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Intellettuali e trasformismo. Da apologeti a denigratori in ogni cambio di regime

di Luciano Canfora - 24/09/2007




Un esercito di post sovietici è diventato di colpo anticomunista
Dopo la caduta di Bonaparte molti sostenitori lo rinnegarono

«La cronaca di questi ultimissimi anni e mesi — scriveva Carlo Ferdinando Russo al principio del 1946 — ci ha offerto di continuo molte di queste conversioni ingiuriose, e non sempre da parte di uomini del tutto umili e vili. Il merito di Seneca è di aver dato espressione artistica, o meglio letteraria, a questo stato d'animo ». L'allora ventiquattrenne allievo di Giorgio Pasquali scriveva nel pieno delle tumultuose, repentine, conversioni all'antifascismo dell'Italia del 1945 e ricorreva al termine felicissimo di «conversione ingiuriosa» per indicare quel misto di opportunismo, di risentimento contro se stessi e contro il «tiranno» e anche di schietto ripensamento che dominò le coscienze di «uomini non del tutto umili e vili», cioè in primis del ceto intellettuale.
Un ceto che ha tutta la necessaria attrezzatura per capire più in fretta degli altri e ha, forse da noi più che altrove, un «guicciardinismo » nel dna che, coniugato all'intelligenza veloce dei mutamenti, può dare risultati sconcertanti.
Lo spunto era un commento alla satira contro l'imperatore Claudio appena morto, tramandata come di Seneca e nota anche con il sibillino titolo di Apocolocintosi, parodia di «Apoteosi», dove al posto del termine indicante «dio» c'è «zucca» considerato sinonimo di «stolto». Grande l'attualità di quel feroce sberleffo di Seneca contro il defunto «tiranno» nell'Italia del 1945. Essa scaturiva dalle circostanze in cui l'Apocolocintosi era stata scritta e dalla carriera di chi l'aveva scritta. Seneca «filosofo » era figlio di Seneca «retore» (ma si potrebbe anche dire «storico»). Il padre aveva scritto una storia delle guerre civili romane, una storia alquanto «repubblicaneggiante»: ma aveva preferito non pubblicarla. La pubblicò il figlio, che si era formato in quei sentimenti «di opposizione» e aveva approfittato, forse, di una di quelle parentesi di tolleranza che ogni tanto lampeggiano anche nel corso di un regime autoritario.
Caligola (37-41 d.C.) all'inizio del suo regno aveva addirittura consentito la circolazione delle Storie di Cremuzio Cordo messe al bando sotto Tiberio perché troppo repubblicane. Ma presto tutto era cambiato, e con Claudio (41-54 d.C.) gli spazi di tolleranza filo-senatoria si erano rapidamente ristretti. Per certi versi, come fu scritto da Arnaldo Momigliano nel suo libro giovanile sull'Opera dell'imperatore Claudio (1931), Claudio riproponeva lo stile di Augusto: «Apparente equilibrio tra le antiche classi dominanti e l'imperatore». Insomma la «libertà» (del Senato) fu presto daccapo in pericolo e a Seneca, frequentatore della corte ma forse troppo libero nel condursi, toccò il confino, in Corsica, con l'immancabile accusa di adulterio. Per farsi perdonare si umiliò fino a esaltare un liberto di nome Polibio molto protetto da Claudio. È la malfamata Consolatio ad Polybium. Non senza adeguata attesa, Seneca fu «perdonato». (Come non pensare alle suppliche al Duce dal confino?).
Seneca tornò a corte, protetto da Agrippina, come precettore di Nerone erede designato di Claudio. Si adattò. Claudio muore, probabilmente avvelenato, nel 54. Nerone, nuovo principe diciassettenne, parla davanti ai soldati e davanti al Senato e ai funerali solenni di Claudio comprendenti anche la sua apoteosi (come ormai di prammatica), e parla pronunciando tre discorsi tutti e tre elaborati da Seneca. Compresa la laudatio funebre, che fu talmente esagerata da suscitare l'insofferente reazione degli astanti. Ma negli stessi giorni Seneca — se la satira è opera sua — mette in circolazione la feroce
Apocolocintosi dove l'apoteosi è calpestata. Lì l'arrivo di Claudio tra gli dei si risolve in un disastro e il neo-dio viene ricacciato nell'Ade, dopo una dura filippica di Augusto contro di lui nel Senato celeste. E nell'Ade è condannato a ripetere all'infinito un gesto idiota.
Non è dunque un caso che nel 1944-1948 si siano succedute una serie di edizioni e traduzioni della satira, più importante tra tutte quella di Russo. (Oggi essa viene ritradotta, per la Salerno editrice, da Luciano Paolicchi sulla base dell'edizione Teubneriana di Renata Roncali). «Lo spirito anti-tirannico che aleggia in tutta l'operetta le ha assicurato un largo interesse in Italia subito dopo la caduta del fascismo» ha scritto Scevola Mariotti. Direi ben più che «largo interesse». È stata come lo specchio di una stagione umiliante e atroce. Si potrebbe quasi seguire la storia degli intellettuali italiani nella prima metà del Novecento attraverso le reazioni di fronte a questo scritto e all'intera vicenda di Seneca e Claudio. Nel 1920, dunque prima del «diluvio», Concetto Marchesi, nel suo memorabile saggio su Seneca, esclude che la inaudita laudatio funebre di Claudio potesse averla scritta Seneca proprio mentre componeva quella «beffa spietata». La lunga notte del fascismo, il giuramento coatto di fedeltà al regime, il rovello di averlo dovuto fare e l'empito, dopo il 25 luglio, di «lavare » quella macchia erano ancora di là da venire. Nel 1931, nel momento in cui il fascismo è al suo apice, in prossimità del «decennale », Momigliano legge la Consolatio ad Polybium
(la «supplica» di Seneca dal «confino») come un sottile sarcasmo contro il tiranno. Nel 1945-46 Russo scrive, non a torto: «E' commovente la critica moderna nel suo tentativo di giustificare in ogni modo la Consolatio ad Polybium ». Parole dettate dall'esperienza — scrive il giovanissimo critico— «di questi ultimissimi anni e mesi». I quali avevano visto larga parte del ceto dei dotti e degli «intelligenti » riscrivere se stessi e i propri atti, ovvero occultarli. Pentimenti autentici talvolta, più spesso opportunismi.
La tematica delle «conversioni ingiuriose» è inesauribile, e ritorna a ogni mutar di regime. Dopo la definitiva caduta del Bonaparte (e dopo 25 anni di rivoluzioni e restaurazioni) si poterono allestire in Francia Dizionari delle banderuole e Dizionari dei Protei moderni, che sono diventati dei classici. Quando il fascismo trionfò stormi di intellettuali vi si intrupparono sostenendo di essere stati fascisti sin dal principio con la stessa levitas con cui, alla sua fine, sostennero di essere sempre stati cripto- antifascisti e di aver caricato di sarcasmo l'adulazione. Non bisognerebbe però dimenticare che, quando fa comodo, i pentiti che si pretendono oppositori con valore retroattivo sono guardati con favore. Quanti post-sovietici già stati molto in alto nel periodo sovietico — a cominciare da Eltsin— sono diventati degli enfants gâtés dei tempi nuovi? E quanti anche da noi non si accingono — nel plauso generale — ad un grande futuro dopo aver candidamente sostenuto di «non essere mai stati comunisti»?
Ritoccando pochi anni dopo la sua introduzione, Russo scrisse scherzosamente, prendendo un po' le distanze da se stesso, di voler lasciar perdere «gli storici piagnoni». In certo senso non aveva torto, ma il nuovo stato d'animo era anche l'effetto del raffreddarsi delle passioni. Ciò che però in questa materia inesauribile, e destinata a ciclici ritorni, non va perso di vista è la differenza tra l'intellettuale adulto e calcolatore, pronto alla conversione cronometrica, e il giovane che nasce e si matura quando il regime già c'è e che avrà più dura fatica a uscirne mentre l'altro sapientemente piroetta.