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La persona si realizza se riconosce e segue la propria vocazione

di Francesco Lamendola - 28/09/2007

 

 

 

 

Abbiamo più volte sostenuto (fra gli altri nell'ultimo articolo, Anche dalla cima di un albero si può amare senza riserve il mondo intero) che l'essere umano possiede una voce interiore che corrisponde a una chiamata; che deve essere in grado di fare il silenzio attorno a sé  dentro di sé per poterla udire; che, uditala, avviene in lui un auto-riconoscimento e solo mediante questo atto fondamentale dello spirito ciascuno di noi  diviene realmente capace di compiere una scelta e, più precisamente, di scegliersi (cfr. l'articolo Per poter essere se stessi occorre prima sapersi riconoscere).

Vogliamo adesso cercar di approfondire e chiarire ulteriormente, se possibile, l'argomento, dato che esso appare di somma importanza a chiunque sappia distinguere, a colpo d'occhio, le cose essenziali da quelle accessorie. In particolare, dall'esistenzialismo in poi si può dire che l'intera cultura contemporanea - anche da parte di coloro che non accettano l'esistenzialismo o ne rifiutano alcune premesse decisive - ha dovuto fare i conti con la drammatica urgenza di decidersi pro o contro il concetto dell'esistenza come scelta e pertanto, fondamentalmente, come rischio. Anche gli spiriti religiosi, dopo Kierkegaard, non hanno più potuto ignorare il tema dell'inquietudine, anzi la concezione della vita umana come inquietudine; e, se è vero che tale condizione spirituale non necessariamente deve approdare a una visione nichilista dell'esistenza (cfr. il nostro articolo Elogio dell'inquietudine), è altrettanto vero che dall'inquietudine si esce in due sole maniere: superandola, mediante un movimento ascendente della coscienza; oppure precipitando nel buio pozzo della disperazione, ciò che Kierkegaard, appunto, chiamava la malattia mortale. Vi sono molte persone, se sappiamo vedere e non semplicemente guardare ciò che accade intorno a noi, che conducono un'esistenza di più o meno tranquilla disperazione. Lavorano, viaggiano, fanno progetti, si sposano e mettono al mondo dei figli; inoltre non è difficile vederle ridere, o almeno sorridere, cercare la compagnia, inseguire amori e speranze, cercare l'amicizia, immergersi in svariati interessi, hobby e attività.

Non sempre il disperato si riconosce a prima vista e non sempre si isola in preda alla propria infelicità, cadendo nella depressione o naufragando lentamente verso l'ultimo approdo delle cliniche psichiatriche. A volte è una persona apparentemente normale e che sembra perfino realizzata, almeno a giudicare da tutte le cose che fa e che progetta e dalla quantità dei suoi interessi e delle sue relazioni sociali. Ma un tarlo lo divora interiormente, il tarlo della disperazione che non concede tregua e che è tanto più corrosivo e inesorabile quanto meno la disperazione viene riconosciuta come tale o, nel caso che venga francamente riconosciuta,  quanto meno ne vengono riconosciute le cause reali. Non le cause accessorie: ad esempio, l'abbandono della persona amata, un grave insuccesso lavorativo, la morte di qualcuno; per quanto gravi possano essere i contraccolpi di tali eventi traumatici, essi da soli possono bensì precipitare l'anima nello sconforto temporaneo, ma non appannarne l'intero orizzonte esistenziale. Ora, la disperazione è proprio questo: un appannarsi dell'intero orizzonte esistenziale, una perdita irrimediabile di speranza, nel significato più profondo del termine, ossia come progetto di apertura e di radicale disponibilità all'Essere (cfr. i precedenti articoli  Si entra nell'Essere con un atto di fedeltà e di amore e Dal desiderio alla nostalgia alla speranza,  le tappe del ritorno all'Essere). Ma la disperazione è astuta, sa mettersi mille maschere per nascondersi non solo agli altri, ma anche alla persona medesima che è caduta in suo potere: e così come il timido, perennemente timoroso, può divenire un marito (o una moglie), un genitore, un capoufficio, un insegnante durissimo, autoritario, selvaggiamente aggressivo nei confronti dei suoi malcapitati familiari, sottoposti o studenti, allo stesso modo il disperato (o la disperata) può rivestire i panni della leggerezza, della nonchalance e perfino della gioia di vivere: forzandosi, è ovvio, a una tensione innaturale di tutto lo spirito, alla gravosa fatica  indossare una maschera tragicomica simile a quella che ha marchiato per sempre lo sventurato protagonista del romanzo L'homme qui rit di Victor Hugo.

Abbiamo anche avanzato l'ipotesi che, dei due sessi, siano le donne, oggi - per tutta una serie di ragioni che ora non stiamo a ricapitolare -  le più colpite dalle micidiali conseguenze di una radicale perdita di autenticità, ossia infelicità e disperazione (ved. gli articoli È la donna, oggi, l'anello debole della catena e Il demone segreto dell'infelicità femminile). La nostra analisi del fenomeno della disperazione, palese e sotterranea, oggi dilagante, nasce pertanto dalla convinzione che essa è la conseguenza di una incapacità di ascoltare la "chiamata", di individuare la propria vocazione, oppure da una incapacità di rispondere ad essa e di tradurla in progetto esistenziale; fermo restando che, per poterla udire e mettere in atto, è necessario al tempo stesso riconoscere se stessi e, quindi, scegliersi. Le due cose possono anche procedere contemporaneamente: udendo la chiamata, e offrendo la mia disponibilità a risponderle, io mi riconosco e mi scelgo; non è necessario che la chiamata giunga ad un'anima che è già stata in grado di riconoscersi e di scegliersi. Anche perché riconoscersi è sempre un concreto movimento dello spirito, non un'astrazione del pensiero; e dunque è difficile pensare che ci si possa riconoscere in assenza di una chiamata, muovendosi, per così dire, su  di una tabula rasa. L'anima è quello che è in conseguenza di una decisione, dunque di un riconoscimento e di una scelta: e il primo riconoscimento e la prima scelta sono quelli e non altri, rispetto a sé medesima.

 

Vi è una pagina particolarmente illuminante dello psicologo Ignace Lepp (che abbiamo già avuto modo di ricordare a proposito di un'altra sua opera, Luci e tenebre dell'anima) che bene illustra il duplice dilemma che si presenta alla coscienza nel momento della chiamata e della comparsa, all'orizzonte della realtà, ancora indistinta e simili quasi a un miraggio, della vocazione: un appuntamento al quale siamo inviati per indizi, per cenni a volte pressoché impercettibili; ma alla cui risposta ne va della nostra autenticità.

 

"Ogni uomo ha una duplice vocazione. La prima l'invita a scegliere la finalità della sua vita, la seconda a raccogliere tutti i mezzi che gli sono a disposizione per raggiungere il traguardo finale. Noi definiamo la prima vocazione trascendente, la seconda temporale.

"La vocazione trascendente è comune a tutti gli uomini. Come spirito, e appunto perché tale, l'uomo non appartiene interamente alla natura. Come immagine di Dio è per un certo aspetto la viva rappresentazione di Dio nel cosmo Siccome tuttavia egli non è solamente spirito, bensì anche un vero fratello di tutti gli esseri nel mondo empirico,  la sua somiglianza di Dio non si riscontra nella sua perfezione in nessun uomo. Agli inizi del suo cammino l'uomo ne è solamente la promessa; solo a poco a poco, sormontando ostacoli e vincendo difficoltà, mette in atto la somiglianza con Dio. La vocazione fondamentale dell'uomo consiste dunque nel fatto di farsi somigliante a Dio. Ciò è valido per tutti gli uomini; nessuno è in grado di realizzare il suo fine come uomo, senza dare una risposta positiva a questa chiamata.

"Non si può riconoscere nella vocazione trascendente qualcosa di secondario e di facoltativo, che sarebbe come aggiunto e giustapposto alla vocazione naturale. Per l'uomo non esiste realmente  nessuna scelta tra due vocazioni finali, delle quali una sia 'naturale' e l'altra 'soprannaturale'. Nessuno è in grado di eleggere una vocazione esclusivamente terrena, la quale sia raggiungibile mediante l'esercizio di mere 'virtù naturali'. Ciò che noi definiamo vocazione trascendente, non è in nessun modo il dispendioso e onorifico privilegio di alcuni eletti, dei quali si dice che avrebbero una 'vocazione particolare'. Infatti ogni uomo ha una vocazione particolare, e non vi sono che vocazioni particolari. La vocazione particolare trascendente è però la stessa per tutti.

"Non si deve però mai dimenticare che l'uomo è uomo solo per via dello spirito e che la 'natura' dello spirito consiste soprattutto nel fatto di essere una invocazione e un'attesa emanante da Dio. L'uomo anela alla perfetta somiglianza con Colui di cui è l'immagine." (Ignace Lepp, Rischi dell'esistenza, Roma, Edizioni Paoline, 1965, pp. 59-60).

 

Due punti ci sembrano particolarmente significativi come sviluppo dei concetti espressi in questo brano, oltre a quelli che già avevamo toccato nella parte introduttiva del presente lavoro.

a), la vocazione, che ci viene sotto forma di invito a dare un senso pieno all'esistenza, è la risposta a una invocazione dell'anima; tale invocazione erompe dall'anima sotto forma di nostalgia e, poi, di speranza del ritorno all'Essere, dunque del reintegro a uno stato originario di perfezione e di pienezza di cui l'anima serba il ricordo (cfr. il mito platonico della biga alata e l'idea cristiana di uno stato originario di felicità, turbato poi da un evento drammatico quale conseguenza di una infedeltà al progetto divino).

b), la vocazione fondamentale della persona è quella di farsi simile a Dio (per Lepp) o anche di farsi Dio, non nel senso "superomistico" di Sartre e Camus, realizzando, cioè, quello che prima non esisteva, bensì nel senso di riscoprire la propria origine divina e di superare l'erroneo sentimento di separazione da essa. Si tratta di due concezioni, quella di Lepp (che è poi quella cristiana tradizionale) e la nostra, che possono apparire distanti ma che invece, a nostro avviso, presentano forti analogie e punti di contatto. Se Dio, l'Essere per definizione, è «tutto in tutti», per usare l'espressione di San Paolo, non è una questione di sostanza, ma di sfumature affermare che noi dobbiamo farci simili a Lui o che noi dobbiamo riscoprire la nostra fondamentale unità con Lui. Certo, non vogliamo neppure minimizzare le differenze: l'idea stessa del mondo come creazione ne è coinvolta, cosa non certo da poco. Tuttavia, senza confusioni e senza appiattimenti, non dovremmo  tendere, per quanto possibile, al pensiero unitivo invece che a quello oppositivo? Per dividersi, c'è sempre tempo; ma è più importante riconoscere il pezzo di strada che si può fare insieme all'altro.

c) La vocazione della persona è sempre un fatto individuale, unico e irripetibile. Tuttavia  la vocazione trascendente è comune a tutti gli esseri umani e consiste, come abbiamo visto, nel tornare alla dimora dell'Essere. La vocazione temporale è diversa per ciascuna persona, ma non bisogna credere che sia slegata e indifferente rispetto alla vocazione trascendente. In teoria, io posso essere me stesso, e quindi rispondere alla chiamata dell'Essere, sia facendo il pittore sia facendo il chirurgo. Ma, in pratica, se la mia vocazione temporale era quella di fare il pittore e le sono stato infedele per ragioni esteriori (obbedienza al desiderio dei genitori, prospettiva di maggiori guadagni e di una vita più comoda), ciò crea in me una disarmonia che non può non ripercuotersi anche sulla mia risposta alla vocazione trascendente. Certo, come dice Bernanos, tutto è grazia, e si può sforzarsi di realizzare la propria natura divina (o la propria somiglianza con la natura divina) in qualunque condizione materiale: celibi o sposati, pittori o chirurghi, e così via. Resta il fatto che quanto più noi saremo realizzati, e quindi fedeli,  nella nostra vocazione temporale, tanto meglio e più largamente potremo sforzarci di rispondere alla chiamata trascendente. Esistono, comunque, delle eccezioni, specialmente per quanto riguarda gli eventi esterni che entrano con violenza nella nostra vita e la modificano radicalmente, come nel caso di una grave malattia o di una invalidità permanente. In tali casi, sia pure per mezzo di virtù eroiche, è ancora possibile rispondere con assoluta fedeltà alla chiamata trascendente, nella misura in qui la libertà della coscienza rimane integra: è il caso di certi santi sofferenti nel corpo, e tuttavia capaci di risplendere come astri luminosi e di illuminare la via a migliaia di esseri umani (cfr. il nostro articolo Che cosa resta della natua umana quando viene ridotta all'essenziale?, dedicato al caso commovente della mistica francese Marthe Robin).

 

La libertà di scelta: ecco il nocciolo della questione. Cediamo ancora la parola a Lepp:

 

"Ciò che definiamo come vocazione trascendente, è l'incontro della chiamata divina e della libera risposta umana. Esiste per l'uomo la possibilità di sottrarsi alla chiamata senza tuttavia ch'egli posa così essere partecipe d'una vocazione naturale.

"Esaminata superficialmente questa carenza di vocazione naturale può apparire una povertà nell'uomo. Tutti gli altri esseri nel mondo hanno solo da essere ciò che sono, per raggiungere il loro fine, mentre l'uomo raggiunge il suo solo quando si supera oppure, per esprimerci come i mistici e con gli esistenzialisti, 'si annichilisce'. Nondimeno proprio in ciò risiede la grandezza dell'uomo: unicamente egli tende sempre avanti e più in alto, rinuncia all'inerte quiete , poiché è per sua natura un essere incline a Dio." (cit., p. 61-62).

 

E ancora:

 

"La coscienza di ciò che si è, e prima di tutto di ciò che si può diventare, è la premessa per la scoperta della vocazione naturale. In due maniere si può comunque mancare alla propria vocazione: primieramente, perché non si è abbastanza attenti per scoprirla, e secondariamente perché non si ha il coraggio di seguirla." (pp. 73-74).

 

E che cosa accade se la persona, scientemente e ostinatamente, rifiuta la propria vocazione trascendente, rifiuta di farsi simile a Dio o, se si preferisce, di tornare all'Essere? Ignace Lepp risponde in questo modo:

 

"Perfino coloro  i quali per viltà o cattiveria - che Kierkegaard definisce 'demoniaci' -  hanno categoricamente detto non a Fio ed hanno così rifiutato la vocazione trascendente, non diventano del tutto depravazione e peccato, come affermavano i giansenisti. Le doti naturali elargite loro da Dio sono essenzialmente buone e non vengono loro tolte per questo. Il loro intelletto rimane  capace di riconoscere la verità, il loro cuore è in grado di entusiasmarsi delle cose buone e nobili, e i loro sensi sanno accogliere la bellezza del mondo.  Ma siccome la vocazione naturale del 'demoniaco' rimane di per sé chiusa, essa non riesce a sbarazzarsi dell'imperfezione. L'amore e la generosità  del 'demoniaco' rimangono schiavi della finitezza  e non sono quindi in grado di aggiungere la loro naturale meta."

 

Non poter raggiungere la propria naturale meta: ecco la disperazione, la "malattia mortale" della persona inautentica. Inautentica perché non ha saputo riconoscere la chiamata o, riconosciutala, non l'ha voluta seguire, perdendo così anche se stessa. Come è disperato il salmone, dopo il lunghissimo viaggio che l'ha riportato alle sorgente natie, si trovi la strada sbarrata da una diga costruita nel frattempo; come è disperato "il rivo strozzato che gorgoglia", nella poesia di Eugenio Montale Spesso il male di vivere, perché non riesce ad aprirsi un varco verso la foce, sua naturale destinazione.

L'essere umano è un salmone che risale verso la sorgente, è un fiume che anela a raggiungere il mare. Ma dire di a questa sua vocazione innata dipende da lui solo. È libero: libero di precipitare nell'inferno della inautenticità e della disperazione (più o meno visibile dall'esterno), oppure di aprirsi coraggiosamente e di affidarsi alla grande corrente dell'Essere, che lo riporterà felicemente  alla sua dimora originaria.