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Dalla parte della polis

di Eduardo Zarelli - 28/07/2007

Fonte: Arianna Editrice

 

Nel testo redatto da Badiale, Bontempelli e Dinucci ci pare soprattutto importante il distacco dai riferimenti simbolici, ideologici e politici della tarda modernità neocapitalista. È la chiave di lettura più adatta per comprendere le ragioni della loro disillusione sulle capacità critiche delle ideologie progressiste e, dato che questa rivista ha ormai metabolizzato un distacco altrettanto inequivocabile dai modelli politici e ideologici conservatori, siamo consapevolmente protagonisti di un tentativo minoritario, ma intellettualmente onesto, di confronto sulla praticabilità di una critica originale, che formuli nuove sintesi ulteriori alla destra e alla sinistra.

Serge Latouche usa il termine "megamacchina" per identificare gli effetti sistemici del modello di sviluppo occidentale, che disintegra ogni elemento sociale e culturale non eterodiretto dalla tecnoscienza; in modo analogo, Ivan Illich parla di vernacolare (cioè non mercificato) per appellarsi ai residui spazi interiori incontaminati dalla alienazione edonistica. Il problema consiste nel riuscire a trasformare questa posizione concettuale ed etica da residuale a propositiva; la bontà e la coerenza di una critica all’esistente egemonia liberale e utilitaristica non riusciranno infatti a rendersi credibili – relegando nella storia tutte le forme ideologiche del secolo trascorso – fino a che questa critica non sarà capace di avvertire il disagio sociale nel cuore della società industriale come qualcosa di aderente alle naturali esigenze della personalità umana; ovvero di rendere consapevole l’opinione pubblica che il conflitto cruciale del nostro tempo è ormai antropologico prima che ideologico, trasversale a identità e appartenenze.

Feyerabend scrive che il razionalismo occidentale è legato fin dalla sua origine a derive totalitarie: «la scienza diventa anch’essa antidemocratica nella misura in cui da arte si converte in impresa filosofica»; per il filosofo o per lo specialista «sapere cos’è un uomo non significa semplicemente conoscere per rapporti personali molti uomini, uomini di diverse culture e di diverse classi sociali, ma si tratta di cogliere un’essenza chiara, obbediente a chiare regole, che sia separata da processi così caotici e soggettivi, vale a dire il concetto di uomo».

Questo ci dovrebbe persuadere che la giustizia e la verità non si possono isolare da una forma di vita, che le forme speculative e i concetti astratti sono sostanziali al macchinismo della modernità e che la pretesa di ogni forma di razionalismo legato alla tradizione occidentale ha essenzialmente l’obiettivo di istituire forme politiche eudemonisticamente liberticide: lo Stato contro le comunità solidali e le identità sostanziali. Anche chi continua a rivendicare l’emancipazione degli oppressi o il riscatto del lavoro è ostaggio di coloro che dichiara di voler combattere. La lotta di classe è proiettata sul controllo dei mezzi di produzione, sul presupposto che signoria e servitù siano sempre dipendenti dall’"economia", intesa come produzione e riproduzione dei mezzi per la sopravvivenza e il consumo degli individui; bisogna invece riuscire a cogliere che, ancor prima di questa disuguaglianza – pur da non sottovalutare – c’è il problema dei significati attraverso i quali un individuo e il suo gruppo si autorappresentano e si «identificano». In realtà, per dirla con Karl Polanyi, «i mezzi attraverso cui avviene l’identificazione» sono contestuali ai «mezzi di produzione».

Come ha dimostrato Louis Dumont, l’individualismo radicale e l’idea moderna di libertà distruggono la comunità alla base della vita sociale e operano in profondità anche dentro la visione marxista e la lotta per l’emancipazione dei lavoratori proletari, rendendoli in pratica subalterni agli stessi significati istituiti dalla rivoluzione borghese: l’accesso al benessere economico individuale si realizza con il contrattualismo liberale, che ancor oggi piega alla forza persuasiva della sua capacità empirica sia la destra che la sinistra. Hegel e Spinoza, Stato etico e Stato sociale sono feticci strumentali di fronte agli spazi aperti della globalizzazione. All’interno di questa visione non è possibile altra autorappresentazione dell’individuo che non sia quella dell’homo faber e diventa impossibile raffigurare e praticare socialmente e culturalmente ogni modo di stare al mondo che non sia quello finalizzato alla produzione e al consumo di merci; tutte le altre culture vengono presentate come residui pre-moderni, facili capri espiatori dialettici delle «magnifiche sorti e progressive».

Ecco perché parliamo di scontro antropologico ancor prima che ideologico. Lo spazio di manovra, per chi critica la modernità, è contemporaneamente marginale e potenzialmente diffuso. Se si ricopre il ruolo imposto dagli automatismi mediatici del sistema politico culturale dominante si rimarrà (più o meno) lucidi testimoni dell’immodificabile determinismo degli avvenimenti, ma se si riuscisse a cogliere l’anormalità impersonale dell’homo œconomicus come condizione socialmente condivisa si potrebbe trasformare da "normale" ad "eversivo" il paradigma dominante della vita naturale e dell’economia (oikos) che la sostiene comunitariamente in un ambiente, un "luogo" fonte di identificazione e di affetti determinanti per la reciprocità. A quel punto, diventerebbe possibile declinare la modernità in forme alternative all’esistente ma al tempo stesso realistiche, condivisibili senza postulare utopie romantiche o evasive con il loro patologico strascico storico e ideologico.


Barbarie e civiltà

Il portato della modernità si esprime nell’affermazione illuminista della civilizzazione contro la barbarie. La scuola di Francoforte ha tentato la demitizzazione della razionalità, ma da una posizione dialettica e, quindi, iscritta occidentalisticamente nel determinismo storico. In effetti, non è solo la razionalità strumentale ad essere identificabile con il funzionamento del macchinismo: anche la razionalità speculativa, privata di totalità intuitiva, di intelligenza dell’essere, si avvita su se stessa nel circolo vizioso dell’epistemologia scientifica e del nichilismo culturale. È il neo-illuminista Bernard Henry Lèvy che ci canta le virtù civilizzatrici del cittadino sradicato della cosmopoli planetaria, che descrive la natura come oscura prigione umana, scenografia passiva della sperimentazione liberale, a scanso e orrore nevrotico di ogni limite. In realtà, l’eterogenesi dei fini umanitaristici si fa oggi incalzante, le biotecnologie ci mostrano l’inumano trionfante e chimerico a portata di brevetto commerciale. L’urbanizzazione degrada irreversibilmente la qualità della vita, impattando con l’irrisolvibilità tecnica delle contraddizioni create dalla tecnica stessa. L’individualismo si sublima nella desertificazione relazionale della società dello spettacolo e dell’egoismo universale. La vera barbarie è quella che cancella la biodiversità, i generi e le specie, le appartenenze locali e le sfumature interiori dei paesaggi umani e naturali. Nell’abitare a portata di territorio vi è ancora il crinale percorribile tra natura e cultura, il crinale che porta alla civiltà e non alla sua parodia tecnomorfa; anzi, gli attributi del barbaro storico oggi costituiscono forma e sostanza del pensiero unico occidentale; se il barbaro è un concentrato di avidità e opportunismo utilitaristico nel miraggio della conquista dell’orbe terracqueo, di fatto è l’ "ultimo uomo" della tarda modernità civilizzatrice. L’ordine e la normalità, in questo contesto, sono parodie rovesciate dell’armonia cosmogonica. Il nichilismo, dopo aver abbattuto l’ultraterreno, secolarizzato e desacralizzato il vivente, si proietta nel prometeico sforzo planetario di conquistare il regno di Dio in terra per mezzo di un uomo che non è più tale, non è più naturale, reale, ma virtuale, manipolabile, incosciente, preda della sua arroganza: un barbaro in nome della volontà di potenza, contro la volontà di «essere», di mettersi in «forma», di realizzare l’infinito nel finito, la civiltà.


Cultura e natura

Dal punto di vista umano, l’intelligenza ha a che fare con la dimensione collettiva dell’aggregarsi, in cui ognuno si riconosce come parte di qualcosa di più vasto e partecipa alla trama della vita nella sua interezza, fatta di modelli, archetipi e simboli, da un lato; di cicli, suoni, ritmi, dall’altro. La razionalità è, invece, la capacità di elaborazione logico-matematica e di previsione a partire dai dati acquisiti con l’esperienza; è espressione parziale dell’individuo ed è determinata da una serie di condizionamenti, fra cui spicca quello sociale.

Lo squilibrio dovuto alla razionalizzazione si cristallizza nel potere della sopraffazione: l’artificiale sul naturale, il materiale sullo spirituale, i "progrediti" sugli "arretrati". Questo significa che, qualunque sia il punto di vista da cui si critica la società contemporanea, per andare alla radice dei suoi mali e delle sue contraddizioni, bisogna affermare la centralità della questione ecologica, nel suo significato profondo di distacco fra cultura umana e natura.

In una cultura ad alta entropia – generazione di un ordine sempre più accentuato in un determinato ambito, che induce il disordine e la morte nell’ambiente che lo sostiene – lo scopo prevalente della vita diviene l’uso di un elevato flusso energetico per creare un’abbondanza materiale e soddisfare ogni desiderio; la liberazione umana coincide con l’accumulo di una quantità sempre maggiore di ricchezza. Avendo bandito il sacro dalla società, il sistema di valori materialista cerca di creare il paradiso in Terra, indicando nella soddisfazione di ogni bisogno voluttuario lo scopo dell’esistenza. La realtà è ridotta a ciò che si può misurare, quantificare, verificare; si negano i valori qualitativi, spirituali e metafisici. Soggiaciamo all’efficienza dell’automatismo, al progresso materiale, alla specializzazione posta al di sopra di qualsiasi altro valore e, nel far questo, distruggiamo la famiglia, la comunità e le tradizioni. La fede faustiana nella capacità tecno-scientifica di superare tutti i limiti relativizza i valori sostanziali. Oggi l’individualismo e l’egoismo sono il motore della società. Nel momento in cui la dimensione comunitaria è stata distrutta dall’incalzare della modernità, è venuta meno la possibilità di pensare e vivere compiutamente in termini di intelligenza piuttosto che di razionalità e l’individuo ha perso il senso di appartenenza alla più ampia comunità naturale.

In natura ogni cosa è in relazione, la rottura della sintonia profonda che lega tutte le specie nella trama della vita inibisce la sensibilità dell’uomo a sentirsi parte dell’universo in un rapporto di corrispondenza elettiva tra micro e macro cosmo.

Vivere e pensare in termini meramente razionali è riduttivo. Razionalizzare vuol dire semplificare, ridurre l’infinita complessità della vita a una serie di dati manipolabili. L’individuo che perde il senso della comunità perde la possibilità di realizzarsi. È lo sradicamento interiore ed esteriore descritto da Simone Weil: l’utilitarismo persegue la libertà nell’emancipazione dell’avere, celando il valore della generosità sovraindividuale dell’essere e, per automatismo, lo sradicato sradica per risentimento e, poi, per superficialità.


L’inversione di paradigma

Il paradigma materialistico della scienza moderna, basato sull’idea di una natura priva di intelligenza e di finalità, plasmabile senza limiti dalle aggressioni tecnologiche, è la forza più grande che modifica il mondo, degradando società, cultura e biosfera in una spirale apparentemente inarrestabile di interazioni distruttive. Questo progetto oggi è giunto ad un punto critico. È scomparsa, perfino nella coscienza comune, l’intima convinzione della razionalità progressista su cui si è retto l’ottimismo di un’intera epoca: la persuasione che, comunque, il tempo lavora per l’umanità; si è invece insinuato il sospetto che, ad un livello profondo e invisibile, si sia prodotto nel cuore stesso del meccanismo della vita sociale qualche guasto, che potrebbe, prima o poi, portarci all’annientamento.

Il paradigma che oggi sta perdendo valore e credibilità ha dominato la nostra cultura per molte centinaia di anni, durante i quali ha plasmato la civiltà occidentale moderna e ha esercitato un’influenza significativa sul resto del mondo. Esso consiste in una quantità di idee e di valori radicati nella mentalità comune, fra cui la visione dell’universo come sistema meccanico composto da mattoni elementari, la visione del corpo umano come macchina, la visione della vita sociale come competizione egoistica per l’esistenza, la fiducia in un progresso materiale illimitato da raggiungere attraverso la crescita economica e tecnologica. Fatalmente, tutti questi assunti sono messi in discussione dalla perdita delle certezze del progresso e, di fatto, è oramai matura la necessità di una loro revisione radicale.

Definiamo il nuovo paradigma una visione olistica, considerando la Terra come un insieme integrato e complementare piuttosto che come una serie di parti separate di un Mondo da unificare. Possiamo anche definirlo una visione ecologica, se conferiamo all’aggettivo "ecologico" un significato più ampio e profondo di quello usuale. Una consapevolezza ecologica profonda riconosce la fondamentale interdipendenza di tutti i fenomeni e il fatto che, come esseri umani e sociali, dipendiamo e contemporaneamente incidiamo sui processi ciclici della Natura. Abbiamo dei limiti, che coincidono con la "forma" in essere di una civiltà.

L’ecologia profonda non separa gli esseri umani – né ogni altra cosa – dall’ambiente naturale, che non si pone come regno faustiano della volontà di potenza scientista o come «pattumiera» nella dialettica razionale. Non vede il mondo come una serie di oggetti separati, ma come una rete di fenomeni interconnessi e interdipendenti. La consapevolezza ecologica è una percezione sacrale dell’esistente. Arne Naess ha definito l’ecologia del profondo come uno strumento per porsi domande radicali sui veri fondamenti della nostra concezione del mondo e sul nostro stile di vita. L’ecologia del profondo mette in discussione il macchinismo industriale nella prospettiva ecologica dei nostri rapporti reciproci con le generazioni future e con la trama della vita di cui siamo parte. Solo una scienza riorientata da questa consapevolezza potrà sostenere le scelte di una società sobria, autoregolata al minimo dei bisogni e dei consumi, in armonia con la natura.

L’essenza di una prospettiva olistica sta nella volontà di riconnettersi col proprio luogo, sottraendolo al controllo della megamacchina, per ristabilire il corretto rapporto con il mondo naturale. È possibile ritrovare la connessione intima con l’intera trama della vita e rinunciare a porsi in posizioni di dominio – peraltro apparente e temporaneo – ricreando reciprocità e armonia tra l’uomo e la natura. È possibile, però, solo se si torna ad essere abitanti del luogo, se cioè si recuperano solide radici tramite le quali acquisire una nuova consapevolezza del pianeta come essere vivente. Si tratta di sviluppare una sensibilità ecocentrica con cui costruire, nel ventre della società dello scambio, una rete di ambiti di reciprocità in cui possano svilupparsi comunità locali rigenerate legate strettamente alla compatibilità ambientale.

La megamacchina opera per affermare la propria cultura unica, il suo stile di vita universale. Il suo obiettivo è ridurre tutti i popoli a un’unica grande massa omogenea e, quindi, malleabile a piacimento. Cerca di raggiungere questo obiettivo con la metabolizzazione e la sterilizzazione culturale, sociale e politica.

La cultura dominante sostiene che le leggi di natura sono pure astrazioni, che non a caso sussume nelle leggi economiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre l’impatto dovuto ai consumi. Se c’è qualcosa che la natura indica perentoriamente, è il senso del limite, la sobrietà, la forma. L’economicismo, la devastazione ambientale, la meschinità dei comportamenti interessati, il gigantismo, l’anonimato delle metropoli e l’insignificanza dei suoi luoghi sono alcuni dei sintomi della repressione della bellezza effettuata dal pragmatismo: sono un derivato della perdita di quel sentimento di misura e di armonia cosmica, di pudore e di grazia, che rivelano l’essenza e accendono l’eros, l’amore per l’anima in tutte le sue manifestazioni. Il Sé – per dirla con Hillman – può manifestarsi solo come "interiorizzazione della comunità", da un lato, e come continuità con il cosmo, dall’altro.


Il risvolto economico

Serge Latouche descrive accuratamente l’invenzione epistemologica ed etica dell’economia di scambio, smascherandone la falsa ingenuità e l’assoluta originalità storica, che smentisce ogni determinismo in merito. Come scienza, è assolutamente incerta nei suoi fondamenti conoscitivi e, quindi, predittivi, dato che non ha un oggetto di osservazione omogeneo e condiviso, al di fuori di quelli prodotti dallo stesso discorso economico: «Non esiste qualcosa come la vita economica, bensì la vita tout court». La progressiva autonomia dell’economia dalla vita nel suo complesso è dovuta, secondo il pensatore francese, allo sviluppo unilaterale manifestatosi da un certo punto in poi nella ragione occidentale. Egli ricorda che la ragione aveva, presso i Greci, due aspetti: il logos e la phronesis, la saggezza.

Nella modernità occidentale del dualismo cartesiano, il logos annichilisce la phronesis e diventa "razionalità calcolante", quindi totalità economica, ma la ragione riduzionistica, orfana della noetica e della vita nel suo complesso, è incapace di spiegare e di rappresentare la realtà, se non riducendola a calcolo ed astrazione. Si badi che la proiezione economica finanziaria, per quanto astratta e speculativa, costruisce un mondo assolutamente reale, fatto di rapporti di forza e di modi di produzione cogenti ed empiricamente irrefutabili, ma virtuali, legati ad una contraffazione simbolica rappresentata dall’utilitarismo edonistico, le cui proiezioni sono dettate dall’ansia di rassicurarsi psicologicamente sulle certezze del progresso, ma si risolvono nell’irrazionalità più irresponsabile e suicida.

Non può, lo specialismo, lo strumento analitico cogliere la generalità di un fenomeno: la totalità è simbiosi ed è maggiore alla somma delle singole parti. A questa razionalità calcolante, strumentale, Latouche oppone la dimensione del ragionevole. La razionalità calcolante è alienante e incapace di afferrare la sostanza dell’essere umano, ché nel suo profondo ripropone inesausto dei valori – l’amore, la giustizia, la libertà – con il corollario degli stati d’animo relativi: la felicità, la sofferenza etc… Il paneconomico elimina ogni valore, congela l’animo umano in un unico valore dominante, è il disincanto del «pensiero unico occidentale».

Polanyi, nella ricostruzione storica dell’economia, descrive tre figure socio-economiche: la reciprocità, la redistribuzione e lo scambio. Se quest’ultimo è il contesto dominante attuale, incentrato sul contrattualimo giusnaturalistico globalizzante, la redistribuzione è legata ai tentativi di imprigionare politicamente l’autonomia moderna dell’economico. Oltre agli autoritarismi e ai totalitarismi, anche le politiche welfaristiche contemporanee attingono a questa prospettiva legata ad una istanza di eguaglianza economica comunque individualistica e industrialista. Nonostante i correttivi liberali di questi ultimi anni, questa ipotesi di socializzazione del modello di sviluppo capitalistico si infrange di fronte alla forza del mercato, che crea la ricchezza da redistribuire e non tollera più, per semplice efficienza sistemica, i deficit pubblici, che sono incompatibili con la globalizzazione, cioè con la crescita, ovvero quello che destra e sinistra rappresentano politicamente.

La reciprocità non è invece rappresentata politicamente. Il problema di imporre un’etica all’economico è oggi irresolubile; solo un contesto comunitario può rendere etica l’economia, cioè esprimerla al meglio del suo ruolo naturale, sostenere la sussistenza degli uomini nella loro dignità di essere viventi, parte di un tutto filosofico, cioè finalizzato alla saggezza.


Il risvolto politico

La modernità si regge e cresce sull’individualismo. Al di fuori di esso, lo Stato e i suoi principi costitutivi risultano impensabili. Stato e individuo vanno necessariamente insieme e insieme tramontano. In un’epoca transitoria, la globalizzazione costringe a prendere atto di un contesto indefinito, a riconsiderare la fonte della sovranità del politico oltre lo statalismo e i suoi riferimenti universalistici.

Il movimento antiglobal interpreta la critica di questo passaggio epocale in forma forzatamente egemonica. Soppiantato ed emarginato lo spirito antindustriale ed ecologista di Seattle, possiamo oggi definirlo co-global. Toni Negri descrive compiaciuto le caratteristiche dell’Impero, un "ordine mondiale" che, con un controverso richiamo all’Impero romano, si avvale per il momento di tre Rome: Washington (la bomba), New York (la moneta), Los Angeles (lo spettacolo). Andrebbe forse aggiunta una quarta capitale imperiale, quella Boston del Mit e, quindi, della ricerca avanzata cibernetica e biotecnologia.

Comunque l’importante per il pensatore padovano è che l’Impero dischiude il positivo risultato di un processo storico conseguente al progressivo frantumarsi degli Stati nazione, un’entità «senza centro né periferia», che presiede alla moneta e al lavoro. Questa nuova situazione non nasce – per Negri – come imposizione dei governanti ma come risultato naturale della reazione alle lotte operaie e civili dei decenni trascorsi.

Dunque alla globalizzazione economica seguirà una simmetrica globalizzazione dell’antagonismo politico che, come il Cristianesimo che ha abbattuto l’Impero romano, si tradurrà in un movimento universale di lotta «senza più mediazioni ideologiche», perché «il conflitto tra le forze sociali, tra i desideri e le forme di vita è ormai radicale». Insomma la globalizzazione, invece che un folle artificio nichilistico a scapito della Terra e dei suoi abitanti, ha il pregio di «liberarci dal capitale», lasciando alla moltitudine (ogni forma di appartenenza è bandita dalle utopie narcisistiche della modernità) una rinnovata di iniziativa e movimento planetario.

A noi sembra che invece di Prometeo vada evocato Orfeo per ritrovare un nuovo accordo con la natura, le sue compatibilità e i suoi significati profondi. Emerge una necessità comunitaria alla base di un bene comune condivisibile. Per eterogenesi dei fini della rete-Mondo, il locale può ormai prender forma in qualsiasi luogo. Se le grandi narrazioni moderne hanno attinto all’universale per costringere il locale (relegato a periferia economica, provincia della storia), oggi si torna a traguardare categorie universali dal senso limitato, antropologico, reale, del locale. In questa prospettiva postmoderna, relativizzante e differenzialista, riemergono la politica e la sua potenza simbolica, con un forte potere evocativo e moltiplicativo. L’individuo, che si riconosce in un contesto, torna a intendere la naturalità della reciprocità sociale, la responsabilità della decisione collettiva, la partecipazione politica. Dal basso, dalle comunità, riemerge un possibile bene comune sovrano, non coercitivo, consensuale. Grandi spazi pluralistici e identità culturali si intersecano a trovare un’armonia tra micro e macro-cosmo. In tal senso, il nostro contesto geopolitico europeo – per dirla con Cacciari – deve tramontare come Occidente, modernità di Stati e ri-trovarsi come jus publicum, sovranità di popoli, diritto delle genti, sussidiarietà di comunità.

Se storicamente l’economia era il regno dei mezzi e la politica il regno dei fini, oggi la globalizzazione riduce la politica a strumento delle oligarchie economiche, le corporations; il complesso tecnocratico si pone come classe "generale", pur essendo connotato da una intrinseca vocazione particolaristica. Tutto ciò, in un quadro ove declinano le premesse antropologiche e simboliche, che hanno storicamente alimentato, nel tempo antico e moderno, la democrazia politica, la quale, anche in ragione di ciò, si riduce a guscio formale, che consente contenuti di potere estranei alla sovranità popolare e alla giustizia sociale.

Su questa base noi raccogliamo l’appello all’esodo di Badiale, Bontempelli e Dinucci, schierandoci dalla parte della polis, con tutti i percorsi culturali e sociali, che si pongano nei modi e nelle forme pluralistiche e comunitarie eterogenee al monofinalismo paneconomico e tecnocratico del macchinismo. In Europa, oltre l’Occidente.