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Quei buddisti monaci così miti e così forti

di Renato Novelli - 28/09/2007

 
Come nella rivolta dell'88, anche oggi in prima fila contro la brutalità del potere militare ci sono le tuniche color porpora. Da dove viene la loro forza?

I monaci hanno sempre avuto grande importanza nella storia della Birmania. Una parte di essi svolgeva la funzione di consiglieri e referenti dei governanti nel periodo pre-britannico. Gran parte del «Sangha» (l'organizzazione del monachesimo Theravada, quello diffuso nella regione), ebbe una funzione chiave nella resistenza culturale alla società coloniale. Dopo il colpo di stato del 1962, che portò i militari al potere a Rangoon, i monaci non cessarono mai di moderare, per quanto potevano, gli aspetti più odiosi dell'oppressione politica e hanno conservato una relativa autonomia non direttamente conflittuale con il regime. Nella rivolta dell'88 anche loro parteciparono alle manifestazioni, soprattutto i giovani.
Ora, in piena stagione delle piogge, hanno saputo prendere la testa del dissenso diffuso, trasformarlo in proposta politica largamente unitaria e ridare fiato a un'opposizione colpita da due decenni di persecuzione. La sequenza degli avvenimenti parla chiaro. In agosto, di fronte al rincaro del 500% della benzina, l'associazione degli studenti del 1988 ha scelto la protesta: il 24 di quel mese 500 persone sono scese in piazza. Sono stati arrestati, forse torturati e ancora oggi detenuti. In settembre i monaci si sono mobilitati a Pakokku, a 500 km dalla capitale, e la polizia li ha dispersi con la forza. Il giorno dopo le associazioni dei monaci (la All Burma Monk Alliance Group e altre) hanno chiesto le scuse del governo. Le manifestazioni hanno preso da allora un'ampiezza senza precedenti dal 1988. Nella mobilitazione di questi giorni si può riconoscere una strategia precisa, con tre caratteristiche originali e funzionali a una lotta popolare organizzata.

Primo, i monaci hanno marciato sulle pagode e non verso gli edifici del governo. Non parlano di carovita, né suggeriscono soluzioni di gverno, ma chiedono che il popolo sia ascoltato, in nome dell'amore che è alla base della visione buddista della vita sociale. Con ciò, e con il prestigio di cui le tuniche porpora godono, si sono candidati a sostenere una lunga onda di lotta. Non sarà facile che le repressione possa ripetere il successo terribile del 1988.
Secondo, i monaci hanno marciato verso la casa di Aung San Suu kyi, creando le condizioni della più ampia unità dell'opposizione.
Terzo, hanno marciato anche verso l'ambasciata cinese, dimostrando di avere chiaro dove risiedano la «mano invisibile» e l'economia esterna che sostengono la giunta militare di Yangoon: sanno che senza la mobilitazione della società civile internazionale e l'appoggio delle istituzioni mondiali non sarà possibile sostenere lo scontro.
Il buddismo dimostra così un potenziale di forza inedito per una lotta politica di democrazia avanzata. Perché il buddismo nella regione non è, come molti in occidente hanno creduto, una dottrina di alta meditazione sulla condizione umana e insieme una religione popolare un po' naif. E' piuttosto un'attitudine culturale di fronte alla vita comprensibile a chiunque e radicata tra tutti gli strati della società.

In queste ore di scontri, tale visione può fare la differenza con la sconfitta del 1988. Il padre di tutte le giunte birmane, il generale Ne Win autore del golpe del '62, amava dire che fare un putsch è come prendere una tigre per la coda per poi lottare con lei per sempre. E' un'immagine che dà la misura di quanto il padrone di oggi, il generale Than Shwe, possa essere consapevole della fragilità del suo potere nonostante la propria forza. Myanmar è un paese dove, secondo l'Onu, il 60% della popolazione impiega il 70% delle proprie entrate in consumi di sopravvivenza. L'economia dal 1988 a oggi è profondamente mutata. Ieri il 45% dell'export erano derrate agricole, oggi le principali voci d'esportazione sono il gas, i carburanti, legname, pietre preziose, droghe. La giunta ha realizzato un paese-lager dove esistono i lavori forzati in massa, da dove fuggono milioni di emigranti, dove si viene arrestati per niente. Il canto dei monaci di oggi ricorda il canto dei loro predecessori del 1945, che incrociano i soldati giapponesi nell'Arpa birmana: potrebbero fermare i carri armati, se una parte dell'esercito si pronuncerà contro la repressione brutale dei dimostranti.