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Alcune considerazioni sull'opera storiografica di William Robertson

di Francesco Lamendola - 24/09/2007

     Benché oggi sia ricordato solo entro una ristretta cerchia di specialisti, lo storico scozzese William Robertson, autore di capolavori quali la Storia di Scozia durante i regni della regina Maria e di Giacomo VI fino alla sua ascesa al trono d'Inghilterra (1759), Storia del regno dell'imperatore Carlo V (1769) e Storia d'America (quinta edizione, 1788) godette a suo tempo di una fama notevole e ampiamente meritata. Fu annoverato fra i tre grandi storici britannici del Settecento, accanto a Edward Gibbon e a David Hume (quest'ultimo più noto come filosofo ed esponente di una corrente che dall'empirismo lockiano giunge fino alle soglie dello scetticismo). Abbiamo ritenuto giusto sottrarre, per quanto possibile, la figura di questo eminente studioso all'ingiusto oblio in cui è caduta, tipico esempio di quella capricciosità della storiografia che - con buona pace dei cultori della storia come "scienza" - non testimonia affatto una tendenza evolutiva, e tanto meno un accumulo di sapere sempre più selezionato, attendibile e veritiero.

 

 

 

NOTA BIOGRAFICA INTRODUTTIVA.

 

       William Robertson fu uno storico fortunato e sfortunato al tempo stesso. Fortunato, perché in vita ottenne i più alti riconoscimenti e potè attendere al proprio lavoro circondato dalla stima e dall'apprezzamento generali.  Sfortunato perché, dopo la sua morte, col, passare degli anni, le sue opere vennero un po' alla volta dimenticate, e i suoi meriti di studiosi vennero infine sottoposti a una critica impietosa da parte della storiografia del XX secolo. Oggi il suo nome è noto soltanto a una ristretta cerchia di specialisti e le sue opere, che pure venbnero subito tradotte in Italia (come nel rresto d'Europa), non sono più state ristampate e risultano quasi introvabili.

      Spesso la critica non è equa e si dimostra capricciosa ed instabile. Talvolta pare si diverta ad offuscare e poi, improvvisamente, a risollevare la memoria degli esseri umani. Fa venire in mente le rappresentazioni medievali della Fortuna: essa appariva bendata e girava senza posa la ruota delle umane vicissitudini. William Robertson fu un grande storico, forse il maggiore del suo tempo, e per molti aspetti si può considerare superiore perfino al tanto ammirato Gibbon, che anche tra i posteri è stato più fortunato. Ebbe anch'egli i propri limiti, né intendiamo in alcun modo cercare di minimizzarli. Del resto, non è in questa sede che intendiamo affrontare un discorso esauriente sulla sua opera poderosa, non ci limiteremo che ad alcune considerazioni, non sempre sviluppandole in maniera unitaria. Ma è tempo che il nome di William Robertson venga tratto dall'ingiusto oblìo in cui, da troppo tempo, giace abbandonato.

     

     Tre grandi nomi hanno segnalato la storiografia britannica nella splendida gara settecentesca dell'ingegno europeo: quelli di David Hume, di William Robertson e di Edward Gibbon. In tutti e tre si palesa l'influenza dell'illuminismo francese, soprattutto di Voltaire; e due di essi, Hume e Gibbon, trascorsero vari anni sul continente, venendo direttamente a contatto con il nuovo indirizzo di pensiero diffuso dalla cultura francese. Prima di essi, si può dire che la storiografia avesse un peso del tutto trascurabile negli interessi della cultura inglese; per loro merito quasi esclusivo, essa balzò in primo piano nella seconda metà del secolo, acquistando al tempo stesso una dignità letteraria prima insospettata. Per questo tutti e tre, e specialmente il Gibbon, hanno meritato un posto nella storia letteraria oltre che nella storiografia del proprio Paese, un posto che a distanza di oltre due secoli ha confermato il suo carattere di validità non legato a contingenze del gusto e della critica.

      William Robertson nacque nel 1721 a Borthwick, nella contea scozzese di Midlothian. Nel 1743 divenne ministro presbiteriano di Gladsmuir, nell'East Lothian, e nel 1745 prese parte alla repressione del tentativo di carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d'Inghilterra. Nel 1759 apparve la sua History of Scotland during the Reigns of Queen Mary and James VI until his Accession to the Crown of England, in due volumi. L'opera ebbe immediato successo e la fama del Robertson si diffuse rapidamente dall'Inghilterra all'Europa; ed egli, che nel 1761 era stato nominato ministro e regio cappellano a Edimburgo, ottenne i più ampi riconoscimenti anche in sede ufficiale. Al plauso generale, cui si unirono David Hume e Edward Gibbon, seguì nel 1762 la nomina a rettore dell'Università di Edimburgo, nel 1763 a moderatore dell'Assemblea generale, e infine a storiografo regio perla Scozia con una pensione annua di 200 sterline.

      Nel 1769 apparve la History of the Reign of the Emperor Charles V, in tre volumi, con un'ampia introduzione panoramica sui secoli del Medioevo, dalla decadenza dell'Impero Romano all'inizio del XVI secolo. Nel 1777 vide la luce la History of America (3 volumi), della quale l'ultimo volume fu pubblicato, incompleto, nel 1796. Seguì, a grande distanza, la Disquisition concerning the Knowledge which the Ancients had of India, nel 1791. Due anni dopo, nel 1793, Robertson moriva.

 

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       La Storia del regno dell'imperatore Carlo V si divide in due parti: la prima consta di un rapido excursus sull'età medioevale ed è integrata da un'ampia appendice documentaria; la seconda, molto più vasta, tratta propriamente il periodo dell'imperatore Carlo V. In tempi moderni si è sottolineato il valore della parte introduttiva, da molti considerata più penetrante e originale dei dodici libri dedicati alla storia di Carlo V. Si è fatto carico al Robertson di aver seguito le fonti troppo strettamente; di conseguenza è  parso che, nell'introduzione sul Medioevo - necessariamente rapida e incisiva - l'autore abbia saputo padroneggiare la materia con maggior disinvoltura, e rivelato una capacità di approfondimento critico superiore alla restante parte dell'opera. A questa introduzione noi dedicheremo, per adesso, la nostra attenzione.

      E chiediamoci, in primo luogo: perché un'introduzione che abbraccia oltre un millennio di storia europea, per trattare i trentotto anni (1519-56) dell'impero di Carlo Carlo V?  Lo spirito indagatore e metodico del Robertson si palesa fin dall'inizio con questa decisione impegnativa: essa risponde soprattutto allo scrupolo di esattezza, al timore di poter falsare la prospettiva dell'indagine storica qualora il lettore - e forse anche l'autore - non abbiano ben chiaro il processo e gli sviluppi attraverso i quali l'Europa assunse la sua precisa fisionomia alle soglie dell'età moderna.

 

       "Siccome poca istruzione ritrarrebbero i miei lettori da una siffatta storia del regno di Carlo V, senza avere qualche conoscenza dello stato d'Europa, precedentemente al secolo decimosesto, così la mia brama di supplirvi ha prodotto un volume preliminare, ove ho tentato di indicare e spiegare le grandi cause ed eventi, all'azione de' quali devonsi attribuire  tutti i miglioramenti nello stato politico d'Europa, dal sovvertimento dell'Impero Romano fino al principio del secolo accennato." (Prefaz., p. 3; d'ora in poi tutte le citazioni si riferiscono all'edizione milanese del 1824, in 4 voll.).

 

      Così il Robertson, fin dalla Prefazione, espone la sua convinzione della concatenazione causale del processo storico, rivelando in partenza una differenza sostanziale con la concezione "casualistica" dello Hume, la cui History of England era stata già in gran parte pubblicata (1754-61). Il Robertson, inoltre, dichiara di voler fermare l'attenzione soltanto sulle "grandi cause ed eventi", cercando di penetrarne il significato alla luce di una visione generale dei problemi di quell'età, trascurando tutto ciò ch'è accidentale e non necessario alla comprensione del quadro d'insieme. E fin dalll'inizio egli fa una chiara ed aperta professione d'illuministica fede nel progresso della storia umana, giacché dichiara esplicitamente che l'attenzione dello storico sarà rivolta all'esame dei "miglioramenti"  prodottisi nella vita politico-sociale d'Europa nei secoli del Medioevo.

      Non essenziale alla comprensione del quadro d'insieme, dunque, egli ritiene l'esame dell'antichità classica, e individua nel drammatico trapasso dallo stato universale romano alla frammentazione territoriale, culturale e religiosa dei nuovi regni romano-barbarici, la nascita dell'Europa moderna. Ciò lo pone immediatamente di fronte a un problema dei più impegnativi, quello relativo al significato o, come allora si diceva, delle 'cause' della decadenza e caduta dell'Impero Romano: il grande tema che già stava assorbendo tutto l'ingegno e la tenacia di Edward Gibbon, nella sua titanica ricostruzione.

 

      "Due grandi rivoluzioni sono accadute nello stato politico, e ne' costmi delle nazioni europee. L'una fu causata dai progressi della romana potenza, l'altra dal sovvertimento dell'Impero Romano." ( vol. 1, p. 7).

 

      Un tema sì vasto e complesso, affrontato in una diecina di pagine, costituiva un rischio evidente: quello di una caratterizzazione generica e piuttosto banale, ricalcante le idee più comuni diffuse in proposito. Ma il Robertson lo affronta con disinvoltura e sicurezza, con uno stile rapido e incisivo di notevole efficacia, e che tuttavia non perde mai di piacevolezza e di eleganza. Egli penetra con passo leggero nel regno opaco di quegli anni oscuri e, se non dimostra una eccessiva originalità nei giudizi, le sue argomentazioni sono esposte con convinzione, e chiara e pacata è l'impostazione dei problemi.

      Delle guerre di conquista condotte dai Romani egli, inizialmente, non sembra vedere che l'aspetto negativo, le crudeli distruzioni e il trionfo della disciplina militare di uno Stato selvaggiamente imperialista, sul valore generoso ma disorganizzato dei popoli meno progrediti.

 

      "Devastata così l'Europa, si accinsero i Romani ad incivilirla…" ( vol. 1, p. 8).

 

      Ma questa seconda fase, il momento "positivo" della conquista romana, sembra insufficientemente delineato: i vincitori ricostruiscono le città distrutte e ne erigono delle nuove, ma non si pone l'accento sulla novità assoluta che la costruzione di grandi e industriose città recava in regioni, come la Gallia o la Britannia,  che unicamente per esse, e per il sistema stradale romano, conobbero una trasformazione economica, sociale, culturale, che le inserì nel contesto della civiltà greco-romana per mezzo dell'Impero universalistico dei Cesari. Rimangono perciò in ombra gli elementi di trasformazione legati alla diffusione della civiltà classica nelle zone più remote dell'Euopa occidentale, con il che si rischia di non avere gli elementi necessari per comprendere la natura di quell'altra trasformazione, che nella fase finale dell'Impero Romano vide la nascita dell'Europa moderna. Coerentemente con tali premesse, il Robertson conclude:

 

     "Era però ben lontana questa situazione[cioè l'espansione dell'Impero Romano] dall'essere felice, o favorevole ai progressi dell'umano intelletto."  (vol. 1, p. 8).

 

      Nel delineare lo stato di decadenza dell'Impero, che implicitamente viene interpretato come il momento (spenglerianamente) dell'"esaurimento" e della "cristallizzazione" delle energie vitali della Repubblica, non vi è grande originalità da parte dell'autore. Oppressione delle province, corruzione, decadenza dello spirito marziale sono indicate come le cause del generale regresso, ma superficialmente il Robertson evita un ulteriore esame di quelle che furono, a loro volta, le origini storiche di tali fenomeni. L'aspetto economico della crisi tardo-romana, come più tardi nel Gibbon,  è del tutto assente; come assente - a differenza che nel Gibbon - è l'aspetto religioso. Ma se la sottovalutazione degli aspetti economici è una caratteristica di molta parte della storiografia settecentesca (e non si può imputarla al Robertson come sua specifica manchevolezza), l'assenza di un esame della rivoluzione religiosa verificatasi alla fine del mondo antico, desta non poca sorpresa. La diffusione del cristianesimo nell'Impero e le sue ripercussioni in ogni campo della vita pubblica e privata della società tardo-antica, sono taciuti del tutto. Si ha quasi l'impressione che l'autore, ministro presbiteriano ma con una forte coscienza storica razionalista e illuminista, preferisca evitare un argomento imbarazzante, quello stesso che nei famosi capitoli XIV e XV del Decline and Fall di Gibbon ("Ho descritto il trionfo della barbarie e della religione") provocherà tanto scandalo e tante polemiche. Pare che il Robertson presentisse come l'affrontare una simile questione, nella sua posizione e con la sua formazione culturale, lo avrebbe inevitabilmente posto in una situazione contraddittoria e penosa, dalla quale non avrebbe potuto uscire se non rinunciando a una parte di sé stesso. Ma trascurando la diffusione del Cristianesimo nel tardo Impero, indipendentemente da ogni giudizio di valore circa i rapporti con la società civile, sfuggono inevitabilmente al Robertson gli aspetti "rigenerativi" che pur non mancano nella crisi romana.

       Il mondo antico è travagliato da mille interni mali e si sta sfasciando, ma sarebbe incomprensibile sia la storia della sua decadenza, sia quella dei secoli successivi se si prescindesse dal lento ma graduale sotterraneo progredire delle forze spirituali - e anche sociali e politiche - che avranno una così larga parte nel sorgere della civiltà medioevale. Così del pari sfuggono al Robertson le premesse economiche e sociali di quel sistema feudale, che sarà ampio oggetto di esame nelle pagine successive della sua opera, ma che già durante l'Impero Romano, e soprattutto nel tardo Impero, avevano trovato piena espressione nelle forme del latifondo, del colonato e dell'economia curtense.

 

 

      E così - conclude amaramente il Robertson - "il dominio de' romani, come quello di tutti i grandi Imperi, degradò ed avvilì la specie umana".  (vol. 1, p. 9).

 

 Ancora una volta si nota, al di sotto dello strato di ottimismo illuministico comune agli altri storici della sua età,  una nota di fondo imprevedibilmente pessimistica, che qua e là fa capolino tra le pagine fitte della sua opera e getta un luce di notevole complessità sull'insieme della sua concezione storica. Quanto poi egli  stesso, cittadino britannico del XVIII secolo ed espressione della cultura del più grande impero commerciale e marittimo di tutti i tempi, abbia avuto coscienza delle implicazioni del suo concetto pessimistico dei grandi imperi nella storia, non sapremmo dire. Sembra quasi che, rievocando l'imperialismo dell'Impero Romano, Robertson - che è uno scozzese - si senta piuttosto discendente dei liberi abitanti della Caledonia, che sempre respinsero quel dominio e la cui fierezza nazionale traspare dalle famose parole di Calgaco, alla vigilia della battaglia dei monte Graupio, contro i Romani del generale Agricola:

 

      "Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari affectu concupiscunt. Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant." ("Predatori del mondo intero: quando alle loro ruberie vennero meno le terre, si misero a frugare il mare. Se il nemico è ricco, eccoli avidi; se è povero, diventano arroganti. Né Oriente né Occidente potranno mai saziarli: soli fra tutti gli uomini riescono a essere ugualmente avidi della ricchezza e della povertà. Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero. Dove passano, creano deserto e lo chiamano pace."  (Tacito, Agricola, XXX; tr. di Gian Domenico Mazzocato, in Tacito. Opere complete, 4 voll., Roma, Newton & Compton, 1995).

 

      Certo è che la distanza tra tali concezioni e lo spavaldo ottimismo gibboniano, è enorme. Ecco, per esempio, come il Gibbon come conclude le sue Osservazioni generali sulla caduta dell'Impero Romano d’Occidente, inserite tra i capitoli XXXVIII e XXXIX della sua History:

 

      "Possiamo dunque raggiungere questa ottimistica conclusione: ogni età del mondo ha accresciuto e continua ad accrescere la reale ricchezza, la felicità, la saggezza e forse la virtù del genere umano."  (Edward Gibbon, Deacdenza e caduta dell'Impero Romano,  Milano, 1973, vol. 4, p. 70).

 

      La visione del Robertson rifuggirà sempre da tali perentorie prese di posizione, i suoi quadri sono sempre più sfumati, e in essi vengono graduate con maggior equilibrio le luci e le ombre.

     Un'altra osservazione, comunque, merita l'ultimo passo da noi citato dello storico scozzese. In esso è presentela stessa presunzione universalistica settecentesca, che si ritrova anche nel Gibbon:

 

      "Chi fosse chiamato a fissare il periodo della storia del mondo durante il quale lo stato dell'umanità fu più felice e più prospero, nominerebbe senza esitazione quello che trascorse dalla morte di Domiziano all'ascesa di Commodo [ossia, quello degli Antonini]." (Edward Gibbon, Op. cit., cap. III).

 

      Modello di entrambi è, naturalmente, Voltaire; e che non si tratti di mero nominalismo, appare evidente da tutta la loro concezione del progresso e della storia. Al tempo stesso, la frase del Robertson indica una tendenza alla generalizzazione, mirante a stabilire nessi e, più ancora, rapporti causali, universalmente validi e riscontrabili: "… come quello di tutti i grandi imperi…". La storia viene sottratta all'imponderabile relativismo humiano. In essa è possibile riconoscere delle linee costanti, delle connessioni dirette e facilmente individuabili fra periodi e civiltà diversi. "Propter hoc", dunque; e non solo e semplicemente, come pensava Hume, "post hoc".

      Quel che vi è di nuovo, nell'indagine sulle cause della decadenza dell'Impero Romano - a differenza, ad esempio, del Gibbon - è l'importanza assai relativa attribuita all'invasione dei popoli germanici. Certo, essa diede il colpo di grazia al cadente edificio, e le terribili devastazioni che la accompagnarono colorirono quella caduta di tinte fosche e patetiche.  Ma quel grandioso organismo sociale era già agonizzante e condannato in ogni caso; anzi, i mali che lo portarono alla rovina erano attivi già da gran tempo innanzi, e riconoscibili nella sua struttura fin dagli anni dell'antica potenza.

 

      "Una società - egli scrive - non poteva durare in questo stato più lungo tempo. Esistevano difetti nel governo de' Romani, anche nella sua forma più perfetta, che ne minacciavano lo scioglimento. (…) Una costituzione guasta e sdrucita doveva cadere da per sé stessa in pezzi, senza urto esterno." (vol. 1, p. 9).

 

 

      In questa analisi il Robertson appare veramente moderno, certamente più del Gibbon. Quest'ultimo partirà dal presupposto che l'Impero Romano raggiunse il culmine della sua forza e prosperità all'epoca degli Antonini, e che la sua successiva decadenza e caduta furono provocate, in sostanza, "dal trionfo della barbarie e della religione" (Edward Gibbon, Op. cit.,  cap. LXXI).

 

      Osserva, in proposito, il Toynbee:

 

      "Ma a Gibbon non venne mai in mente che l'epoca degli Antonini non fu l'estate, ma ‘l'estate di San Martino' della storia ellenica. Lo stesso titolo della sua grande opera rivela quanto travedesse: Decadenza e caduta dell'Impero Romano! L'autore di una storia che porta questo titolo e poi comincia nel secondo secolo delì’èra volgare, inizia certo il suo racconto a un punto che è molto vicino alla fine." (Arnold J. Toynbee, Storia comparata delle civiltà, tr. it. Milano, Newton & Compton, 1974 (compendio di D. C. Somervell), vol. 1, p. 264-265).

 

       Robertson, se ci è consentito fare una innocente supposizione, avrebbe certo approvato; soprattutto sarebbe stato d'accordo sul fatto che

 

      "…il trionfo della barbarie e della religione non era la trama del dramma, ma soltanto il suo epilogo - non la causa del crollo ma soltanto l'inevitabile accompagnamento di uno sfacelo in cui doveva terminare il lungo processo di degenerazione." (A. J. Toynbee, Op. cit., vol. 1, p. 265).

 

      La "modernità" del Robertson è alquanto ridimensionata dal fatto che il cristianesimo, come abbiamo già osservato - sia come fattore corrosivo della compagine imperiale, sia come fermento spirituale di una nuova civiltà - viene da lui passato sotto silenzio; e, quanto ai barbari, a differenza del Toynbee egli non li vede affatto nella luce di un "proletariato esterno" della società romana.

      Passando poi a confutare le teorie - allora correnti - di una grande popolosità delle terre d'origine dei barbari invasori, con grande finezza e precisione ne dimostra l'infondatezza (ma su questo argomento, cfr. anche il Saggio sulla popolosità delle nazioni antiche di David Hume, in Discorsi politici, tr. it. Torino, Boringhieri, 1969, pp. 147-233). Nei popoli germanici egli vede l'aspetto fiero e guerresco, di contro alla mollezza e viziosità dei degeneri Romani; ne ammira il vigore marziale; e, avendo in precedenza sostenuto che la disciplina, non un valore superiore permisero ai Romani le loro conquiste, con tutta coerenza rileva come, al venir meno di quella disciplina, il rapporto di forze doveva inevitabilmente inclinare a favore dei barbari. Non migrazioni di popoli, non reazioni a catena originate dalle lontane steppe dell'Asia centrale, sono per lui alle origini delle invasioni entro l'Impero, ma la pura sete di saccheggio.

 

      "Procedettero le incursioni nell'Impero di questi popoli dall'amore del bottino, anzi che dal desiderio di nuovi stabilimenti…" (vol. 1, p. 11).

 

      Come mai le invitte legioni non ressero all'urto, ma finirono per sfasciarsi e per disperdersi? Sembra che il Robertson ignori la lunga, accanita e spesso gloriosa resistenza opposta dagli eserciti romani sul limes, dal tempo di Marco Aurelio in avanti. Non una lotta alterna e durissima durata almeno tre secoli, ma soltanto pochi anni sembra che,  - nella sua ricostruzione - separino l'inizio delle invasioni dalla caduta finale dell'Impero d'Occidente. E quanto alle cause tecniche e militari della disfatta, a suo avviso esse vanno rintracciate nella decadenza della fanteria romana, cui gl'imbelli Romani preferivano ormai la cavalleria. Egli non sembra sospettare che, tecnicamente, fu proprio la cavalleria pesante dei barbari ad assicurar loro una netta superiorità rispetto alla sorpassata fanteria romana; e che, semmai, potenziando la cavalleria l'imperatore Gallieno aveva compreso il nocciolo del problema.

      Solo a questo punto il Robertson affronta decisamente il complesso problema delle "cause" della decadenza; e lo affronta con speditezza e disinvoltura, distinguendole principalmente in civili e militari. Il venir meno delle massime di buon governo, che avevano fatto la forza di Roma durante la Repubblica, e l'allentarsi della disciplina militare, che aveva consentito sì estese conquiste: tali, in sostanza, le cause individuate dallo storico scozzese. Neppure adesso il problema religioso viene affrontato; né quello economico-sociale, o quello monetario; e neppur quello dell'incapacità di assimilazione, da parte della società romana, dei popoli germanici (com'era avvenuto, ad esempio, per quelli di stirpe celtica).  Non manca di aspetti retorici e piuttosto superficiali il rapido esame dei caratteri delle invasioni, viste dalla parte soccombente; negli imperatori del tardo Impero, egli non scorge che lusso e mollezza e viltà davanti al pericolo. Pare che egli non abbia presenti le spendide vittorie di Claudio II il Gotico o di Aureliano, di Giuliano o di Valentiniano I; sembra che alla sua mente siano presenti solo i depravati, i deboli e i pusillanimi: la vuota vanteria di Commodo, le pazzie di Eliogabalo e Teodosio II che compra la pace dagli Unni a peso d'oro. È una generalizzazione che dà efficacia al quadro, ma che arresta l'indagine piuttosto in superificie: il dramma si fa troppo lineare e assume quasi l'aspetto di una lotta manichea, ove il buio è tutto concentrato da una parte, e il corso degli eventi appare scontato in partenza.

      Quando passa a considerare il carattere disastroso delle invasioni barbariche per le popolazioni dell'Impero, il quadro delle terribili calamità e sofferenze raggiunge un'intensità emotiva cui lo stesso storico non riesce a mantenersi insensibile, e gli strappa questa considerazione:

 

      "Se qualcuno fosse invitato a fissare un periodo, nella storia del mondo, durante il quale la condizione dell'umana razza fu maggiormente sventurata ed afflitta, egli indicherebbe, senza esitare, il periodo di tempo dalla morte di Teodosio il Grande allo stabilimento dei Longobardi in Italia." (vol. 1, p. 16; pare che il Gibbon abbia avuto presente questa frase quando scrisse il passo citato più sopra).

 

      Il mondo è, ancora una volta - si badi - l'Europa  meridionale e occidentale, se non addirittura l'Italia. Il futuro studioso della storia d'America e dell'India sembra per adesso non tenere in alcun conto l'esistenza di altre civiltà, anche progredite, per le quali la caduta dell'Impero Romano non fu che una lontana eco proveniente da terre poste quasi ai confini del mondo.

 

      Studiando la costituzione dei nuovi regni romano-barbarici, il Robertson ne sottolinea le caratteristiche di società fondamentalmente anarchiche, tenute insieme dal precario sentimento di fedeltà personale verso il sovrano, cioè il capo eletto per comune consenso di tutti i guerrieri. Mentre nelle civiltà progredite, come l'Impero Romano, la conquista di nuove terre è sempre un'operazione militare programmata dal potere monarchico e condotta in vista di un'ampia e consapevole politica internazionale, i barbari

 

      "… reputavano la conquista una proprietà comune, ad una porzione della quale tutti avevano un diritto, perché tutti avevano contribuito a conquistare."  (vol. 1, p. 17).

 

      Di qui l'origine stessa della diversa struttura politico-sociale dei nuovi regni romano-barbarici, basati sul sistema della delega dell'autorità sovrana a una quantità di feudatari, e di qui le origini militari dell'aristocrazia feudale in Europa.

 

      "Così un regno feudale rassomigliava uno stabilimento militare, anziché una istituzione civile." (vol. 1, p. 21).

 

      E con molta finezza il Robertson rileva la fondamentale debolezza insita in questo tipo di società, senza di che non sarebbe dato comprendere né il rapido crollo dei regni romano-germanici ariani, né la crisi del pur cristiano e cattolico regno dei Franchi, il nucleo del futuro Sacro Romano Impero. In quei regni militarmente forti covava il cancro dissolutore di una congenita debolezza politico-sociale, aggravata dall'adozione della consuetudine dell'ereditarietà dei feudi, che in origine erano la ricompensa data dal sovrano ai suoi guerrieri per meriti segnalati. Da ciò ebbero origine le endemiche, furiose lotte civili che incessantemente travagliarono le società alto-medioevali; da ciò la corruzione e l'anarchia, che perpetuavano i peggiori mali della tarda società romana, senza che di essa sopravvivessero gli aspetti positivi: le raffinatezze della civiltà e la moderazione dei costumi. Il selvaggio, ma franco e vigoroso animo dei barbari venne  venne corrotto dai mali dell'ambizione, della cupidigia, dell'egoismo, perdendo così quel che di limpido e quasi verginale ne aveva costituito, all'origine, il maggior vanto.

 

      "L'autore condivide la comune idea dell'Illuminismo che il medio evo sia un'età di barbarie e di oscurantismo, ma sa dosare le ombre e la luce, comprendendo che nella stessa barbarie v'è una freschezza di forze vive e sorgive, e che nel cammino dell'umanità i tempi di Talete e di Socrate presuppongono quelli di Omero."  (Guido De Ruggiero, L'età dell'Illuminismo, Roma-Bari, Laterza, 1974, p. 152).

 

      È quasi vichiana (e dunque, in certo qual modo, quasi pre-romantica) questa visione delle forze vive e sorgive dei giovani popoli germanici. Ma esse, fin dal primo sorgere delle nuove entità politiche sorte sulle rovine dell'Impero d'Occidente, si isteriliscono e si pietrificano; in esse l'insubordinazione e l'arroganza di una turbolenta aristocrazia feudale finiscono col ridurre il sovrano, e i regni tutti,  all'impotenza. Potè bene il genio politico di Carlo Magno rinsaldare  temporaneamente l'autorità del potere centrale; ma, a giudizio del Robertson, era inevitabile che alla sua morte l'opera faticosamente costruita andasse in frantumi, essendo tali forze disgregatrici insite nella natura stessa di ogni società feudale. Questo concetto è importante, perché serve a darci un'idea di quel che pensa l'autore circa le "svolte" impresse al processo storico dalle personalità di genio: esse possono bensì accelerare (o magari rallentare), non mai fermare o mutare il corso degli eventi causalmente concatenati.

      E, di pari passo con il disfrenarsi dei disordini in seno alla società feudale, si consuma l'opera di distruzione della civiltà romana, che può dirsi compiuta entro un secolo dalla conquista definitiva dell'Impero. Nel considerare l'aspetto culturale della civiltà medioevale, si palesa la forte istanza illuministica dell'indagine di Robertson:

 

      "Non produsse l'Europa, durante lo spazio di quattro secoli, un autore che meriti di essere letto. (…) Difficilmente si troverebbe un'invenzione utile e di ornamento alla società." (vol. 1, p. 26).

 

      Ma l'aspetto più interessante di questa tendenza illuministica è quello in rapporto alla storia religiosa dell'alto Medioevo, che per la prima volta appare al Robertson un fattore importante nella storia di quell'età. Talune sue affermazioni paiono addirittura anticipare il pensiero del Gibbon; ma è soprattutto all'empirismo e allo scetticismo di Hume che fanno pensare pagine come questa:

 

      "La religione cristiana (…) degenerò entro que' secoli di oscurità in una superstizione illiberale:" (vol. 1, p. 26). "La religione, per diversi secoli, consisté principalmente nel credere alla leggenda storica di quei Santi, i nomi de' quali riempiono il calendario romano."  (p. 60).

 

     Quando, più avanti, Robertson passa a considerare la diffusa credenza popolare circa i miracoli, il tono del ministro presbiteriano si avvicina alquanto a quello del libero pensatore, al tono di David Hume:

 

      "Tale credulità avvezzò gli uomini a pensare, che le leggi stabilite dalla natura potessero essere violate nelle occasioni le più frivole, ed impararono piuttosto a starsi in aspettazione di atti straordinari e particolari di potere della divina Provvidenza, di quello che contempla il progresso regolare e il compimento di un disegno generale."  (vol. 1, pp. 60-61).

 

      Circa dieci anni prima (nel 1748) erano apparsi i Philosophical Essays concerning Human Understanding di Hume, che nelle sezione X, intitolata Dei miracoli, affermava:

 

      "Un miracolo è una violazione delle leggi di natura; e poiché un'esperienza fissa ed inalterabile ha stabilito queste leggi, la prova contro un miracolo, tratta dalla stessa natura del fatto, è tanto completa quanto si può immaginare che lo sia un argomento derivato dall'esperienza." (David Hume, Ricerche sull'intelletto umano, tr. it. Roma-Bari, laterza. P. 145).

 

      Lo stesso tono di tranquillo razionalismo (fin troppo tranquillo, si direbbe: possibile non gli sia mai sorto il minimo dubbio che le supposte "leggi di natura" altro non siano che il paradigma della scienza occidentale moderna,  galileiana e cartesiana, cioè un modo di vedere il mondo storicamente determinato?) nel ministro presbiteriano; la stessa insofferenza e il medesimo disprezzo per il fanatismo religioso e l'ignoranza popolare.

 

      Una superstizione faceva strada all'altra…"  (vol. 1, p. 619).

 

     Altrove, del resto, Robertson cita esplicitamente Hume, definendolo "profondo ed elegante storico" (vol. 1, p. 28); e Hume, a sua volta, era stato fra i primi ad applaudire , con tutto il peso della sua autorità, la  giovanile History of Scotland del collega e compatriota.

 

   Descrivendo a cupe tinte il quadro del disfrenarsi di violenze e anarchia all'interno della società feudale, Robertson è portato quasi insensibilmente ad identificare nell'impotente sovranità medioevale l'unica possibile fonte di ordine e di giustizia, e il suo esautoramento nei feudi dei vassalli coincide con l'abbandono del popolo inerme agli abusi e ai soprusi di un'aristocraiza turbolenta e avida di potere.

 

     "Lo spirito di dominio corruppe i nobili, il giogo di servitù depresse il popolo, né più freno rimase alla ferocia e violenza." (vo. 1, p. 27).

 

      Finalmente, verso la fine dell'XI secolo, la crisi della società feudale tocca l'apice, oltre il quale essa non può oltre cadere e deve quindi, necessariamente, avere inizio la ripresa. Le Crociate ne sono al tempo stesso l'effetto e lo stimolo potente: esse indicano all'esausta civiltà medioevale la via verso nuovi orizzonti, e la risvegliano dal suo profondo letargo. E nel descrivere l'ondata di entusiasmo popolare che attraversa come un fremito l'Europa e la risveglia a nuova vita, lo storico ancora una volta sembra lasciarsi trascinare egli stesso dalla forza della rievocazione, e si abbandona entusiasta a contemplare i segni grandiosi del movimento ideale diretto verso la Terra Santa, lasciando inizialmente in ombra le cause economiche, e in genere materiali, che pure vi ebbero parte non secondaria. Dopo aver riconosciuto, con cortesia sttecentesca, l'umanità di nobili figure musulmane, come quella del Saladino, Robertson traccia a vivi colori i nuovi scenari culturali che le Crociate spalancano in Europa, e vi riemerge lo spirito illuministico che apertamente si compiace dello svanire delle "tenebre" dell'alto Medioevo. Al tempo stesso, ricompare il razionalismo estremamente critico nei confronti della superstizione religiosa, e ancora lo storico scozzese ci sorprende con  la risolutezza delle critiche a certi aspetti del cristianesimo:

 

      "Dobbiamo a queste spedizioni [cioè, alle Crociate], frutti della superstizione e follia, i primi barlumi di luce che incominciarono a scacciare la barbarie e l'ignoranza." (vol. 1, p. 26).

 

      Si osservi che i motivi ideali delle Crociate, che fino a un attimo prima erano stati caldamente esaltati, non furono dunque che un colossale, generale abbaglio. Ancora una volta, il gioco delle ombre e delle luci pare complicarsi, rende il quadro più complesso e problematico. È questa la differenza più sensibile che si riscontra fra la visione storica del Robertson e quella di molti storici suoi contemporanei, a cominciare dal Gibbon. Il tono narrativo di quest'ultimo è più pacato e uniforme, non solo dal punto di vista letterario (benché stilisticamente più elaborato), ma anche per la maggiore uniformità di ragionamento che lo sottende. Il Gibbon non ci sorprende mai: spiega, analizza, soppesa e confronta, infine dimostra; ma non ci sono mai voli nel suo ragionare, mai passaggi imprevisti. Egli procede lento e solenne, magnifico ma giammai originale o inaspettato. Il Robertson, invece, è più vario e più mosso; più svelto e, vorremmo dire, più agile nel ragionamento. Il suo stile è meno sontuoso e svolazzante ma altrettanto nobile ed elegante, forse più interessante e piacevole; non stanca e non appesantisce mai il lettore. Lo storico lo ha meravigliosamente forgiato e ha fatto della lingua uno strumento perfettamente idoneo ad esprimere la complessità e, talvolta, l'ambiguità del processo storico. Esso risponde in pieno al suo ragionare, che è altrettanto vario e complesso; e se, a tratti, appare metodico e  regolare, di colpo ci riscuote con un'intuizione, con ua illuminazione anche solo accennata, che ci lascia il compito di chiarire mediante la riflessione personale.

      Le tenebre della barbarie e dell'ignoranza sono fugate per mezzo della superstizione e della follia: una concezione così articolata e complessa rappresenta una novità nella storiografia illuministica; e lo sguardo acutamente indagatore dello storico non teme di figgersi nelle realtà più oscure e contraddittorie del passato. E, proseguendo su questa strada, Robertson giunge finalmente a individuare i moventi più egoistici e materiali delle Crociate: l'ambizione politica dei grandi monarchi europei, la fame di terre dei cavalieri esclusi dai diritti della primogenitura, gli enormi interessi economici delle Repubbliche marinare di Venezia, Genova e Pisa.  Ma quel che più interessa allo storico dell'"età dei lumi" sono le ripercussion