Comunitarismo e universalismo: intervista a Costanzo Prve
di a cura di L.Tedeschi - 19/12/2005
Fonte: centroitalicum.it
DOMANDA
Gli elementi caratterizzanti l'attuale fase storico politica dominata dall'impero americano e conseguentemente dal capitalismo, non sono più costituiti dalla dicotomia destra/sinistra, bensì dalla contrapposizione tra gli USA e i popoli e le nazioni che si oppongono al dominio americano.
Al modello capitalista si vuole contrapporre il comunitarismo, quale "difesa dello stato-nazione indipendente concepito in modo nazionalitario e non nazionalista, razzista e imperialista". Dato l'attuale "nichilismo nazionale" e la quasi assenza di valori e costumi identitari specialmente in Europa, quali sono i fondamenti filosofici e politici di un comunitarismo inteso quale modello politico e culturale diverso e migliore dell'individualismo liberale?
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Mentre 1'impero americano ed il tipo di "turbocapitalimo" che esso sostiene ed organizza sul piano geopolitico esistono e sono corpose realtà storiche e politiche, un "comunitarismo" che sappia essere ad un tempo anti-imperialista e democratico non esiste invece ancora, ed in questo momento resta ancora in larga misura un orizzonte astrattamente possibile. Vi è qui dunque una dolorosa asimmetria.
Così come la conosciamo storicamente la dicotomia Destra/Sinistra non è affatto universale come si pensa, ma è prevalentemente europea e latino-americana. In estrema sintesi essa e già passata attraverso tre fasi storiche fondamentali. In una prima fase (I789-1914 circa) questa dicotomia si è sovrapposta al conflitto sociale, politico ed economico fra democratici prima e socialisti poi (sinistra) ed un fronte vario e nobile di conservatori e di liberali (destra). In una seconda fase (1914-1991 circa) questa dicotomia si è sovrapposta allo scontro, prima soltanto sociale e poi geopolitico, fra il comunismo storico novecentesco ed i suoi alleati (sinistra) ed un fronte vario e mobile che ha visto a volte in conflitto ed a volte alleati i fascismi storici ed il liberalismo capitalistico (destra). Siamo però ormai in una terza fase storica, in cui si è formato un "pensiero unico" capitalistico ed imperialistico, cui il "politicamente corretto" di sinistra è quasi completamente subordinato ed asservito. Il vettore culturale e giornalistico principale di questo asservimento, che non è ancora purtroppo colto come tale da gran parte delle classi e dei gruppi dominati, è stato la trasformazione metabolica della sciagurata generazione del Sessantotto. La critica originariamente di "sinistra" al socialismo autoritario, burocratico e gerarchico di tipo sovietico si è dialetticamente rovesciata in appoggio culturale di "destra" all'impero americano, visto come società libertaria e multiculturale delle sconfinate possibilità individuali. La connessione fra queste due posizioni unilaterali rovesciatesi l'una nell'altra è evidente per una coscienza filosofica dialetticamente bene educata, ma non lo è per gli incoscienti educati ai miti operaistici del monoclassismo sociologico proletario rovesciatosi oggi in sciagurato mito imperiale messianico armato e bombardatore. Il "nichilismo nazionale" denunciato nella domanda è reale, ed è a sua volta frutto della confluenza di due componenti, la componente di "destra" del capitalismo cosmopolitico e senza patria rivolto unicamente ai profitti e particolarmente agli interessi erogati dal capitale finanziario transnazionale, e la componente di "sinistra" critica dello stato borghese nazionale in nome di una sintesi di monoclassismo sociologico proletario globalizzato (il che spiega il perché della facile riconversione di questa componente al mito della globalizzazione) e di critica anarchica della morale borghese tradizionale, particolarmente familiare e sessuale (il che spiega perchè costoro stiano oggi in prima fila nell'imporre a colpi di bombardamenti strategici i costumi sessuali occidentali alle renitenti società "musulmane". La Francia (ed in parte i paesi scandinavi) è oggi il solo paese europeo che resiste, sia pure debolmente, al nichilismo nazionale europeo. Dio la benedica. In questa sacrosanta e benemerita resistenza è troppo debole e residuale per innescare oggi una vera inversione di tendenza su scala europea. E qui, in poche parole, risiede il 70% del dramma storico di oggi.
DOMANDA =>
Lei annovera tra gli errori più rilevanti della sinistra marxista il voler configurare il capitalismo come un fenomeno unitario e di natura conservatrice, in quanto incapace di sviluppare le forze produttive. Il vorticoso sviluppo della tecnologia e la modernizzazione sono fenomeni scaturiti invece dallo sviluppo del capitalismo che costituisce un modello produttivo incontrastato a livello globale. Il progresso si identifica quindi con l'evoluzione del capitalismo. In tale contesto, certo è che il progresso sia scientifico che tecnologico è stato indirizzato secondo le esigenze proprie della produzione capitalistica. Tuttavia le potenzialità di sviluppo scientifico e tecnologico sono infinite. Non sorge quindi il dubbio che la scienza e la tecnologia non siano fenomeni esclusivi del capitalismo, che semmai ne ha sviluppato solo quei particolari settori da cui possa generarsi profitto, a discapito di altre forme della ricerca (vedi energie alternative) incompatibile con la logica del mercato globale. Il capitalismo quindi, non potrebbe configurarsi come un fattore che ha impedito diverse ed ulteriori potenzialità del progresso scientifico e tecnologico?
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Condivido integralmente lo spirito della domanda, che mi sembra rivolto a scongiurare la demonizzazione unilaterale della scienza e della tecnologia. Oggi in Italia posizioni come quelle di Emanuele Severino e di Umberto Galimberti, volte ad una ossessiva demonizzazione della Tecnica senza aggettivi, e convergenti nel proporre una ricostruzione complessiva della storia dell'occidente che banalizza ulteriormente la teoria di Heidegger sull'inevitabile destino della risoluzione della metafisica greca in tecnica planetaria, finiscono con il contribuire al senso di fatalismo e di impotenza che già rappresentano lo "spirito del tempo" odierno. ma questa "impotenza filosofica" in realtà funzionale all'assenza di critica determinata dalla "potenza pratica" delle tecnologie capitalistiche. La critica ecologista, sorta circa trenta anni fa e poi diffusasi, ha fatto bene sperare all'inizio, ma oggi mi sembra purtroppo rifluita o nell'integrazione sistemica in apparati politici corrotti o nell'autoemarginazione testimoniale di critici primitivisti della scienza e della tecnica in quanto tali.
La domanda pone in forma prudentemente dubitativa l'essenziale per una risposta teoricamente corretta. No alle demonizzazioni metafisiche unilaterali della scienza e della tecnica, funzionali al rafforzamento dell'impotenza sociale progettuale, e sì ad ogni progetto di uso alternativo ed ecologisticamente meno distruttivo delle forze produttive frutto del millenario lavoro umano.
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Il comunitarismo presuppone l'istaurarsi di un nuovo rapporto dialettico tra individuo e comunità. Esso pertanto determina una nuova concezione della democrazia, intesa come dominio della politica sull'economia e come autogoverno della comunità attraverso leggi, valori etici e costumi liberamente accettati. Ma la creazione di tante comunità nazionali fondate su specificità diverse (se non in contrasto), dinanzi all'internazionalismo della globalizzazione, data la inevitabile frammentarietà di universo comunitario, non sarebbe in grado di produrre che una debole resistenza nel confronto con l'impero americano. Il comunitarismo allora, non potrebbe presentarsi come un progetto di liberazione dell'umanità che dinanzi al capitalismo economicista e globalizzatore assumerebbe il ruolo del profeta disarmato?
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Tutti i profeti per definizione nascono disarmati, e solo in un secondo tempo fisiologicamente si "armano" con il consenso di gruppi sociali e nazionali più vasti. Il motto machiavellico per cui i profeti armati "vincono" e quelli disarmati "ruinorono" è dunque vero solo a metà. Marx fu un profeta del tutto disarmato, e Lenin fu un profeta armato che non sarebbe mai esistito senza la fase "disarmata" precedente. Fra l'altro è esattamente questa la ragione per cui oggi Lenin è mille volte più diffamato di Marx. Ma quanto dico non vale ovviamente solo per la tradizione di "sinistra". Vale per Maometto, Gesù di Nazareth e gli stessi Confucio e Budda. Purtroppo i tempi storici di evoluzione non corrispondono alla normale impazienza umana, specie da parte di chi ha già superato la mezza età e si duole di non avere più l'età per assistere a fenomeni storici di cui auspica l'avvento.
Fatta questa premessa storico-metodologica, oggi il comunitarismo anticapitalistico si trova nella fase in cui deve ancora risolvere alcuni problemi pratici e teorici determinanti per la sua identità presente e futura. Deve congedarsi dal "comunitarismo organico", in cui non c'è spazio per il dissenso e la non-condivisione di individui che fanno parte della comunità, e che invece devono avere il diritto giuridicamente garantito delle loro scelte anti-conformistiche. Deve congedarsi dal "comunitarismo tradizionale" (del tipo della Lega di Bossi, per capirsi), per cui la comunità è concepita e vissuta come chiusura sociale identitaria verso lo "straniero", fino a comportare episodi sgradevoli ed inaccettabili di discriminazione "razzìsta".
Un comunitarismo democratico, come quello auspicato e correttamente descritto nella domanda (primato della politica sull'economia, autogestione economica ed autogoverno sociale, eccetera), può solo farsi strada faticosamente contro due avversari strutturali e permanenti. Da un lato, i comunitarismi di tipo organico e di tipo tradizionale, che sono in generale eredità e riattualizzazione di forme culturali di "destra". Dall'altro, i multiculturalismi ed i cosmopolitismi, che si presentano spesso in modo seducente come superamento del provincialismo ed adattamento al modello unico della anglofonia globalizzata, e che sono invece quasi sempre la copertura di un modello unico monoculturale, quello dell'impero americano e dei suoi profili culturali e di consumo (un consumo ovviamente differenziato sulla base della scala disegualitaria dei poteri d'acquisto).
Il sentiero sembra molto stretto. Ma una volta che ci si sia incamminati, esso apparirà probabilmente praticabile in nodo agevole.
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La critica di Alain de Benoist all'americanismo coinvolge lo stesso universalismo. Egli preferisce il politeismo greco al monoteismo cristiano in virtù della critica differenzialista in difesa delle identità originarie delle singole civiltà. Oggetto della critica di de Benoist all'universalismo è la stessa filosofia dialettica di Hegel e di Marx, oltre alle pretese normalizzatrici e uniformatici proprie della globalizzazione capitalista. Lei critica a sua volta tale teoria "differenzialista" in quanto essa darebbe luogo a forme di relativismo che di per se stesse sarebbero prive di contenuto veritativo. Come lei afferma, "in de Benoist non c'è una teoria della verità". Ci chiediamo dunque quali sono gli elementi in base ai quali un pensiero possa definirsi universale. Inoltre, un pensiero solo in quanto universale può avere contenuto veritativo? Lo stesso pensiero universalista, non contiene in se stesso le premesse di una logica totalizzante e quindi uniformatrice? L'era della mondializzazione ha determinato la fine della cultura eurocentrica. Ma non potrebbe però manifestarsi in avvenire il sorgere di una pluralità di universalismi nelle culture dei vari continenti tra loro potenzialmente configgenti? Le pretese universalistiche originarie non potrebbero allora condurre ad esiti relativistici contraddicendo le loro stesse premesse?
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Mentre alle prime tre domande ho cercato di rispondere in modo conciso e sintetico, anche perchè nella loro formulazione c'erano già spesso i suggerimenti impliciti per la risposta, a questa quarta domanda intendo rispondere in modo più ampio ed analitico e questo per almeno due ragioni. In primo luogo, perchè la mia personale competenza specifica è di tipo filosofico, e quindi posso dire di muovermi su questo terreno con maggiore sicurezza. In secondo luogo, infine, perchè il problema filosofico, del rapporto fra universalismo (o più esattamente, pretese di universalismo) e differenzialismo (o più esattamente, rivendicazioni di differenzialismo) forse il maggiore problema filosofico che si pone in quest'epoca detta (a mio avviso impropriamente, ma per il momento assumiamo pure il termine per capirci) di "globalizzazione". Per impostare in modo filosoficamente corretto il problema dell'universalismo, la cui formulazione teoricamente più esatta sarebbe "pretesa di universalismo contro rivendicazione di differenzialismo", possiamo partire dagli antichi greci ed in particolare da Erodoto. Erodoto descrive due popoli, il primo dei quali, divora i cadaveri dei propri genitori mentre il secondo lascia questi cadaveri ai vermi, e che sono ovviamente entrambi orripilati e scandalizzati dai costumi dell'altro. Dal momento che Erodoto non vive in una cultura del Libro, cioè della rivelazione divina dell'unico comportamento moralmente accettabile, ma in una cultura del Mito, in cui la ragione umana deve liberamente decostruire i miti stessi per trarne un significato in qualche modo "universalistico", egli non è ovviamente in grado di concludere su quale sia il comportamento più "universalistico" (mangiare noi stessi la carne dei genitori oppure fare mangiare la stessa carne ai vermi), e si limita a presentare al lettore questo enigma. Il lettore, ovviamente, ne trae una conclusione inevitabilmente e spontaneamente "relativistica", quella peraltro tratta, anche dai sofisti contemporanei di Erodoto, per cui ogni popolo ha i propri costumi, che non sono sostanzialmente comparabili con un criterio "oggettivo", ma che bisogna limitarsi a descrivere con attonita meraviglia e con insaziabile curiosità.
Il pensiero greco ha storicamente cercato di uscire da questa aporia erodotea con Pitagora ed il pitagorismo (di cui a mio avviso la concezione di Parmenide dell'Essere non è che una derivazione sapienziale. In questa impostazione pitagorica c'è almeno una cosa che può essere definita veramente universale, e cioè la teoria dei numeri unita alla teoria degli assiomi e dei teoremi della geometria. Mentre infatti gli uomini possono dividersi sui riti funerari, sui costumi sessuali, sulle cerimonie religiose, eccetera, vi è almeno un terreno su cui è possibile cercare e trovare un consenso "universale". Di qui è nata, e viene continuamente ripetuta a distanza di duemila e cinquecento anni, l'espressione "la matematica non è un'opinione". L'importanza storica della filosofia di Platone consiste appunto nell'aver cercato di portare questo "universalismo matematico" al livello di un "universalismo etico e politico". Si tratta appunto della cosiddetta dialettica platonica, di cui a mio avviso (ma non c'è purtroppo qui lo spazio per argomentarlo) la dialettica hegeliana non è che uno sviluppo innovativo. Vediamo allora che la contrapposizione fatta da Alain de Benoist fra politeismo greco e monoteismo ebraico-cristiano non è esatta, almeno a mio avviso. Platone infatti è un greco, non certo un ebreo o un cristiano, eppure persegue comunque una sorta di "monoteismo razionale" di tipo universalistico, a meno che, ovviamente, il suo pensiero venga interpretato non come un tentativo universalistico di portare il pitagorismo dalla matematica all'etica, ma solo come una risposta determinata e non universalistica alla crisi della polis ateniese dei suoi tempi (ed è possibile farlo).
Ma torniamo al tema dell'universalismo. Il cristianesimo, insieme a tutte la religioni monoteistiche di tipo "abramitico", non lo risolve per nulla, ma effettua una regressione verso la rivelazione religiosa di tipo sumerico, babilonese e mesopotamico (di cui la Bibbia è a mio avviso solo una tarda traduzione in ebraico ed in aramaico, ma non certo un contributo originale). Un "universalismo rivelato" non è ovviamente un universalismo (ed il caso di Bush oggi è esemplare). Le scuole filosofiche razionalistiche di origine ebraica (Mamonide), musulmana (Averroé) e cristiana (Tommaso d'Aquino) se ne accorgono, e sono allora costrette a mettere fra parentesi la rivelazione ed a tornare sul terreno razionale e dialogico della filosofia greca, cioè la teoria della natura umana e del diritto naturale. Quanto più si vuole "salvare" Grerusalemme, tanto più si è costretti a tornare ad Atene.
Do ovviamente qui per scontato, e non lo ritengo neppure degno. di argomentazione, che il preteso universalismo colonialistico europeo, da Pizarro a Bush non è affatto un universalismo, ma un particolarismo differenziale occidentale che si presenta come universale unicamente perché è più armato delle sue vittime. Lo do per scontato, perchè non mi interessa perdermi in una casistica anti-coloniale, ma non perdere di vista il problema filosofico, della pretesa universalistica confrontata ad una rivendicazione differenzialistica. Del resto la domanda, che allude alla difesa del differenzialismo sostenuta oggi da de Benoist, sembra suggerire uno scenario di universalismi plurali che scelgono la via del confronto pacifico per sostenere le loro pretese, oppure lo scenario di differenzialismi culturali autofondati in reciproca coesistenza, convivenza e tolleranza. E'questo dunque il terreno su cui conviene riflettere.
Detto in estrema sintesi, io sono per un universalismo tendenziale, processuale, regolativo (in senso kantiano), dialogico e razionale e nello stesso tempo sono perfettamente cosciente che ogni pretesa universalistica può essere usata come arma ideologica di supporto "culturale" per strategie economiche, militari e geopolitiche di dominio, di aggressione e di occupazione. Ma allora, si tratta di una "quadratura del cerchio" impossibile, perché non c'è soluzione per questa antinomia paralizzante?
Un passo per volta. In primo luogo, anche un relativista, un politeista ed un differenzialista estremo come de Benoist (cui sono personalmente legato da sentimenti di amicizia) deve ammettere di condividere con me almeno un elemento universalista comune, e cioè la ragione dialogica. Ma se la ragione dialogica è l'elemento comune che unisce gli universalisti ed i differenzialisti, allora si apre la via per un possibile consenso non solo formale ma anche sostanziale. Facciamo gli esempi estremi del rogo delle vedove indù e dei sacrifici umani sulle piramidi azteche. In un'ottica radicalmente relativistica e differenzialistica è impossibile criticare questi due fenomeni. In un'ottica di universalismo dialogico e procedurale è invece possibile farlo. Ma per poterlo fare è necessario presupporre non solo il concetto di certo (l'acqua bolle a 100 gradi) e di esatto (4+4=8), ma anche di vero-bene. Con questo, non ne deriva assolutamente che bisogna bombardare gli indù e gli aztechi. Ne deriva soltanto per ora la legittimità del terreno dialogico comune (ed universalistico) della condanna di queste due pratiche.
Qui siamo soltanto, ovviamente, su di un terreno teorico, ma anche questa simulazione teorica è importante per poterci orientare. Quando invece l'occidente si arroga il diritto di proclamare universalistico lo sfruttamento pornografico dell'immagine del corpo femminile, e di condannare invece come arretrato, barbarico e particolaristico l'uso dal velo sul viso o sui capelli, eccetera, siamo di fronte ad un caso palese e scandaloso di arroganza particolaristica travestita da "diritti umani". Il concetto di "umanità", ovviamente, ha la doppia ed ambigua caratteristica di essere contemporaneamente un modello normativo universalistico del comportamento (è umano assistere gli inermi, è disumano ucciderli, eccetera) ed una posta in gioco ideologica di strategie di potenza (Clinton e Bush sono umani, Milosevic e Saddam non lo sono).
Tuttavia, poiché concordiamo tutti sulla strumentale ipocrisia dell'occidente e del suo sistematico uso dei due pesi e delle due misure (i palestinesi sono terroristi, gli israeliani no, le autobombe irachene sono terroriste, i bombardamenti americani no, e via via in questo delirio di ipocrisia istituzionalizzata), non è necessario fare altri esempi, ma è utile proseguire su questa linea di ragionamento "universalistico".
L'universalismo ed il differenzialismo non sono due polarità identitarie che ci ingiungono di "prendere o lasciare" e ci intimano di "schierarci" come su di un ring di pugilato. Sono piuttosto due polarità dialetticamente unite in una correlazione complementare essenziale. La pretesa di universalismo e la rivendicazione di difftrenzialismo devono allora essere concepite filosoficamente come un'unità concettuale dinamica, all'interno della quale si articola la totalità espressiva umana di tipo etico-politico.
Oggi l'arrogante livellamento della macchina da guerra costituita dall'unità di pensiero unico (lato di destra) e di politicamente corretto (lato di sinistra) vorrebbe distruggere ogni residuo non normalizzato, dalla caccia alla volpe in Inghilterra alle corride in Spagna, dalla poligamia in Arabia alla poliandria in Polinesia, eccetera. Questo conformismo è asfissiante, ma esso non deve essere confuso con la nozione filosofica di universalismo. Personalmente, rifiuto di schierarmi fra i cacciatori e gli animalisti. E'questo schieramento non è neppure necessario. La conoscenza etico-filosofica non può e non deve coprire maniacalmente tutti gli spazi di dibattito possibile. Per fortuna dell'umanità e della libertà umana, la filosofia (universalistica e/o differenzialistica) non potrà mai diventare una scienza esatta, e nello stesso tempo non credo nella sua "messa ai voti" elettorale. Qui non si ha a che fare con la sapienza (sophia) ma con la saggezza del caso per caso (sophrosyne). Aristotile aveva capito questo punto molto meglio di Mosè o di Platone.
Posso allora avviarmi a completare questa quarta risposta passando finalmente dal cielo della interrogazione filosofica, sul nesso pretesa di universalismo/rivendicazione di differenzialismo alla "terra" degli attuali conflitti economici, politici, militari e culturali.
Oggi l'impero militare americano, garante geopolitico e militare di un capitalismo totale nemico di ogni controllo politico (da lui battezzato indifferentemente comunismo, fascismo o populismo) persegue una strategia storica di universalizzazione senza universalismo. Mentre l'universalismo è ideologicamente debole, perché coattivo e costrittivo (ad esempio il comunismo storico novecentesco 1917-1991), la semplice universalizzazione della forma di merce assoluta è fortissima, perché non richiede adesione consapevole, ma semplicemente incorporazione individuale e sociale. In modo solo apparentemente paradossale, questo processo di universalizzazione della forma di merce, formalmente del tutto deideologizzato e puramente "performativo" si unisce ad una ideologia religiosa messianica di matrice veterotestamentaria, e dunque sumerica assiro-babilonese e pre-greca (e quindi non occidentale), per cui l'universalizzazione della forma di merce è una missione speciale affidata da Dio al suo popolo eletto, costituito da élites protestanti ed ebraiche che guidano una plebe mondiale emigrata ed omogeneiezzata. La sua musica ideale è una forma di ritualità collettiva estatica ed orgiastica a pieno volume, nemica della riflessione individuale. La sua religione preferita è una forma di buddismo psicologico terapeutico, in cui la dimensione comunitaria (dominante nel buddismo asiatico originario) è interamente distrutta nel suo passaggio dal Tibet alla California. L'anima è ridotta integralmente a corpo geneticamente manipolato o ridotto ad icona pubblicitaria e pornografica. E si potrebbe continuare a lungo, cosa impossibile qui per ragioni di spazio. Ma l'insieme è ormai facilmente percepibile.
Di fronte a questo "nemico principale" della varietà delle culture, delle lingue e delle forme di vita la resistenza deve assumere necessariamente la forma della rivendicazione della differenza. Su questo punto fra me ed Alain de Benoist non c'è alcuna divergenza, ma anzi la convergenza è completa. Nello stesso tempo, senza nessun odioso "imperialismo della verità", è necessario tenere aperto lo scenario del dialogo fra le culture, non per perseguire un impossibile canone universalistico coattivo, ma per raggiungere soluzioni soddisfacenti caso per caso, nell'ottica non di un impero universale militarmente onnipotente, ma di una libera società mondiale.