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Se le parole curano, il silenzio fa rinascere

di Manuela Trinci - 29/09/2007


MOLTO RUMORE per nulla? Persino gli psicoanalisti hanno rivalutato, e usato nella clinica, il tacere del paziente: una «chiave» che apre porte interiori molto antiche inaccessibili al linguaggio verbale

Incredibile a dirsi, ma sulla grande rappresentazione collettiva dell’analista silenzioso a tutti i costi - critici e psicoanalisti concordi - parrebbe gravare niente meno che l’ombra dell’indimenticabile Maggiordomo nell’Impareggiabile Godfrey (1936), personaggio «super partes», rispettabile neutrale e, soprattutto, assolutamente silenzioso. Se poi ad altre decine e decine di strizzacervelli di celluloide si aggiungono esilaranti vignette di lettini, bloc notes e ronzii, apparse nelle riviste popolari sin dagli anni quaranta, il gioco è fatto. È accaduta quella trasformazione, ipotizzata da Roland Barthes, della cultura piccolo-borghese in una natura universale: nella stanza d’analisi regnerebbe il «silenzio».
Peraltro, nonostante sia arcinoto che la psicoanalisi nacque e fu battezzata da Freud come cura con la parola, talk cure, dagli anni cinquanta in poi gli stessi psicoanalisti non hanno esitato a sferzare duri attacchi al linguaggio. Jaques Lacan lasciò provocatoriamente un nutrito uditorio romano in attesa di una sua parola per circa 20 minuti, mentre Wilfred Bion non ha risparmiato pagine taglienti contro la corruzione, la degradazione, la falsità, l’inadeguatezza, la frode e la menzogna insita nella parola stessa.
Un elogio, dunque, al silenzio? Diciamo che sebbene gli analisti fossero sino dagli inizi consapevoli dei livelli preverbali presenti e attivi nelle sedute di analisi (livelli in cui, per esempio, predomini l’intonazione, il ritmo delle parole ecc), molti di loro rimasero della convinzione che questo universo di parole «invisibili» - per poter essere usate clinicamente - dovesse, comunque, essere tradotto e trasposto nei significati convenzionali del linguaggio. Un’ingenuità, si direbbe oggi all’unisono, abituati come si è ad utilizzare altri registri che appartengono appunto alla psicoanalisi post-freudiana che si è trovata a fare i conti e a cimentarsi nella cura di bambini anche piccolissimi o di patologie dove manca un riconoscimento dell’altro e la parola non può arrivare, patologie un tempo ritenute al limite o incurabili - dal narcisismo alle perversioni alle varie forme di psicosi e di autismo. Ma soprattutto il pensiero psicoanalitico ha acquisito oggigiorno la consapevolezza che esistono esperienze umane la cui intensità emotiva non può certo essere espressa con la parola. «Rimane una grande lacuna fra il neonato che conosce i fatti e noi che conosciamo il linguaggio», era solito osservare Bion in proposito.
E già Ferenczi, il «bambino terribile della psicoanalisi», aveva detto che quando due persone comunicano, lo fanno sempre a due livelli, di cui uno è e rimane silenzioso. Ma saranno, più recentemente, alcuni analisti britannnici, Margaret Little, Marion Milner, Donald Winnicott, Masud Khan, Cristofer Bollas, a parlare dettagliatamente e a sostenere la priorità di una «comunicazione attraverso lunghi silenzi», che restituisca all’orecchio le abilità perdute, ripristinando contatti e legami divenuti inusuali, aprendo l’udito a fruscii, gorgoglii, battiti del cuore e immergendo analista e paziente in un bagno di suoni primordiali. La coppia, il «noi» analitico, opera così con gli orecchi, col naso, con la bocca e con gli occhi. Tutti gli organi di senso funzionano in origine come organi di contatto nella situazione fisica della distanza, scriveva Eugenio Gaddini. E anche Hirme Hermann, sosteneva che ci si aggrappa «muti con gli occhi». «L’occhio ascolta, tocca, sente, gusta», annotava ancora J.B. Pontalis. «Udire con gli occhi appartiene al più fine ingegno d’amore», pare aver scritto quasi a conclusione Shakespeare nel suo ventitreesimo sonetto.
Ovvio, quindi, che il silenzio del paziente, nei suoi aloni semantici, sia andato nel tempo trasformandosi e se da un lato se ne mettono ancora in luce le valenze ostili e aggressive, di distanza emotiva, di incapacità di affrontare il conflitto, di resistenza alla cura, o se ne sottolineano le possibili risonanze di ritiro, di scoraggiamento, di sospetto, di angoscia persecutoria o di tentativo di seduzione, dall’altro se ne riconosce la «pienezza», la possibilità, in altre parole, di vivere un abbandono quieto nel quale si integrino pensieri, sogni e parti di sé. Col silenzio si può rivivere la remota terrifica equazione con la morte, si può tacere, trattenere le parole come si trattengono le lacrime o le sostanze fecali, si può voler mangiare l’analista, assimilarsi a lui così parco di parole, si può voler prendere il potere celando i pensieri, si può tutto questo e altro ancora come, ad esempio, ritrovare antiche esperienze di completezza e di appagamento tipiche del rapporto primario fra la mamma e il suo bambino, un rapporto senza cesure: l’«unità fondamentale». Se la parola è un sintomo d’affetto, scriveva Emily Dickinson, «un altro è il silenzio. La più perfetta comunicazione».
Una specie di Giano bifronte, allora, il silenzio in analisi che può farsi ostacolo come pure stimolo nel processo analitico facilitando, con la regressione a uno stato di benessere, un’assimilazione lenta e continua dei contenuti psichici, culla per una parola autentica, scaturita dalla ricerca della propria soggettività.
Perché il silenzio, come sostiene Greenson, è l’eclissi della parola e non del senso. Si parla e si tace, si tace e si parla. Ed è solo la consapevolezza delle pause, delle scansioni, dei ritmi, che abitano il silenzio, che permette di parlare reciprocamente, l’uno con l’altro. A ben guardare, ogni parola, ogni suono emesso dall’altro, costituisce l’incontrovertibile prova che l’oggetto è separato, che forse si è da soli, ma di una solitudine non minacciosa. Piuttosto una condiziona privata, silenziosa per l’appunto, dove possono avviarsi i processi creativi, l’amore per l’arte, la musica, la letteratura. Pensato il pensabile, comunicato il comunicabile, detto il dicibile, concluso ciò che era aperto e conflittuale, si ritrova con ciò quel silenzio da cui la parola e il linguaggio sono scaturiti: il silenzio dell’origine.