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Il libro della settimana: Max Weber, Storia economica

di Carlo Gambescia - 26/09/2007

Il libro della settimana: Max Weber, Storia economica, Donzelli 2007, pp. LVI-342, euro 17,50

Di solito, anche in ambienti abbastanza colti, quando durante una conversazione, si fa il nome di Max Weber qualcuno ricorda subito la tesi sulle origini puritane e calviniste del capitalismo moderno. Dopo di che però cala il silenzio, e si cambia argomento… In realtà l’opera weberiana è talmente vasta che non può essere ridotta alle sole analisi del primo capitalismo. Con serietà da professore tedesco, e per giunta sociologo, Weber si occupò di storia universale, di sociologia economica e del lavoro ma anche della musica, nonché di teoria del potere e del diritto. Il suo era un sapere enciclopedico, ma accurato e profondo, che si nutriva di sterminate letture storiche. E di dosi massicce di superlavoro intellettuale, fino al punto che appena trentenne, rischiò di perdere il lume della ragione. Poi però si riprese, tornò ai suoi studi e anche alla politica, su posizioni di realismo democratico e liberale, soprattutto dopo la prima guerra mondiale. Morì all’improvviso, probabilmente vittima dell’epidemia di Febbre Spagnola, nel 1920 a cinquantasei anni.
Insomma, un vero gigante del pensiero sociale. Un’occasione per approfondirlo è costituita dalla pubblicazione della sua Storia economica. Linee di una storia universale dell’economia e della società (Donzelli 2007, pp. LVI-342, euro 17,50). Si tratta di un piccolo gioiello, la cui edizione originale uscì postuma nel 1923, sulle base delle sue carte e degli appunti universitari in argomento. Ma il lettore non pensi che sia un volume didascalico o superato, Tutt’altro. Dal momento che si impara sul capitalismo - e ovviamente su Weber - molto più in questo singolo libro che in tanti, e presuntuosi, saggi contemporanei. Inoltre, il volume si avvale della chiara introduzione di Carlo Trigilia, sociologo dell’economia, oltre che della scorrevole e accurata traduzione di Sandro Barbera.
Un primo punto di riflessione, come abbiamo già accennato, è rappresentato dalla larghezza degli interessi storici weberiani. Una ricchezza di vedute che permette al lettore di comprendere subito come l’economia capitalistica, sia storicamente solo uno dei numerosi sistemi economici. E come il capitalismo resti legato alla sua volontà di apertura “esterna”. Vista da Weber sia come conquista dei mercati, sia come espansione di una cultura economica di tipo individualistico e razionalistico. Il che spiega anche le ragioni del conflitto, sempre latente, tra capitalismo e culture di tipo comunitario e tradizionalistico.
Un secondo punto di riflessione, verte sulla frattura, ben individuata da Weber, tra sviluppo economico e razionalizzazione. Secondo il grande sociologo, lo sviluppo del capitalismo avrebbe condotto alla nascita di un’enorme gabbia di acciaio, dove in nome dei principi dell’utile e dell’organizzazione razionale del mondo, l’uomo moderno si sarebbe presto trovato rinchiuso, impercettibilmente, quasi per sua scelta: una gabbia, per alcuni dorata, per molti meno, ma destinata a rimanere tale per tutti…
Il problema della razionalizzazione, conduce al terzo elemento di riflessione, che riguarda strettamente il capitalismo. A parere di Weber la burocratizzazione, come forma sociale di razionalizzazione, rischiava, a sua volta, di uccidere l’innovazione, e di far prevalere all’interno del capitalismo economie parassitarie, fondate sulla rendita se non sulla speculazione pura e semplice. Secondo Weber “ciò che in definitiva” aveva “creato il capitalismo”, come “la razionalizzazione della condotta di vita”, se sospinto oltre un certo limite, si sarebbe tradotto nel suo contrario, riducendo la vita dell’uomo medio a quella di un essere dedito irrazionalmente a consumare per lavorare e viceversa.
Weber aveva capito tutto. Di qui la sua grande attualità. Soprattutto laddove parla di “capitalismo politico”: un capitalismo, se ci passa la battuta, abituatosi nel tempo a “socializzare” le perdite, appoggiandosi allo stato durante il bisogno, e “privatizzare”i profitti, una volta superate le crisi. Rifiutandosi così di reinvestire nell’innovazione e nel sociale, come oggi accade, e non solo in Italia.
Weber immaginava il capitalismo politico del futuro come il naturale sbocco politico autoritario della “gabbia d’acciaio” di cui sopra. Un capitalismo nemico delle vere libertà di mercato, pronto addirittura a trasformarsi in pericoloso socialismo di stato.
Tuttavia la domanda a cui Weber non ha potuto rispondere per evidenti ragioni cronologiche, è quella sull’ esistenza di una terza via tra capitalismo di mercato, spesso selvaggio e capitalismo politico, dai tratti burocratici, se non socialisti in senso deteriore.
Crediamo, infatti, che tuttora la vera sfida sia quella di conciliare, fin dove possibile, libertà economiche e politiche. Ad esempio, fin dove è accettabile dal punto di vista politico quella che Weber, a proposito del capitalismo, chiamava “organizzazione razionale del lavoro salariato formalmente libero? Fondata sull’esistenza di lavoratori che si offrono “dal punto di vista formale liberamente, di fatto costretti dal pungolo della fame”? Si pensi solo alla crescente diffusione del lavoro precario e alla necessità di tutelarlo, affinché un lavoratore “formalmente libero”, non sia costretto ad accettarlo a ogni costo, perché “pungolato”, magari non proprio dalla “fame” weberiana, ma da un’umiliante, anche se temporanea, disoccupazione.
Pertanto una certa organizzazione razionale del lavoro, basata sulla precarietà, non può essere il punto di partenza - o meglio di ritorno - di uno sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Di qui la necessità di un “capitalismo politico”, ma non nel senso weberiano di un’economia capitalistica o anticapitalistica (il comunismo), che sfrutti la politica, mettendola al servizio di interessi particolari o di pericolose utopie. Ma di una politica in grado di ricondurre l’economia (capitalistica) nel suo alveo naturale che è quello della produzione di beni e servizi utili alla collettività. E non di permettere che pochi privilegiati fruiscano in misura crescente di rendite parassitarie o speculative.
Ma da dove cominciare? Ecco il problema. Probabilmente Max Weber, se fosse vissuto più a lungo, una qualche risposta l’avrebbe formulata. Peccato.