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Il panarabismo linguistico nel pensiero di Zaki Arsouzi

di Luigi Carlo Schiavone - 25/09/2007

 

Il panarabismo linguistico nel pensiero di Zaki Arsouzi

Fin dagli inizi del ‘900, i popoli arabi sono stati impegnati in una ricerca costante di elementi di contatto con i quali fortificare la propria coesione contro l’ingerenza straniera che all’inizio del secolo si mostrava sempre più interessata nel costituire solide basi nei loro territori.
L’impossibilità di definirsi come un’unica razza a causa della presenza di almeno tre configurazioni razziali tra gli abitanti dei paesi del M.E.N.A. (Middle East and North Africa), e la debolezza dell’elemento religioso, dovuto alla presenza di arabi aderenti a confessioni differenti dall’Islam, fecero in modo che solo la lingua sembrasse l’unico strumento valido, come ben rilevato dall’orientalista Carrè in “Le nationalisme arabe”, in cui si analizza in modo articolato il pensiero di Zaki Arsouzi, felice autore nonché futuro fondatore del partito Ba’th, cui si deve l’intera costituzione dello Stato Arabo Unito a partire dal valore fondante della lingua.
Il pensiero di Arsouzi fu fortemente condizionato dalle lezioni di Bergson, che ebbe modo di seguire frequentando l’Università Sorbonne di Parigi, ove strinse anche una serie di amicizie fondamentali per il suo futuro politico. Altra fonte di ispirazione furono le tesi di Platone nella rielaborazione di Plotino ed il lavoro di Ibn Arabi. Frutto finale della sua speculazione furono i presupposti teorici di uno Stato Arabo Unito, riconoscendo all’arabo, “lingua miracolosa e d’amore”, un ruolo fondamentale nell’ambito della struttura tribale, clanica e familiare tipica del mondo Arabo.
Trovato un precedente nelle tesi dell’orientalista francese Matignon, la speculazione di Arsouzi mira a considerare l’Arabo come la “lingua naturale o adamitica”, affermando di essere istintivamente certo che, libera da condizionamenti sociali, la lingua parlata dagli uomini sia proprio l’arabo. Con l’intento di fornire solide basi alle sue teorie, Arsouzi ripercorre le tappe delle prime civiltà, la siriana e le mesopotamiche, che si dotarono di un alfabeto, ritenendo questa anteriorità temporale come lo strumento atto ad affermare la superiorità delle lingue d’origine semita. Fra queste emerge l’arabo, la cui superiorità rispetto all’ebraico e all’armeno deriva dall’essere rimasto costantemente in uso rispetto alle contendenti, che per lunghi periodi furono parlate solo da ristrette minoranze. Affermata tale superiorità, Arsouzi mirava ad evidenziare anche gli stretti legami che intercorrono fra l’Arabo e le lingue indoeuropee; secondo le sue tesi, infatti, il latino ed il greco sarebbero esclusivamente degli idiomi adatti alla speculazione scientifica mentre tutto quanto hanno espresso in campo spirituale ed umano deriverebbe dai loro legami con la lingua dei profeti, di cui il Corano è ritenuta una sintesi illuminante. L’autore riesce così a dimostrare la superiorità della lingua araba anche nei periodi in cui essa non ha avuto una brillante produzione letteraria.
Alla storia della lingua araba Arsouzi collega lo sviluppo dell’intera civiltà umana; oltre alla civiltà sumerica, babilonese, fenicia e faraonica, infatti, Arsouzi propone un’origine araba anche per Adamo ed Eva. Ed è questa discendenza diretta da progenitori arabi lo strumento che lo studioso utilizza per rivendicare la superiorità non solo della lingua ma anche della civiltà araba nei confronti di quegli europei che miravano ad imporre il loro dominio su quelli che erano gli antichi territori dell’Impero Ottomano.
Dopo aver affermato la centralità della lingua, Arsouzi cerca quindi di dare una forma netta alla struttura politica della nazione araba da costruirsi. Attingendo a piene mani dalle teorie weberiane sulla leadership carismatica e a quelle di Pareto sul ruolo delle élites, teorizzò la necessità che le masse, idealizzate sul modello dello sciismo esoterico sviluppatosi tra il IX° sec. ed il XIII° sec., siano guidate da un gruppo ristretto, l’élite appunto, i cui membri si designerebbero in base all’istinto e all’amore sociale, attraverso i quali si sarebbe in grado di individuare anche i falsi propagandisti imbevuti di capitalismo. Al vertice di questa élite, Arsouzi pone un leader carismatico, assimilabile ai monarchi illuminati europei del XVIII° sec. con caratteristiche attribuite dalla tradizione islamica all’Imam o al califfo. Egli, infatti, deve essere un uomo, adulto, sano, intelligente, competente, devoto e soprattutto visibile, perché è solo con la visibilità che il leader diviene l’immagine in cui il popolo si può identificare.
Alla massa, genitrice dell’élite, viene assegnato il compito di selezionare i doveri comuni e di eleggere la Camera, di cui è diretta emanazione il Consiglio dei ministri; il popolo, inoltre, deve occuparsi, in ambito locale, della gestione della quotidianità eleggendo i consigli amministrativi locali. A tutela del popolo, quindi, egli afferma che l’unica possibilità per accettare l’ipotesi del partito unico sia da ritrovarsi nella garanzia del rispetto della libertà di stampa così come nella libertà d’elezione delle assemblee e delle organizzazioni locali.
Nella speculazione di Arsouzi un ruolo fondamentale è ricoperto anche dall’esercito, considerato come lo strumento ideologico per la rivoluzione del popolo arabo ed il mezzo per impedire l’instaurazione del dominio straniero, come avvenne in seguito all’occupazione del califfato da parte dei turchi, rei, secondo Arsouzi, di aver introdotto nella cultura araba contaminazioni mongole a risarcimento delle quali lo studioso chiedeva la restituzione al futuro Stato arabo della provincia di Alessandretta e Antiochia, di Israele e di una parte dell’Iran. Tali rivendicazioni, tuttavia, mostrano un’evidente contraddizione con i principi esposti dallo studioso alawita in merito alla lingua, in quanto la prima provincia del nascituro Stato sarebbe stata turcofona ed anche le altre due utilizzavano lingue differenti dall’arabo, sebbene appartenenti al ceppo semita.
Interessante risulta anche il rapporto tra il ruolo delle donne e l’eugenetica: considerando le donne come le guardiane della famiglia e della tradizione, egli attribuisce loro anche il ruolo di custodi del perpetuarsi della lingua, forza motore della nazione. Ed è per questo motivo che, secondo Arsouzi, si rende necessario che la procreazione sia subordinata a presupposti eugenetici, vietando i matrimoni misti ed organizzando una selezione basata sull’eredità genetica.
È interessante, inoltre, rilevare come le teorie di Arsouzi traccino in qualche modo un parallelo con lo studio fatto da Fichte, il quale riteneva che la superiorità del popolo tedesco fosse ben dimostrata dalla sua lingua, l’unica, a suo parere, ad aver raccolto l’identità greca, più antica e perciò più “autentica” di quella romana.
Dal punto di vista pratico, Arsouzi cercò di dare un seguito alle sue teorie trasferendosi da Parigi a Damasco, dove iniziò la sua attività di proselitismo incentrata soprattutto sulla riconsegna del Sangiaccato di Alessandretta al popolo arabo, nella fattispecie alla Siria. Dopo aver inutilmente tentato di candidarsi alle elezioni siriane del novembre del 1936, incoraggiò i suoi adepti a boicottarle. Arrestato con l’accusa di aver inficiato il processo elettorale, rimase in prigione solo per poche ore, grazie all’azione dei suoi sostenitori che abilmente aizzarono le folle contro l’autorità locale, consentendogli così il ritorno in libertà.
La sua lotta, inoltre, gli permise di conoscere un altro studioso anch’egli interessato alla creazione dello Stato Arabo, Michel Aflaq; di fede cristiana-ortodossa, anche Aflaq, come Arsouzi, aveva compiuto i suoi studi alla Sorbonne, dove, oltre a stringere una durevole amicizia con Salaheddine al Bitar, fu affascinato dal marxismo, solo successivamente abbandonato per votarsi, nel 1936 , totalmente alla causa araba.
Dall’unione di queste tre menti, nacque nell’aprile del 1947, a Damasco, il partito Ba’th, il cui primo congresso, tenuto alla presenza di delegazioni provenienti da altri Stati arabi come il Libano e l’Iraq, affidò la segreteria ad Aflaq, che la detenne fino al 1989, anno della sue morte.
Nello slogan: “Unità - Socialismo - Libertà” trovano posto, ben riassunte, le tesi del partito che più di tutti informerà di sé la storia mediorientale del secondo Novecento.