Teseida di Boccaccio).

      Alla fine del 440 o all'inizio del 441 Pelagia gli aveva dato un secondo figlio, Gaudenzio (l'altro figlio, Carpilio, era stato mandato come ostaggio presso gli Unni dopo la fuga di Ezio in Pannonia). Ora l'ambizioso patrizio aveva concepito il disegno di combinare per Gaudenzio un matrimonio con una delle due figlie di Valentiniano, Eudocia e Onoria. Quando però l'imperatore, conclusa nel 442 la pace coi Vandali, aveva promesso in sposa Eudocia, la maggiore, al figlio di Genserico, Unnerico, al patrizio si era rivelata la manovra dinastica rivolta a suo danno, e si era impegnato attivamente per scongiurarla. Un accordo fra Valentiniano e Genserico avrebbe potuto significare la sua fine ed Ezio era infine riuscito, esercitando tutta la pressione di cui era capace, a ottenere il fidanzamento di suo figlio Gaudenzio con la figlia secondogenita del sovrano, Placidia, e a strappare allo stesso Valentiniano una solenne promessa di amicizia. Nel 454 Placidia aveva ormai circa dodici anni e Gaudenzio quattordici; anche se entrambi erano troppo giovani anche per il costume romano, le insistenze di Ezio per affrettare il matrimonio erano divenute continue (e, del resto,suo zio Onorio a suo tempo aveva sposato Maria all'età di soli quattordici anni).

      Proprio queste insistenze, reiterate e forse importune, stavano contribuendo a esacerbare l'animo dell'imperatore, che sin dalla fanciullezza aveva sempre considerato Ezio un traditore e una potenziale minaccia, e che dopo la morte di sua madre Galla Placidia aveva perduto l'unica persona capace di esercitare un benefico ruolo di equilibrio fra lui e l'invadente generale. Valentiniano, che si era visto strappare quasi con la forza la promessa di matrimonio di Placidia con Gaudenzio, temeva di veder fallire i suoi progetti di alleanza con Genserico. Infatti, a causa delle manovre di Ezio, il matrimonio di Eudocia (ormai quindicenne o sedicenne) con Unnerico era stato continuamente rinviato.

Nell'estate del 454 prese corpo una congiura contro Ezio, in cui una parte importante fu svolta dal primicerius sacri cubiculi, l'eunuco Eutropio, un nemico personale del patrizio. "Tragico poi doveva essere il contrasto - ha scritto il Paribeni - tra la ieratica concezione che era venuta a formarsi della maestà e dell'onnipotenza dell'imperatore e dei sacri diritti dei discendenti del grande Teoidosio, e la effettiva loro miseranda debolezza. Di quelle concezioni Valentiniano III viveva, su di esse posava tutta la sua autorità, di esse rivestiva e mascherava tutta la propria intima insufficienza. Sentirle per anni, ad ora ad ora, menomate e fatte vane, potè finalmente provocare la irragionevole e tragica ribellione che costò la vita ad Ezio, e privò l'Impero d'Occidente dell'ultimo suo grande generale." (4)

      Ma se le fila della congiura facevano capo al  palazzo dei Cesari sul Palatino, non sembra verosimile che essa potesse maturare del tutto al di fuori delle fazioni politiche e dei grandi interessi economici della Penisola. Fino a quel momento la vera forza del potere di Ezio aveva riposato, oltre che sull'esercito (e, particolarmente, sull'elemento barbarico di esso) sull'aristocrazia senatoria interessata alla difesa del sistema economico basato sul latifondo, e lo Stein ha supposto che questa classe sociale appoggiasse il patrizio come un blocco compatto. Effettivamene, le molte leggi favorevoli ai senatori promulgate durante il regno di Valentiniano III, la rtiabilitazione della memoria di Flaviano, l'ascesa politica di personaggi come Petronio Massimo, console una prima volta nel 433, sono fatti incontestabili, ma non è affatto certo che fossero unicamente espressione di una politica filo-senatoria di Ezio.  Galla Placidia e suo figlio Valentiniano avevano almeno altrettanto interesse a cercar di spezzare quella pericolosa alleanza, perseguendo a loro volta una politica favorevole al Senato. Fin dalla proclamazione del piccolo Valentiniano ad Augusto, sua madre aveva stimato opportuno adottare un atteggiamento estremamente amichevole verso quell'antico consesso.  Le remissioni generali dei tributi concesse da Valentiniano (nel 438 e nel 450) vanno inquadrate nel costante perseguimento di una tale politica; e, quanto alla trionfale carriera politica di Massimo, gli avvenimenti successivi avrebbero dimostrato ch'essa era dovuta al favore di Valentiniano, non certo di Ezio.

    Nel 454, dunque, non appare probabile che l'aristocrazia senatoria, nella sua totalità, fosse sempre sostenitrice di Ezio; una parte di essa era stata attratta verso la corte, e la disastrosa invasione unna del 452 aveva ulteriormente diviso le sue simpatie. Ma un semplice esame degli interessi economici non sarebbe sufficiente a chiarire i rapporti di forza esistenti al tempo della congiura conro il patrizio: accanto agli interessi economici, e spesso intreccciati ad essi, stavano gli orientamenti politci delle due grandi fazioni che dividevano l'Italia almeno fin dal tempo di Teodosio il Grande.  Il partito nazionalista romano, ciecamente antigermanico e perciò favorevole a una più stretta unione con la corte di Costantinopoli, che sola poteva aiutare l'Occidente a fronteggiare le invasioni, non aveva mai perdonato ad Ezio la sua politica filo-barbarica di stampo stiliconiano, né aveva piegato il capo sotto il peso dei propri insuccessi e delle pubbliche calamità, culminate nel sacco di Roma del 410 e, poi, nell'invasione unna. In essa era possibile distinguere una corrente moderata, che aveva trovato un capo potenziale in Maioriano, ed una estremista, occultamente diretta da Petronio Massimo (5): correnti che, per il momento, procedevano unite nel segno del comune odio contro il patrizio.

       È ben vero che Ezio aveva sempre riservato gli alti comandi dell'esercito ad ufficiali romani, deciso a non riptere l'errore di Valentiniano II con Arbogaste e, in tempi più recenti, di Arcadio con il goto Gainas. Benché composti in misura sempre maggiore da truppe germaniche (e unne, nel periodo 436-439), gli ultimi eserciti di Roma non erano scesi in campo che assai raramente sotto la guida di comandanti barbari; e se il germano Sigisvulto aveva condotto l'attacco contro Bonfacio nel 428, Litorio, Avito, Marcellino e lo stesso Maioriano erano tutti romani. Questo però non bastava a calmare lo scontento del partito nazionalista, che avrebbe desiderato una politica di lotta aperta contro ogni forma di imbarbarimento dell'organismo statale, e che guardava con invidia ai successi riportati in tale direzione dalla corte dell'Impero d'Oriente.

        Infine, anche il clero cattolico nutriva forti ragioni di scontento nei confronti del patrizio. Oltre al fatto che sospettava esservi la sua ispirazione dietro i provvedimenti legislativi di Valentiniano tendenti a ridurne i privilegi, esso - o almeno la sua componente più fanatica e intollerante - era rimasto scandalizzato dagli atteggiamenti di benevola neutralità nei confronti del paganesimo, ostentati dal potente ministro.

 

3. CONGIURA E ASSASSINIO DI EZIO.

 

       Tutte queste fazioni e questi interessi si coagulavano presso la corte, ove Valentiniano, sempre più messo alle strette da Ezio per il progettato matrimonio di Gaudenzio con Placidia, cominciava a considerare la morte del suo generale come la sola possibilità di liberarsi dalla sua opprimente tutela. I pretesti costituzionali non mancavano:  per due volte., nel 425 e nel 433, Ezio si era servito di eserciti unni per minacciare l'Italia e ricattare l'imperatore, rendendosi colpevole - di fatto - del delitto di alto tradimento. Solo la debolezza del governo e lo scadimento dell'autorità imperiale avevano potuto lasciarlo impunito. Ormai, dopo la scomparsa del pericolo uuno, Ezio doveva apparire a Valentiniano non solo inutile, ma addirittura un serio ostacolo per la progettata alleanza con Genserico. Se, poi, realmente l'imperatore pensasse di poter controbilanciare la crescente potenza continentale dei Visigoti, saldamente insediati in Gallia e Spagna, con quella marittima dei Vandali, padroni del Nord Africa, è un'altra questione.

      Valentiniano, inoltre, ben sapeva che  il trono di Ravenna non sarebbe mai andato a un futuro erede di Eudocia e Unnerico, stante l'implacabile pregiudizio anti-germanico del Senato; e, di conseguenza, se il matrimonio di Gaudenzio con Placidia avesse avuto luogo, esso sarebbe inevitabilmente toccato, dopo la sua morte, al figlio di Ezio. La sua stessa vita, forse, dopo quel matrimonio, non sarebbe più stata sicura: questo, probabilmente, gli sussurravano all'orecchio uomini come il senatore Massimo.

     Dunque, occorreva eliminare il patrizio prima che fosse troppo tardi, ma, come già Galla Placidia nel 430, dopo l'assassinio di Felice, Valentiniano non disponeva di alcuna forza militare "sicura" per conseguire tale obiettivo. Far ricorso alle ultime unità romane, ammesso che ve ne fossero, sarebbe stato imprudente, e avebbe pouto scatenare una guerra civile emtro l'esercito, provocando la reazione dei contingenti barbarici devoti al patrizio.  Inoltre quest'ultimo si muoveva sempre accompagnato da un corpo di fedelissimi buccellarii, e l'unico luogo in cui sarebbe stato possibile sorprenderlo da solo era, naturalmente, l'interno del palazzo imperiale.  Valentiniano, se - come noi crediamo - premeditò l'eliminazione di Ezio, dovette giungere inevitabilmente a una tale conclusione. Oltre al fatto che solo dentro il sacro palatium il generale avrebbe dovuto congedare la scorta, rimanendo vulnerabile, un'azione del genere avrebbe potuto prevenire lo scoppio di lotte intestine in seno all'esercito, lasciandolo al di fuori del complotto. Rimangono comunque dei problemi insoluti riguardo alla preparazione della congiura e, in particolare, non risulta chiaro perché Valentiniano abbia deciso di agire di persona, assumendosi dei rischi politici e personali non necessari.

      Il 21 settembre del 454 Ezio si recò al palazzo imperiale, in Roma, per discutere con l'imperatore di questioni riguardanti il tesoro.  Non è ben chiaro se il patrizio, fidando eccessivamente nel proprio potere, ne abbia profittato per tornare ad insistere, con toni insolenti, sul matrimonio di Gaudenzio, o se Valentiniano, già deciso a eliminarlo, lo abbia provocato deliberatamente. Sta di fatto che la discussione fra i due, facendosi via via più accesa, sfociò in un diverbio, e a un tratto l'imperatore, accusando il suo ministro di tradimento, sguainò la spada e lo trafisse; l'eunuco Eraclio lo colpì a sua volta. Ezio, colto del tutto alla sprovvista, senza quasi avere il tempo di comprendere quel che stava accadendo, cadde esanime ai loro piedi.

      Questa fu la fine del patricius, e la critica moderna si trova tuttora divisa nel giudicare la sua figura e la sua opera, come lo furono a suo tempo i contemporanei. Essa gli riconosce quasi unanimemente grandi capacità politiche e soprattutto militari e, per quanto sorga spontaneo un parallelo con la morte di Stilicone nel 408, decapitato per ordine di Onorio, un attento esame delle circostanze della sua vita e della sua morte sottolineano le profonde differenze tra i due uomini. Stilicone appare più fedele alla memoria di Teodosio, più leale nei confronti dello Stato, tanto che andò incontro alla morte quando ancora avrebbe potuto difendersi, pur di scongiurare una rivolta dell'elemento militare germanico. Ezio sembra essere stato più pragmatico e forse anche cinico, non perse mai di vista il proprio interesse e non esitò ad anteporlo all'integrità dell'Impero. L'impressione è che Ezio stia proprio nel mezzo - e non solo cronologicamente - fra Stilicone, il barbaro "idealista" e innamorato della romanità, e Ricimero, il barbaro che giocò con gli ultimi imperatori dellOccidente, manovrandoli come tanti burattini e gettandoli via quando non servivano più ai suoi scopi.

      Tuttavia, è indubbio che l'energia e il prestigio di Ezio contribuirono a sostenere l'Impero d'Occidente in un periodo difficilissimo, concedendo ai suoi logori meccanismi un supplemento di vita. Sia pure con una certa enfasi retorica, il filosofo e storico scozzese David Hume ha espresso un giudizio che la maggior parte degli studiosi moderni ha sostanzialmente confermato: "Reggeva a quei tempi, valoroso e magnanimo, Ezio patrizio le vacillanti reliquie dell'Impero, e faceva fra i Romani degenerati risorgere lo spirito e la disciplina degli avi." (6)

      Una volta compiuto l'assassinio, Valentiniano non volle dar segno di debolezza cercando di nasconderlo, anzi fece esporre il corpo di Ezio nel Foro, quasi per ammonire i suoi seguaci desiderosi di vendicarlo; quindi convocò il Senato per esporre personalmente la sua versione dei fatti. Seguì un'ondata di arresti ed esecuzioni fra gli amici dell'estinto, che non risparmiò lo stesso prefetto del pretorio d'Italia, Boezio (nonno del celebre filosofo). Quindi vennero spedite ambascerie presso i vari popoli barbari per spiegare che nessun cambiamento di politica estera era nei programmi del governo romano - cosa che dimostrava, indirettamente, quanto grande fosse stato il ruolo esercitato da Ezio nelle relazioni con i potentati germanici. I Visigoti accolsero con stupore la notizia dell'uccisione del generale, e con un certo disprezzo quegli approcci diplomatici che nascevano dalla debolezza e dal timore di una corte imbelle; Genserico, invece, con palese soddisfazione. Ora che che era scomparso l'uomo che a lungo si era opposto al matrimonio di  Eudocia con Unnerico, eccellenti relazioni potevano essere ristabilite, e un immediato riflesso di questo nuovo corso fu la concessione dei Vandali ariani ai cattolici d'Africa di eleggersi un proprio vescovo a Cartagine.

      Anche sul piano interno, Valentiniano si trovò a dover affrontare una situazione estremamente delicata e pericolosa.  La scomparsa dell'uomo che aveva tenuto insieme, con infaticabile energia, gli ultimi resti della sovranità imperiale in Occidente, provocò degli immediati contraccolpi tanto in Gallia che in Spagna. In Dalmazia, il conte Marcellino, fedele partigiano del defunto, dissociava i propri destini da quelli dello Stato e assumeva una condotta di completa indipendenza. Infine nella stessa Roma i seguaci del defunto covavano la vendetta, mentre l'ambizioso Massimo, che nella congiura aveva avuto un ruolo importante benchè oscuro, si dava da fare per succedergli nel patriziato presentale. Ma Valentiniano, dopo essersi sbarazzato di Ezio, non aveva alcun desiderio di concedere troppo potere a un nuovo generale (per quanto verosimilmente poco temibile, poiché Massimo non godeva di alcun ascendente fra le truppe), e preferì assumere personalmente il comando dell'esercito.

       La mossa successiva del sovrano fu quella di tentare una riconciliazione con il "partito" dello scomparso, e in quest'ottica bisogna interpretare sia il richiamo di Maioriano, sia  il progetto di dare in sposa a quest'ultimo la figlia Placidia - progetto rinverdito dopo un periodo di oblìo. Valentiniano, per lo meno, si rendeva conto della impossibilità di sopprimere tutti i partigiani di Ezio, dato che essi costituivano la maggioranza in seno all'esercito. Intenzionato a esercitare di fatto le prerogative del comando supremo, voleva mostrare di non aver paura di possibili vendette, e in tal modo sperava di conquistarsi il rispetto dei soldati. Coraggio ne aveva, forse anche troppo, dal momento che spinse questa politica fino al punto di ammettere nel proprio seguito personale alcuni fedeli buccellarii dell'estinto. Uno studioso americano ha giudicato che quesata decisone può essergli apparsa, nonostante tutto, sotto la luce di "un rischio calcolato". (7)

      Ma come ammettere che Valentiniano,  da tanti storici considerato "inetto a vivere e a pensare da solo" (8), e anzi probabilmente "ozioso, irresponsabile e dissoluto" (9), fosse capace di un proprio disegno politico e di una indubbia dose di coraggio personale? Ecco dunque che la presenza degli ex buccellarii di Ezio al seguito dell'imperatore viene spiegata (ad esempio, dal Gibbon) in termini d'imprudenza, dovuta al fatto che Valentiniano "supponeva che ogni animo umano fosse come il suo, privo di amicizia e di gratitudine." (10) E come nel caso del viaggio a Roma del sovrano nel 452, quando Attila aveva invaso l'Italia, interpretato come un fuga (mentre è quasi certo il contrario), così anche ora il Gregorovius fa puntualmente eco alle accuse del Gibbon: "Un sintomo rivelatore dell'ottuso dispotismo di Valentiniano è il fatto che, dopo aver assassinato Ezio, egli prese al proprio servizio gran parte dei servitori di lui. Mostrando a questi barbari di non avere alcuna fiducia in loro e di ritenerli assolutamente incapaci di nobili sentimenti, ne ferì profondamente l'amor proprio e li spinse a una sanguinosa vendetta." (11)

    La situazione, a Roma e in Italia, doveva essere satura di tensione. Mentre le truppe germaniche e quella parte dell'aristocrazia senatoria che era rimasta fedele a Ezio incominciavano ad agitarsi, la gravità del gesto compiuto dall'imperatore produceva una spaccatura nelle file stesse del partito nazionalista romano. Quella che potremmo chiamare l'ala moderata, sgomenta per l'enormità del fatto e convinta che, in Occidente, una politica apertamente anti-germaica fosse ormai irrealistica, si distaccava dalla fazione più estremista. Forse a ciò è da imputarsi il fatto che Maioriano, il suo maggior rappresentante, non cercò di approfittare della situazione per spingere Valentiniano a concedergli ciò che sarebbe stato forse possibile, cioè la co-reggenza dell'Impero o, almeno, il grado di magister militum.  L'ala più accesamente nazionalista, d'altra parte, doveva esser giunta alla conclusione che l'eliminazione di Ezio aveva peggiorato la sua posizione, rivelando tutta la sua impotenza. Quanto al suo occulto regista, Petronio Massimo, rimasto deluso nelle sue smodate ambizioni e timoroso di venir soppiantato da Maioriano, incomincoiava a rendersi conto dell'aumentata debolezza del governo e, quindi, ad accarezzare la possibilità di un audace colpo di mano per impadronirsene.

 

 

4. CONGIURA E ASSASSINIO DI VALENTINIANO.

 

      Prese corpo in tal modo una seconda congiura, animata dallo stesso Massimo e da una parte del Senato e affidata, per quel che riguardava l'aspetto materiale, ai fedeli ex buccellarii di Ezio. A questo punto s'inserisce il famoso racconto di Procopio di Cesarea, che tanto peso ha avuto nella valutazione degli storici moderni e che merita, perciò, un attento esame. Nel suo De Belllo Vandalico lo storico bizantino afferma che Massimo concepì l'idea del regicidio perché Valentiniano ne aveva vilolentata la moglie, e che l'uccisione di Ezio, da lui considerato il principale ostacolo ai propri piani, non fu che la prima parte dell'attuazione della sua vendetta. Massimo, quindi, per ragioni assolutamente private, concepì il disegno di uccidere il sovrano e di prenderne il posto; e volle per prima cosa indurlo a sbarazzarsi di Ezio, che a suo avviso ne era il più valido sostenitore. L'aneddoto può meritare la stessa attenzione di tanti altri riportati dallo storico dell'età giustinianea, e cioè ben poca; gli stessi particolari salaci e fin troppo ingegnosi sanno più di romanzo che di storia. Procopio, infatti, narra che Valentiniano, vinta al gioco a Massimo una forte somma, si fece dare in pegno da questi l'anello che gli sarebbe poi servito per attirare l'ignara matrona a palazzo, e violentarla. Strano ma vero, questa tradizione romanzesca ha trovato un'eco favorevole e pressoché unanime fra gli storici non solo antichi, ma anche moderni: anzi è servita di base per arguire che Valentiniano, essendo un debosciato, evidentemente aveva commesso già altre azioni del genere, e quindi la congiura ordita contro di lui aveva trovato un terreno favorevole fra i senatori, molti dei quali avevano da lamentare analoghi torti da parte del vizioso imperatore. (12) Dunque, sulla base di un'esile e più che dubbia tradizione, posteriore ai fatti di circa un secolo, si è voluto generalizzare il comportamento dissoluto dell'imperatore, costruendo un improbabile castello di arbitrarie supposizioni, che è stato tramandato acriticamente, e quasi universalmente accettato. Non è qui il caso, naturalmente, di riaprire la vecchia questione intorno alla liceità dei giudizi morali in sede storiografica. Qui ci limiteremo ad osservare che, se i costumi sessuali di Valentiniano III erano dissoluti, ciò potrebbe interessare lo storico solo incidentalmente, nel caso cioè che abbia relazioni dirette e provate nella sfera politica. È chiaro che Procopio voleva screditare la dinastia di Teodosio in Occidente, e il suo pettegolezzo pruriginoso ha raggiunto un successo quale forse lui stesso non avrebbe osato immaginare.

      Quanto a Petronio Massimo, l’esser riuscito a utilizzare quale strumenti delle proprie ambizioni proprio dei vecchi seguaci di Ezio (cioè degli uomini che avrebbero dovuto riconoscere in lui il principale istigatore dell’assassinio del loro capo) fu un vero capolavoro di abilità e spregiudicatezza; anche se, nel giudicare le circostanze favorevoli alla propria usurpazione, commise un grossolano errore. Se, infatti, Valentiniano aveva commesso un’imperdonabile imprudenza uccidendo Ezio di propria mano, dal momento che i buccellarii dell’estinto non nutrivano alcun sentimento di fedeltà dinastica, ma solo una cieca fedeltà personale al loro padrone, Massimo non seppe valutare l’importanza rappresentata dalla continuità dinastica della casa teodosiana. Non si rese conto che, recidendo l’ultimo anello della legittima dinastia, che da decenni aveva rappresentato un fattore di stabilità in mezzo a tanti turbamenti, avrebbe recato lui stesso un colpo decisivo all’edificio, del quale contava impadronirsi come nuovo sovrano.

      Valentiniano aveva preferito come sua residenza l’ancor fastosa Roma alla malinconica Ravenna, manifestando apertamente la sua simpatia per la vecchia capitale, ove già negli anni precedenti aveva soggiornato più volte. Il 16 marzo del 455 egli stava assistendo, col suo seguito, alle esercitazioni militari delle truppe presso la villa chiamata ad duas Lauros, non lungi da Roma. Improvvisamente due buccellarii germanici, Opitla e Traustila, sguainarono le spade e lo stesero morto insieme all’eunuco Eraclio, senza che né le truppe, né il numeroso seguito accennassero la sia pur minima reazione. Tale fu la fine dell’ultimo imperatore romano della dinastia di Teodosio il Grande (anche Pulcheria era morta, due anni prima), all’età di trentasei anni; con la sua scomparsa, l’ultima fase della catastrofe imperiale subì una precipitosa accelerazione.

       Dopo la morte di Valentiniano III, esistevano diversi candidati alla successione, e fra tutti spiccava il nome di Maioriano, che ai propri meriti personali poteva aggiungere il favore di cui aveva sempre goduto presso la famiglia imperiale, e anche la stima di Ezio prima dell’incidente che li aveva allontanati. Ma l’ambizioso Massimo, l’artefice della doppia congiura, riuscì a battere tutti sul tempo: poiché disponeva di immense ricchezze con le quali ingraziarsi le truppe, esse l’indomani del regicidio lo acclamarono imperatore in Roma (17 marzo 455).

      Benché non più giovane (era nato nel 396 e aveva, dunque, cinquantanove anni), Massimo aveva alle spalle una carriera fortunatissima di cui vantarsi: era stato comes sacrarum largitionum (nel 415, non ancora ventenne), e prefetto di Roma (420) sotto Onorio; poi console (433), prefetto del pretorio d’Italia (439-441), nuovamente console e infine patrizio. A tutto questo poteva aggiungere l’appartenenza alla nobilissima gens Anicia, una delle più in vista dell’Urbe. Egli, inoltre, non era privo di senso politico e, se commise un errore sottovalutando la continuità dinastica rappresentata  da Valentiniano, cercò di rimediarvi imparentandosi egli stesso con la famiglia imperiale. Non solo egli (rimasto, nel frattempo, opportunamente vedovo) costrinse la vedova di Valentiniano a sposarlo, contro sua voglia, ma costrinse anche la figlia minore di Eudossia, Placidia, già fidanzata con il figlio di Ezio, a promettersi a suo figlio Palladio, da lui associato all’impero col titolo di Cesare (secondo un’altra versione, volle fidanzare Palladio con Eudocia, la sposa promessa del vandalo Unnerico).

 

 

5.  IL SACCO VANDALICO DI ROMA.

 

       Il regno di Petronio Massimo, comunque, fu uno dei più brevi nella storia dell'Impero Romano. Esso non durò neppure due mesi e mezzo, durante i quali il nuovo imperatore ebbe tuttavia il tempo di rimpiangere amaramente la gravità del passo che aveva compiuto. Scomparso il genio politico e militare di Ezio con tutto il suo ascendente sugli irrequieti popoli barbari, scomparso Valentiniano con il prestigio della legittima discendenza dinastica, Massimo non era in grado di rimpiazzare né l'una cosa, né l'altra.  Egli si era attirato l'avversione dell'ala moderata del partito nazionalista, soppiantando Maioriano, senza essere riuscito a conciliarsi il favore dei seguaci di Ezio, cui l'mpunità concessa ai regicidi era giustamente apparsa sintomo di estrema debolezza, piuttosto che manifestazione di generosità politica.  Quanto alla parte più accesa del partito anti-germanico, essa di lì a poco avebbe fornito la prova provata della propria penosa impotenza, e già nel clima d'incertezza e di tensione regnante nell'Urbe si stava dimostrando incapace di tenere saldamente in pugno la situazione. Massimo diede ancora una volta prova di abilità e intelligenza scegliendo Eparchio Avito, il vecchio generale di Ezio che tanto spesso aveva trattato con il potente regno visigoto, quale magister militum per Gallias; ma non riuscì a stabilire rapporti amichevoli con l'altro grande regno barbarico, quello vandalico. Egli avrebbe voluto che il progettato matrimonio fra Eudocia e Unnerico (o fra Pulcheria e Unnerico) non subisse ostacoli, ansioso di non inimicarsi Genserico in un momento in cui l'Italia appariva incapace di resisterea a un altro grande attacco in forze della flotta vandalica, com'era stato quello del 440. Ma Genserico aveva ben altri piani: egli sperava forse di poter insediare un proprio fantoccio sul trono dell'Occidente, e, dichiarando che con le morti di Ezio e di Valentiniano veniva a cessare ogni validità dei precedenti trattati con l'Impero, procedette ad occupare senza indugio le restanti province romane del Nord Africa ancora sottoposte al governo romano. Non solo: allestì una grande flotta per salpare contro l'Italia che, uscita al porto di Cartagine, occupò con facilità la Sardegna e la Corsica; quindi si diresse velocemente verso la foce del Tevere, ove si presentò nel  maggio del 455, con immenso terrore dei Romani.

      Ha scritto lo storico Charles Dufay: "Le sentinelle romane, nello scorgere le prime vele, pensarono ad un assalto piratesco, proveniente, com'era logico, dalla vicina Sardegna. Stavano per precipitarsi giù dalle loro torri d'osservazione, ansiose di segnalare l'imminente pericolo, quando il loro occhio fiu attratto dal moltiplicarsi continuo e impressionante  delle vele che riempivano via via l'orizzoonte. Atteriti, quasi increduli di ciò che vedevano,  paralizzati dalla paura e dallo stupore,  videro le acque coprirsi di navi sin dove poteva giungere lo sguardo: centinaia e centinaia di triremi, dalle quali poi si staccavano le  scialuppe colme di biondi guerrieri vocianti, di macchine belliche, di cavalli, di carri. Riconobbero le insegne vandaliche e il terrore si tramutò nella fredda certezza della morte senza scampo, mentre i barbari a frotte prendevano terra e correvano  all'impazzata dalla riva verso l'interno.

      "Un'ora più tardi  Porto fumava e fiammeggiava nel sole del mattino. Le sue strade  e le sue piazze erano cosparse di cadaveri orribilmente squartati e sventrati. Tutti gli uomini capaci di portare le armi erano stati passati a fil di spada. Le donne a centinaia, riunite sotto i portici degli edifici pubblici,  attendevano di venir imbarcate come schiave. Molte di loro con i bambini in braccio o per mano che piangevano terrorizzati. Alcune di quelle donne, con le vesti  a brandelli, recavano i segni delle violenze innominabili che avevano dovuto subire. Qualcuna quae là urlava e si dibatteva, trattenuta dalle compagne, in preda ad una crisi isterica; ma tutte le altre tacevano come inebetite e stravolte, oppresse dall'improvvisa sciagura che né lacrime né parole potevano ridire. Alcuni Vandali le tenevano a bada, mentre i loro compagni radunavano i cavalli, il bestiame, le scorte di cibo, e andavano di casa in casa predando e fracassando tutto ciò che non portavano via.

     "Si trattava delle sole avanguardie dell'esercito vandalico, il cui grosso stava ancora sbarcando sul litorale, sotto lo sguardo attento di Genserico che si era fatto accomodare un sedile, una specie di trono d'avorio, d'ebano e d'oro con ricche pelli, in un luogo sopraelevato." (13)

 

      Ormai la situazione stava precipitando: Massimo, che non era in grado di organizzare alcuna difesa, cercò di fuggire ma venne lapidato per le strade dalla folla inferocita, e il suo cadavere straziato gettato nel Tevere (31 maggio 455). Mentre i Vandali, sbarcati a Portus insieme a contingenti berberi e avanzavano verso Roma, la popolazione, paralizzata dal terrore, sembrava incapace sia di armarsi che di fuggire. Pertanto fu un'ambasceria del tutto inerme quella che andò incontro all'invasore: la guidava, come già nel 452 al campo di Attila, papa Leone, vegliardo armato solo della propria autorità spirituale. Questa volta, a differenza di tre anni prima, sembra che il Senato non abbia avuto parte nella sua organizzazione. In mezzo al crescendo delle invasioni barbariche e delle pubbliche calamità, il prestigio della chiesa saliva tanto rapidamente, quanto quello dell'Impero toccava il punto più basso.

      Significativamente, questa volta nessuna leggenda di apparizioni miracolose o di terrori ultraterreni fiorì intorno al colloquio del pontefice con l'astutissimo e spregiudicato Genserico. Tuttavia, se Leone non riuscì a preservare il suo gregge dalla terribile sciagura del saccheggio, egli ottenne almeno dal re vandalo la promessa di non portare l'incendio entro le mura della città e di non spargere il sangue della popolazione che non avesse opposto resistenza.

      E il 2 giugno 455, quarantacinque anni dopo il sacco di Alarico, i Vandali per la Via Portuense irrompevano nell'Urbe, abbandonandosi a un saccheggio feroce e sistematico. Nessun timore di punizioni divine turbò l'animo di Genserico; e se i Visigoti "avevano infuriato per soli tre giorni cercando di portar via da Roma il maggior bottino possibile ed erano poi rimasti turbati dalla loro stessa impresa, i Vandali, al contrario, depredarono la città impunemente e in piena tranquillità, poiché Genserico concesse loro ben quattordici giorni di saccheggio." (14) Furono due settimane interminabili, eterne per la miseranda popolazione romana, e se è vero che i Vandali non distrussero, a quanto pare, i monumenti della città, non dovettero però mancare le scene di sfrenata violenza, tanto più che gli ariani Germani e i Berberi pagani non nutrivano per la religione cattolica lo stesso rispetto manifestato a suo tempo da Alarico (e che lo aveva spinto a risparmiare tutti coloro che si erano rifugiati nelle chiese). Essi si diedero a spogliare sistematicamente la città di tutte le sue ricchezze e caricarono sulle loro navi, fra l'altro, le spoglie del Tempio di Gerusalemme, che Tito aveva portato a Roma al tempo del suo trionfo, le statue del Tempio di Giove in Campidoglio, e perfino le tegole di bronzo del suo tetto. "Gli infelici romani dovettero credere che i predoni beduini della terra di Giugurta e le tribù germaniche dei Vandali volessero frugare nelle viscere stesse della loro città." (15)

      Infine il 16 giugno, carichi di bottino, i Vandali lasciarono l'Urbe desolata e s'imbarcarono sulle loro navi, diretti a Cartagine. Trascinavano seco, insieme a migliaia di prigionieri d'ambo i sessi, l'imperatrice Eudossia, le sue figliole Eudocia e Placidia, e il figlio di Ezio, Gaudenzio. Ma, dal punto di vista politico, l'impresa di Genserico era stata sterile: egli costrinse bensì l'infelice Eudocia a sposare Unnerico, e maritò Placidia al nobile romano Anicio Olibrio (pensando, eventualmente, di potersi servire in seguito di quest'ultimo), ma non fu poi di fatto in grado di sostenere le pretese all'Impero d'Occidente né per l'uno, né per l'altro. Quel che aveva fatto era stato troppo grave per potersi inserire ancora nel gioco della successione romana; non gli restava che continuare la sua carriera di predone.

 

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6. LA QUESTIONE DELL’INVITO DI EUDOSSIA A GENSERICO.

 

      Un'ultima questione ci rimane da esaminare in relazione al sacco vandalico di Roma. Il fatto che Genserico avesse varato la spedizione contro la città in veste quasi di vendicatore di Valentiniano (futuro suocero dì suo figlio); e, più ancora, la tendenza, da p arte dei contemporanei oppressi da tante sciagure, a "personalizzare" l'origine dei propri mali, diedero luogo alla tradizione che il re vandalo fosse sbarcato a Portus dietro un esplicito, benché segreto, invito della stessa Augusta, Licinia Eudossia.

       Nella storiografia del V secolo, di fatto, era assai diffusa la tradizione degli "inviti" per spiegare le calamità dell'Impero. Stilicone avrebbe "invitato" Vandali, Alani e Burgundi oltre il Reno nel 406; Bonifacio, i Vandali in Africa nel 429; Onoria avrebbe invitato Attila nel 450. È interessante notare come questo tipo d'interpretazione storica si diffondesse fino agli angoli più remoti del mondo antico in rovina, un analogo invito venne immaginato dai Britanni per spiegare l'invasione dei Sassoni nella loro isola, infiorato con il solito aneddoto di amori pericolosi di regali personaggi. (16) In particolare, la versione di un invito femminile che causa lutti e disastri per l'intera società sembra coniugarsi con una certa misoginia degli scrittori cristiani di quest'epoca (risalente forse a una intrpretazione letteralistica del racconto della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, ove la donna sembra la maggior colpevole) nonché con il maschilismo - se così possiamo chiamarlo, ante litteram - delle società germaniche in via di integrazione culturale con la civiltà di Roma.

      Tipico il caso del supposto "invito", riferito da Paolo Diacono, della longobarda Romilda, vedova del duca Gisulfo, al re degli Avari, Cacano, durante l'assedio di Cividale del Friuli, nel 610. Lo citiamo per esteso, perché emblematico della tendenza succitata:

 

     "Il loro re Cacano, mentre se ne andava armato attorno alle mura con gran seguito di cavalieri per vedere da che parte potesse più agevolmente espugnare la città, fu visto da Romilda che stava sulle mura, ed essendo fiorente per l'età giovanile, la infame meretrice fu presa da concupiscenza, e gli mandò a dire per mezzo di un messaggero che se l'avesse presa in moglie gli avrebbe consegnato la città con tutti quelli che c'erano. Udendo ciò con maligno inganno il re barbaro promise che avrebbe fatto ciò che gli aveva chiesto e giurò che l'avrebbe sposata. Ella senza indugio aperse le porte della città e per disgrazia sua e di tutti quelli che c'erano fece entrare il nemico. Entrano gli Avari col loro re e devastano e rubano tutto ciò che trovano." (17)

 

      Inutile aggiungere che il crudele àvaro non mantenne la parola data, anzi inflisse alla sventurata duchessa la pena più atroce:

 

     "In quanto a Romilda, che era stata la causadi tutto, per una notte si ebbe dal re degli Avari, secondo il giuramento che le aveva fatto, una specie di matrimonio, infatti la consegnò a dodici Avari che per tutta una notte, alternandosi al suo posto, la possedettero carnalmente. Dopo di che il re ordinò che fosse piantato un palo in mezzo al campo, ve la fece infiggere sulla cima e per soprappiù la schernì dicendo:  'È giusto che tu abbia un tale marito'. Così la malvagia traditrice della patria ebbe questa fine, essa che seguì piuttosto la sua libdine che la salvezza dei cittadini e dei familiari." (18) 

      Ma un critico contemporaneo, giustamente, si è domandato: "Dobbiamo credere a tutto quello che qui racconta Paolo Diacono e le cose sono proprio andate in questo modo? Non vi è dubbio che la distruzione della città [di Cividale] da parte degli Avari fu completa. (…) Invece mi sento di sollevare molti dubbi sul tradimento di Romilda e sui motivi che lo determinarono. La duchessa, lo dice Paolo, aveva otto figli, dunque non doveva essere proprio giovanetta; inoltre aveva perduto da pochi giorni il marito e si trovava con la sua gente tagliata fuori da ogni aiuto. Le cose poi non dovevano andare troppo bene a Cividale, presa alla sprovvista dall'improvvisa incursione degli Avari, tanto che Giuslfo era riuscito a raccogliere solamente pochi dei suoi. Infine, con che forze si poteva difendere la città e quanto era possibile resistere all'assediante? Questi pensieri certo dovettero passare per la mente di Romilda che probabilmente fu portata a scegliere il male minore: arrendersi al nemico a discrezione chiedendogli clemenza per sé e per i suoi. Gli Avari accettarono il patto, diedero la parol