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Da Nerone a Galba

di Francesco Lamendola - 30/09/2007

 

  

Presentiamo il primo capitolo del libro di Francesco Lamendola «Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d. C. », Poggibonsi (Siena), Antonio Lalli Editore, 1984, pp. 19-41. L'opera è da tempo esaurita ma un numero limitato di copie può essere richiesta direttamente all'Autore.

 

I n d i c e

 

 

1.     LE CAUSE DELLA CADUTA DI NERONE

 

2.     IL VIAGGIO IN GRECIA E LA RIVOLTA DELL'OCCIDENTE

 

3.     LA FINE DI NERONE

 

4.     L'AVVENTO DI GALBA

 

5.     IL GOVERNO GALBIANO

 

 

 

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LE  CAUSE DELLA CADUTA DI NERONE.

 

Il lungo regno di Nerone, dal 54 al 68 d. C., vide un sotterraneo accumularsi di quegli elementi di contraddizione che già da tempo lavoravano e che sarebbero sfociati nella caduta della dinastia Giulio-Claudia. Quando si prendono in esame le cause della caduta di Nerone. bisogna comunque in primo luogo distinguere quelle specifiche del governo neroniano da quelle generali dell'istituzione del principatus così come si era venuto delineando sotto la casa giulio-claudia. Tra le prime ricorderemo almeno le tendenze monarchico-assolutistiche, la persecuzione del Senato dopo la scoperta della congiura pisoniana, il malcontento dell'elemento militare per il disinteresse del sovrano mostrato per le cose militari in genere  e l'ampliamento dei confini in specie, nonché lo scanalo costituito per la mentalità latina tradizionalista dalle esibizioni teatrali e dall'ostentato gusto ellenizzante di Nerone. A ciò si devono aggiungere i delitti di lui perpetrati nell'ambito della stessa famiglia imperiale, delitti che avevano prodotto scalpore sia fra l'aristocrazia romana che fra la plebe, gli odiosi sospetti originati dall'incendio  di Roma del 64, aggravati dall'esproprio di vasti terreni pubblici sul Celio e sull'Esquilino per la costrizione della fastosissima Domus Aurea; e infine la "liberazione" della Grecia e il taglio del canale di Corinto, che minacciavano una riduzione della base tributaria dell'Impero proprio nel momento in cui le folli spese del sovrano per la sua politica di prestigio accentuavano le difficoltà economiche dello Stato.

Questo per quanto riguarda le ragioni di scontento che possono farsi risalire, direttamente o indirettamente, allo stesso Nerone. Vi erano poi altri fattori di debolezza, che egli aveva ereditati da Claudio insieme al supremo potere: la dipendenza sempre maggiore del sovrano dal favore della propria guardia personale, i pretoriani, e più specificamente dal loro comandante, il prefetto del Pretorio; la scarsa base socio-economica del governo, costituita ancora essenzialmente dai ceti medio-alti della capitale e di alcuni municipi italici; l'avversione tenace del popolo e, più ancora, dell'aristocrazia per una forma di governo scopertamente monarchica; le tensioni sociali e culturali dell'immenso Impero, delle quali la persecuzione anticristiana non era che un episodio, e delle quali l'asperrima guerra giudaica fu una tipica manifestazione.

Non è qui il caso né il luogo per analizzare singolarmente e minutamente queste molteplici cause di indebolimento del potere imperiale nella seconda metà del I sec. d. C. E sarà appena il caso di sottolineare come Nerone, con la sua grossolana mancanza di tatto politico, non fece nulla per correre ai ripari ma, anzi, moltiplicò le ragioni di malcontento, specialmente da parte del Senato e degli eserciti provinciali. Ed è piuttosto notevole come proprio tra i pochi scampati ai suoi sospetti vi fossero, quali rappresentanti di questi due gruppi, due uomini destinati a rappresentare una parte di rande rilievo negli sconvolgimenti del 68-69. Uno era Servio Sulpicio Galba, di nobilissimo casato romano, tipico rappresentante del Senato tradizionalista e di gran lunga il più notevole tra gli scampati alla persecuzione antisenatoria, che nel 68 ricopriva la carica di governatore della Spagna Tarraconense. L'altro era Tito Flavio Vespasiano, generale di notevoli capacità personali ma di umili origini, già caduto in disgrazia presso Nerone per essersi addormentato o allontanato mentre quegli cantava e messo a capo, non senza riluttanza, dell'esercito romano impegnato in Palestina. Pare oggi accertato che Nerone si risolse ad affidargli un incarico di tale importanza, che comportava, fra l'altro, il comando di tre intere legioni, proprio in considerazione delle modeste origini di Vespasiano, parendo allora quasi impensabile che un homo novus potesse nutrire ambizioni superiori a quelle di un privato cittadino. A Nerone, ormai apertamente in conflitto col Senato e con la classe aristocratica in genere, non restava che appoggiarsi sempre più all'elemento pretoriano da un lato, alla plebe  di Roma dall'altro: donde le spese sempre crescenti per gli spettacolosi ludi e per le frumentazioni, divenute abituali in questo periodo storico.

Ma i pretoriani non erano che una minuscola razione dell'esercito, quantunque posta a contatto immediato coi gangli vitali dello Stato, e dunque di enorme peso politico nei riguardi dell'imperatore; e la plebe di Roma non era  che una delle tante plebi municipali dell'immenso Stato, la cui passione per la politica derivava principalmente al fatto di essere - essa sola fra tutte - mantenuta gratuitamente e, dunque, tanto oziosa quanto parassitaria e turbolenta. Ma oltre ai pretoriani c'erano i numerosi e formidabili eserciti legionarie oltre alla plebe di Roma c'erano le popolazioni provinciali, gli uni e le altre desiderosi di miglioramenti economici e giuridici, gelosi dei privilegi della capitale e naturalmente maldisposti del sovrano che su quei privilegi faceva leva  quasi esclusivamente per conservare il potere.

In altri termini, al tempo del principato neroniano era giunta l'ora in cui le lancette del sistema istituzionale erano rimaste indietro sul quadrante  del progresso storico; e legioni e province, ansiosi  di recuperare il ritardo, spiavano l'occasione  per contendere il potere a quei piccoli gruppi privilegiati  che sino allora lo avevano gestito in forma esclusiva ed egoistica. È vero che qualche tentativo di allargare la base socio-economica dell'Impero  era stato fatto da alcuni membri della dinastia Giulio-Claudia, e dall'imperatoe Claudio in particolare;  ma era ancora troppo poco, e la riprova palese di ciò stava  nel fatto che il Senato era composto quasi esclusivamente da membri dell'aristocrazia romana ed italica, e da pochissimi provinciali. Per quanto riguarda l'altro grande gruppo di esclusi, gli eserciti limitanei, Nerone non aveva saputo o voluto far nulla per rendersi popolare e i suoi atteggiamenti istrioneschi di cantante e attore tragico non avevano fatto altro che accrescere il disprezzo dei rudi legionari per l'«imperatore greco». Era nella tradizione stessa del principato che l'imperatore, oltre  che primo cittadino dello Stato, fosse anche duce di eserciti e godesse fra questi di una sentita popolarità personalità. ricordiamo per tutti il caso di Tiberio, del cui valoroso contegno quale comandante degli eserciti germanici è traccia commovente l'ammirazione di un ex legionario come lo storico Velleio Patercolo e che pure, con l'atto stesso di salire al trono, si trovò a dover fronteggiare due gravissime insurrezioni militari: quella degli eserciti del Reno, che volevano proclamare imperatore suo nipote Germanico, e quella degli eserciti del Danubio superiore, che venne fronteggiata dal figlio stesso di Tiberio, Druso. Con tutto ciò, non sarebbe esatto affermare che il disinteresse e l'incompetenza di Nerone  per gli affari militari dovevano necessariamente condannare alla rovina il suo governo, nella cornice di uno Stato militarista per eccellenza. Imperatori altrettanto 'borghesi' , come Claudio, furono in grado di conservare il potere con il favore dell'esercito, né mai furono minacciati da movimenti militari. Ma Claudio aveva personalmente partecipato alla spedizione in Britannia, guadagnandosi la simpatia dei legionari per una doppia ragione: la ripresa della politica aggressiva di ampliamento dei confini,  tanto cara agli ufficiali, e la partecipazione diretta  alle operazioni di guerra, appezzata specialmente dai soldati.

Nerone non seppe mai fare né una cosa né l'altra. Risolse più con la diplomazia che con la forza delle armi l'intricata questione dell'Armenia, facendosi tenere a lungo in scacco dalle modeste forze avversarie e quantunque disponesse di un ottimo comandante nella persona di Corbulone; e, con la rivolta della regina Boudicca in Britannia, repressa in extremis dal generale Svetonio Paolino, fu addirittura sul punto di perdere anche l'unico guadagno territoriale fatto dal suo predecessore. Verso la fine del suo regno accarezzò il progetto di una fantastica campagna alle Porte Caspie o addirittura in Etiopia, atteggiandosi a continuatore di Alessandro Magno in un momento in cui le province e gli eserciti occidentali erano già abbastanza disgustati dal suo esasperato filo-ellenismo. A tutto questo si aggiunga che Nerone si mosse due sole volte da Roma: una volta per un viaggio nella greca Napoli, ove per la prima volta si esibì in pubblico; la seconda per il fatale soggiorno in Grecia, che si può considerare la causa occasionale della sua caduta. Altri imperatori avevano viaggiato ben poco al di fuori della capitale, ma Nerone  compromise ulteriormente la propria popolarità  con le sue preferenze ostentate per l'Ellade e per l'Oriente in genere.

Infine tra le cause della sua caduta non si può passare sotto silenzio il fatto che egli si privò deliberatamente dei più validi collaboratori per sostituirli con personalità grigie, i cui unici o principali titoli di merito  consistevano nell'applaudire con calore le sue esibizioni di attore e di auriga e di farsi compagni di tutte le sue dissolutezze. È noto come i primi cinque anni di governo neroniano, trascorsi sotto la guida del prefetto del Pretorio, Burro, e del maestro dell'imperatore, Seneca, passassero nostalgicamente alla memoria dei sudditi  e dello stesso Senato come il felice quinquennium Neronis. Morto Burro, l'imperatore allontanò anche Seneca  che di poi fece assassinare, e pose al comando dei pretoriani  un siciliano di Agrigento, Ofonio Tigellino, uomo straordinariamente perfido e crudele che divenne tristemente famoso  per la sanguinaria espressione della congiura pisoniana, per la quale ebbe in premio da Nerone gli onori trionfali. Ma Tigellino era, personalmente, un uomo di scarso valore e di nessuna fedeltà; devoto all'imperatore nella buona fortuna, non esiterà ad abbandonarlo nell'ora del pericolo. Le principali ragioni del suo straordinario potere sembrano essere state la debolezza di Nerone, la propria inesauribile piaggeria nei confronti del sovrano megalomane e, soprattutto, la sua estrema determinazione e mancanza di scrupoli nello stroncar sul nascere qualunque tentativo di fargli concorrenza nel favore di Nerone. Fu così che trovò la morte quel Petronio di cui parla Tacito, raffinato maestro di dissolutezza a corte e che da tanto tempo gli studiosi si arrovellano per identificare con l'autore del Satyricon, voluminoso romanzo che rispecchia fedelmente - e forse esagera - la corruzione morale e materiale per cui questa età divenne famosa.

Tra gli altri compagni di Nerone troviamo pure i futuri protagonisti della guerra civile del 69. In primo luogo Salvio Otone, marito della bellissima Poppea Sabina, che il sovrano gli tolse mandandolo quale governatore nella lontana Lusitania; e Aulo Vitellio, guidatore di cocchi fin dal tempo di Caligola e particolarmente caro a Nerone per averlo supplicato in pubblico di recitare i suoi versi. In tali condizioni, fu una vera fortuna che gli eserciti posti a difesa degli estesissimi confini avessero dei capoi abili e professionalmente competenti: Corbulone in Armenia, Paolino in Britannia, Vespasiano in Giudea; perché l'Impero, in apparenza così formidabile, era in verità divenuto un colosso dai piedi d'argilla, con un governo centrale demagogico e inefficiente, talvolta addirittura irresponsabile.

 

 

2. IL VIAGGIO IN GRECIA E LA RIVOLTA DELL'OCCIDENTE.

 

Nerone partì per il suo agognato viaggio in Grecia nell'autunno del 66. Lo accompagnavano il prefetto Tigellino, ministro di tutte le sue crudeltà e di tutti i suoi piaceri, uno stuolo di artisti, piaggiatori e parassiti, e i fantasmi di suo fratello Britannico, di sua madre Agrippina, delle sue mogli Ottavia e Poppea e del suo maestro Seneca, tutti da lui personalmente uccisi o fatti assassinare. Scopo principale del viaggio era raccogliere un ricco bottino di preziose opere d'arte e mietere facili successi esibendosi come cantante e attore, ciò che non aveva mai osato fare in pubblico a Roma, a parte i ludi quinquennales. Così, mentre i suoi agenti saccheggiavano con barbarica avidità le vestigia del grande passato artistico dell'Ellade, Nerone nel mezzo dei Giochi Istmici, a Corinto, il 28 novembre del 66 proclamò con pompa solenne la libertà dei Greci. Lo fece da istrione, qual era, nel luogo medesimo ove analoga dichiarazione era stata fatta da T. Quinzio Flaminino, quando l'entusiasmo dei Greci per l'imperatore filelleno era giunto al colmo  nell'atmosfera frivola ed eccitata dei giochi.  Ma il tripudio dei Greci,, benché giustificato dall'evidente soggezione di Nerone  nei confronti della loro civiltà superiore, era politicamente  era del tutto fuori luogo: quell'annunzio solenne non significava  in alcun modo che la Grecia riacquistasse la sua antica indipendenza, perduta senza rimedio sui campi di Cheronea sotto i colpi della falange macedone. Significava semplicemente che, d'ora innanzi, la provincia di Acaia sarebbe stata esentata dal pagamento delle imposte al fisco romano e che le singole comunità municipali avrebbero goduto della giurisdizione di magistrati propri, status che, del resto, sia Atene che Sparta godevano già per l'innanzi e che Vespasiano, al termine della sua vittoria dopo la guerra civile del 69, si affretterà a revocare per tutta la provincia. Pur entro questa più modesta cornice, però, rimane il fatto che la teatrale dichiarazione contribuì ad aggravare le condizioni del tesoro, già dissestato dalle sue  demagogiche prodigalità, e soprattutto destò non poco risentimento fra le altre popolazioni provinciali, consce di rappresentare nel tessuto economico-sociale dell'Impero una parte ben più vitale degl'imbelli ed altezzosi Greci, il cui maggior vanto risiedeva ormai nella gloria del passato, ma Nerone, che solo in Grecia si sentiva capito e apprezzato nella sua vanità di artista, spensieratamente prolungava quel pericoloso soggiorno, continuando a mietere tutti i successi che volle.

A Olimpia organizzò un concorso di musica, e al principio del 67 fece iniziare i lavori per il taglio dell'Istmo di Corinto, che avrebbe abbreviato enormemente la navigazione fra l'Egeo e l'Adriatico e consentito una traversata rapidissima da Brindisi al Pireo e viceversa. Per tutto il 67 Nerone continuò a folleggiare per la Grecia, facendo anche ripetere i Giochi Istmici e ricevendo ovunque imponenti manifestazioni di popolarità e simpatia. Tigellino lo assecondava e lodava il suo canto e la sua interpretazione di Euripide, mentre da Roma il liberto Elio, lasciato a rappresentare gli interessi del principe, cominciava a inviare allarmati messaggi affinché Nerone ponesse fine al soggiorno in Grecia e facesse ritorno nella capitale. Questo avveniva verso la fine del 67, dapprima in base a semplici indizi di diffuso malumore contro l'imperatore, indi con tono sempre più allarmato, tanto che alla fine Elio ritenne di venire personalmente in Grecia per convincere Nerone a tornare.

Non conosciamo gli elementi precisi che indussero Elio a sollecitare con tanta insistenza il rientro immediato dell'imperatore; è certo, comunque, che nessuna notizia del movimento di Vindice poté giungere a Roma o in Grecia mentre Nerone si trovava ancora fuori della capitale. Molto probabilmente le vere ragioni dell'ansia di Elio vanno ricercate nel clima politico generale e nella malcelata insofferenza che sempre più ingigantiva in Occidente per l'imperatore matricida e istrione, che con tanta inopportuna ostentazione manifestava i suoi estremistici sentimenti di filoellenismo. Ma poiché la superficie era tuttora tranquilla in tutto l'Impero, con la sola eccezione della guerra giudaica (della quale ben poco si preoccupava), Nerone, con la sua caratteristica incoscienza politica e mancanza di buon gusto non seppe trattenersi dal dare al suo viaggio di ritorno una grottesca impronta trionfalistica. Fece il viaggio con tutta calma, come se nell'Impero regnasse la pace più profonda, e sostò lungamente a Napoli, ov'era entrato su di un carro tirato da magnifici cavalli bianchi. Di lì, avanzando lungo la Via Appia a piccole tappe, entrò a Roma su di un carro trionfale di Augusto, tra due ali di immensa folla che lo osannava come in delirio.

Traversato il Circo Massimo, il Velabro e il Foro, andò al tempio di Apollo Palatino, indi al Palazzo imperiale, ove depose le 1.808 corone guadagnate in Grecia. Per farci un'idea dello sfarzo e dell'imponenza del folle corteo, basterà ricordare che Nerone, vestito di porpora, la fronte cinta della corona olimpica e la corona pitica in mano, era preceduto dalla processione delle sue quasi duemila corone, ciascuna delle quali accompagnata da un servo che reggeva un cartello con scritto il luogo, le circostanze e il titolo della canzone o della recita che lo avevano portato alla vittoria; e che un'arcata del Circo Massimo e, forse, le stesse mura di Roma erano state abbattute davanti al suo passaggio.

Era il marzo del 68 e Nerone, tornato a Napoli, giaceva ancora immerso nel suo sogno voluttuoso, allorché gravissime notizie provenienti dalle province occidentali, in un crescendo allarmante, vennero a riscuoterlo bruscamente alla realtà. La prima riguardava l'insurrezione del governatore della Gallia Lugdunense, Caio Giulio Vindice, che aveva preso le armi in nome del Senato e del popolo romano e aveva lanciato proclami ingiuriosi contro Nerone e sollecitato l'adesione al suo movimento degli altri governatori provinciali. L'imperatore, in verità, sulle prime commise il fatale errore di sottovalutare il pericolo; poi, impressionati dalle notizie sempre più gravi provenienti dalla Gallia, e umiliato dai proclami di Vindice che lo additavano al pubblico disprezzo, chiamandolo attivo citaredo ed Enobarbo, si riscosse e prese qualche misura militare. Ordinò di costituire una nuova legione coi marinai di Miseno, la I Adiutrix, e convocò ad Aquileia le legioni danubiane; le truppe ammassate in Oriente per l'improbabile spedizione alle Porte Caspie vennero, del pari, richiamate indietro. Provvedimenti tardivi, perché ormai la situazione stava precipitando e neppure una di quelle unità sarebbe giunta in tempo per salvare lo sciagurato imperatore.

Il governatore della Spagna Tarraconense, Servio Sulpicio Galba, aveva accolto l'invito di Vindice, mobilitando le sue forze militari e, con l'appoggio di tutta la provincia, dichiarava di voler vendicare il Senato e il popolo di Roma contro il principe degenerato. Subito il governatore della Lusitania, Marco Salvio Otone, l'ex amico di Nerone ed ex marito di Poppea, aveva messo le sue forze ele sue sostanze a disposizione di Galba. E non bastava. Nella Betica il questore Alieno Cecina e, nell'Africa Proconsolare, Clodio Macro, armavano a loro volta delle truppe con scopi non molto chiari, ma diretti evidentemente contro Nerone.

Così, nel giro di poche settimane, nell'aprile del68 la più gran parte dell'Occidente transalpino era insorta contro il governo irresponsabile dell'imperatore.

 

 

3.      LA FINE DI NERONE

 

Pure, per un attimo, la situazione di Nerone sembrò rischiararsi quasi miracolosamente. Il governatore della Germania Superiore, Verginio Rufo,  si era messo in movimento con le sue legioni, piombando sui cantoni gallici insorti  e mettendoli a ferro e fuoco. Vindice non aveva potuto mettere insieme che un esercito raccogliticcio, formato in massima parte di Galli male armati e male addestrati, col quale assediava Lugdunum (Lione). Tuttavia, quando seppe che le legioni di Rufo assediavano Vesontim (Besancon), ritenne che, se non fosse accorso in aiuto della città ma avesse assistito inattivo alla sua distruzione, il movimento insurrezionale si sarebbe in breve disgregato. Perciò mosse a sua volta su Vesontium con tutte le sue forze e accettò la battaglia campale, nel quale le provate truppe del Reno annientarono l'improvvisato esercito dei Galli. Allora Vindice non volle sopravvivere a quel disastro irreparabile e si tolse la vita. Subito dopo anche Vesontium fu presa e distrutta.

Si è a lungo discusso, fra gli storici moderni, se il movimento di Giulio Vindice debba considerarsi un sussulto d separatismo celtico ovvero un movimento antineroniano perfettamente "romano"; cioè se il gallo romanizzato Vindice intendesse staccare le Galle da Roma oppure farsi campione della romanità oltraggiata dal tiranno orientalizzante. Tuttavia, se si scorrono anche velocemente le fonti antiche, bisognerà ammettere che un tale dubbio non ha ragione d'essere e che il movimento di Vindice fu diretto contro la persona di Nerone e non contro l'Impero come istituzione; ma un esame più approfondito richiederebbe uno studio a parte.

Subito dopo la vittoria di Vesontium i legionari offrirono l'Impero al loro comandate, Verginio Rufo, ma questi rifiutò e ribadì la sua fedeltà incondizionata al Senato, senza peraltro assumere una posizione ben chiara nei confronti di Nerone. È certo che la sconfitta e la morte di Vindice fecero scricchiolare per un istante tutto il vasto movimento  insurrezionale dell'Occidente e che un imperatore dai nervi più saldi e dalla visione politica più netta di Nerone avrebbe potuto sfruttare il momento favorevole con buone prospettive di successo. Invece, mentre già Galba meditava il suicidio, Nerone ondeggiava paurosamente dall'estremo ottimismo al fondo della scoramento, senza saper fare nulla di concreto e tempestivo.  Col Senato era già silenziosamente in rotta, tanto che, nell'imperversare della rivolta di Vindice, non aveva osato convocarlo personalmente, ma si era ridicolmente ridotto a pregarlo per lettera di vendicare il proprio onore offeso contro il ribelle. Adesso perfino la fedeltà dei pretoriani vacillava, mentre il prefetto Ninfidio Sabino si accingeva al tradimento e l'altro prefetto, il crudele Tigellino, altra volta così pronto ed energico a intervenire, non faceva nulla e  sembrava spiare il risultato finale di così incalzanti avvenimenti. Nerone sprecava le sue ultime carte e il tempo prezioso che ancora gli restava ora inviando sicari per far assassinare Galba, ora facendo armare le sue concubine per farle combattere in sua difesa come Amazzoni; ora meditava di supplicare il Senato che gli lasciasse  almeno il governo dell'Egitto, ora avrebbe voluto far massacrare l'intero ordine curule, incendiare la città e far liberare le bestie feroci per rendere impossibile lo spegnimento delle fiamme.

Ai primi di giugno del 68 la popolazione di Roma apprese con stupore e indignazione  che l'imperatore era fuggito, non si sapeva dove, e che il Senato lo aveva dichiarato hostis publicus. Nerone, infatti, dopo aver presieduto un'ultima volta l'assemblea ed essersi reso conto dei suoi reali sentimenti e, soprattutto, sentendo venirgli meno la fedeltà dei pretoriani, aveva lasciato precipitosamente il palazzo sul Palatino. Con un piccolo seguito di centurioni e soldati andò a rifugiarsi dapprima negli Horea Galbiana, sull'Aventino; poi, abbandonato anche da quegli ultimi partigiani, andò a supplicare rifugio, casa per casa, agli amici dei tempi della buona fortuna, ma solo per vedersi chiudere tutte le porte in faccia.  Forse, presentandosi di persona ai pretoriani e promettendo un cospicuo donativo, avrebbe avuto ancora qualche possibilità di stornare la catastrofe; invece fuggì nuovamente dagli Horrea Galbiana, la notte fra l'8 e il 9 giugno, avendo finalmente ricevuto un'offerta di ospitalità dal liberto Faone. Indossando un semplice mantello, accompagnato dal suo amante Sporo  e da altre tre persone, senza alcuna sporta militare si avviò a cavallo verso il suoi nuovo, estremo rifugio :una villa situata tra le vie Salaria e Nomentana, a quattro miglia da Roma.

Mentre la comitiva passava al galoppo nei pressi dei castra Praetoria, vicino alla Porta Collina, poté udire distintamente nel silenzio della notte le grida dei suoi soldati, i fedelissimi del giorno innanzi, che lanciavano insulti contro Nerone e acclamavano Galba imperatore. Era accaduto infatti che il prefetto Nifidio Sabino, profittando della fuga dell'imperatore e della passività del collega Tigellino, aveva promesso ai pretoriani un donativo di 30.000 sesterzi per ciascuno, se riconoscevano Galba al posto di Nerone. Quest'ultimo raggiunse la notte stessa la villa di Faone e si nascose dapprima  in uno scantinato, dove, dopo molte insistenze da parte dei suoi compagni, e molte esitazioni, appreso che il Senato l'aveva dichiarato nemico pubblico, si diede la morte, piantandosi una spada nella gola; ed anche per compiere questo supremo passo ebbe bisogno dell'aiuto del liberto Epafrodito.  Era tempo, perché alcuni cavalieri erano già arrivati a spron battuto alla villa; un centurione, accorso all'interno, lo trovò ancora agonizzante.

Il potente liberto di Galba, Icelo, che era stato gettato in prigione  alla notizia della rivolta Spagna, rimesso in libertà diede il permesso che il corpo di Nerone venisse cremato secondo le sue ultime volontà, senza subire oltraggi o mutilazioni. E fu la fedele Atte, l'unica donna che amò veramente l'imperatore megalomane e crudele, che ne compose i resti nella tomba dei Domizi in Campo Marzio, il 9 giugno del 68.

 

 

4.      L'AVVENTO DI GALBA.

 

Pochi uomini oscillarono come Galba, nel breve arco di pochi giorni, fra l'abisso della catastrofe e il successo più clamoroso.  Giulio Vindice, quando lo aveva invitato a unire le loro forze contro Nerone, lo aveva esortato per lettera a farsi "liberatore e guida del genere umano"; e Galba, pur accettando la direzione del movimento, aveva rifiutato il titolo di Cesare, assumendo invece quello di "luogotenente del Senato e del popolo romano". Galba puntava gran parte delle sue speranze sull'armata gallica di Vindice, alla quale avevano aderito anche importanti città come Vienne e potenti tribù quali gli Edui e i Lingoni. Evidentemente non credeva possibile che le tribù germaniche avrebbero preso le armi per salvare la causa di un uomo come Nerone e, in ogni caso, riteneva che il movimento gallico avrebbe vincolato le forze che, eventualmente, l'imperatore avesse inviato dall'Italia, offrendogli al tempo stesso una base d'appoggio per imbastire  una spedizione dalle Spagne verso Roma.

La realtà è dunque che Galba, vecchio di settantatré anni, ambizioso ma al tempo stesso irresoluto e tutt'altro che sicuro del successo, si era lasciato coinvolgere  nell'insurrezione principalmente perché sapeva che Nerone, comunque finisse la rivolta di Vindice, lo aveva già condannato a morte, in quanto lo riteneva uno dei suoi più pericolosi avversari ancora in vita dopo la repressione seguita alla scoperta della congiura dei Pisoni. Uomo di nobilissime origini, severo in fatto di disciplina militare, all'antica nelle vedute politiche, irreprensibile governatore per otto anni della Tarraconense, già alla morte di Caligola era stato fatto il suo nome quale possibile successore all'Impero, elementi questi già più sufficienti per spingere Nerone a decidere la sua eliminazione.

Dagli avvenimenti successivi risulta del resto che, se Galba avesse immaginato la rapida repressione del movimento gallico, forse non avrebbe mai osato accettare la direzione della rivolta antineroniana.  Fu perciò in conseguenza di un errore di valutazione politico-militare che Galba prese le armi contro l'imperatore; egli non previde affatto che l'insurrezione gallica avrebbe provocato la reazione delle legioni del Reno e sarebbe apparsa loro come una specie di tradimento  dei Celti contro Roma; piuttosto si adagiò in una strategia puramente opportunistica, lasciando che Vindice sostenesse l'urto principale della reazione neroniana,  mentre lui organizzava le sue modeste forze nella Penisola Iberica. Con l'appoggio del giovane e intraprendente Otone, che da dieci anni svolgeva le funzioni  di legato per la provincia lusitana, e protetto anche alle spalle dall'adesione  di Alieno Cecina nella Betica, egli provvide a indire nuove leve di truppe e ad ammassare armi per una eventuale spedizione sull'Italia.

Costituì inoltre una sporta di Senato spagnolo, formato dai membri più eminenti dell'aristocrazia locale, ilquale, riunitosi nella città di Nova Carthago, sul Mediterraneo (Oggi Cartagena), approvò formalmente  le sue decisioni e poi gli conferì il titolo di legato del Senato e del popolo di Roma. Ma che, allora, Galba e i suoi seguaci pensassero più alla difesa che a prendere l'offensiva contro Nerone, risulta - fra l'altro - dai lavori di fortificazione delle città spagnole, che vennero subito avviati a ritmo febbrili, nonché dalla costituzione di una guardia del corpo formata da giovani fedelissimi, che avrebbe dovuto seguire ovunque il "legato": Né si può dire che si trattasse di misure eccessive, dal momento che alcuni sicari inviati da Nerone ebbero il tempo di raggiungere Nova Carthago e per poco non riuscirono ad assassinare Galba.

Subito dopo, come una mazzata, giunse anche in Ispagna la notizia della disfatta di Vesontium e del suicidio di Vindice. Essa lasciò Galba, per qualche giorno, come annichilito; nessuno poteva immaginare a quale estremo di pusillanimità e vigliaccheria fosse arrivato Nerone, e come, padrone di forze militari enormi, non fosse più nemmeno sicuro nella propria dimora sul Palatino. Per Galba, che aveva puntato le sue migliori carte sul movimento di Vindice, il disastro di Vesontium fu un colpo durissimo. Egli disperò al punto da meditare il suicidio e si ritirò a Clunia, nell'interno della sua provincia, come se si aspettasse un'invasione delle Spagne da un momento all'altro. Quanto fosse stata angosciosa e apparentemente senza speranza la sua situazione, lo si può desumere in maniera retrospettiva dalla durezza spietata con cui, arrivato al potere, colpì le città e le tribù galliche che avevano aiutato Verginio Rufo, se è vero - come è vero - che quando viene superato il pericolo la rabbia è sempre proporzionata alla paura.

Da un giorno all'altro arrivò da Roma la notizia che Nerone era stato deposto e si era suicidato e che tanto il Senato quanto i pretoriani avevano riconosciuto Galla quale nuovo imperatore. Fu solo allora che questi, passato repentinamente dalla disperazione all'esultanza, assunse il titolo di Cesare e si mise in moto verso l'Italia, via terra, passando attraverso la Gallia meridionale. Così, fin dai suoi esordi, si poté vedere chiaramente che il governo di Galba era il frutto di un compromesso: il riconoscimento era giunto in primo luogo dai pretoriani, per opera di Ninfidio Sabino, e subito dopo dal Senato, quando Nerone era ancor vivo e si nascondeva come una fiera braccata alla periferia di Roma. Ma è importante rilevare che né gli uni né l'altro erano stati completamente sinceri nel loro riconoscimento: i pretoriani avevano agito all'ultimo momento, sotto la spinta degli eventi, più che altro per rimanere padroni della situazione e far mostra di scegliersi un candidato, peraltro imposto loro dalle circostante; il Senato per non dover subire l'imposizione ei pretoriani ed essere ancora capace di prendere decisioni autonome. Ma in realtà bruciava ai pretoriani il fato che Galba fosse stato scelto all'esercito spagnolo, e ai senatori il fato che Galba fosse diventato il candidato dei pretoriani. Tra Senato e pretoriani si era scavato un abisso profondo negli ultimi decenni, che gli eccessi del tempo di Nerone avevano portato al limite estremo; e le circostanze dell'avvento di Galba non erano tali da dissipare sospetti e diffidenze reciproci. Galba, certamente - per origini, tendenze politiche e sentimenti personali, era un uomo del Senato; pure, il suo successo era dovuto all'atteggiamento dell'esercito e, in particolare, all'atteggiamento neutrale dei pretoriani. E né i senatori potevano dimenticare che i pretoriani erano stati il braccio armato del terrore neroniano, e che tradendo e abbandonando vergognosamente Nerone dopo tanti benefici cercavano di rifarsi quella che oggi si direbbe una "verginità democratica"; né i pretoriani, da parte loro, erano disposti anche solo alla possibilità di cedere una parte degli enormi privilegi da essi acquisiti negli ultimi anni

 

 

5.      IL GOVERNO GALBIANO.

 

Galba non si dimostrò politicamente all'altezza della situazione e, fin dall'inizio, commise tutta una serie di clamorosi passi falsi, quantunque innegabilmente fosse ispirato da nobili sentimenti di legalità e ripristino dell'ordine statale. In primo luogo non parve rendersi conto dell'ambiguità fondamentale del suo stesso successo, in apparenza così fortunato e incruento, che poneva fine a quindici anni di governo neroniano. Egli intendeva reagire completamente sia all'indirizzo tirannico-orientalizzante del suo predecessore, sia al clima morale e sociale di permissivismo e spensieratezza che, concretamente si erano tramutati in un deficit di 22 miliardi di sesterzi per le casse dello Stato. Non si chiese se un cambiamento così brusco, così radicale non avrebbe provocato dolorosi contraccolpi; non intuì che tanto la plebe e i pretoriani, quanto la stessa aristocrazia - o almeno una parte di essa - si erano abituati a considerare diritti acquisiti le folli prodigalità, le feste, gli spettacoli, le frumentazioni e i donativi degli anni di Nerone. Troppo anziano e, forse, non abbastanza intelligente per possedere la necessaria elasticità, si mosse lentamente dalla Spagna costellando il suo viaggio verso Roma di errori fatali. In Gallia castigò duramente quanti avevano parteggiato per Verginio Rufo e premiò invece i partigiani di Vindice, scontentando e offendendo sia le regioni del Reno, sia le città - come Lugdunum - e le tribù - come i Treveri - che avevano lottato per schiacciare il movimento gallico. Di peggio fece in Italia, ancor prima di entrare nell'Urbe.

I marinai di Miseno, che Nerone aveva mobilitato per la guerra contro Vindice e Galba, non erano ancora stati equiparati giuridicamente, e quindi economicamente, ai legionari veterani, perciò si affollarono incontro al nuovo imperatore sul Ponte Milvio, tumultuando per ottenere ciò che desideravano. Galba li fece circondare dalla sua cavalleria spagnola e parte li fece massacrare sul posto, parte li fece gettare in prigione, mentre incaricava un'apposita commissione di risolvere il problema (settembre del 68). Subito dopo, entrato nella capitale, rifiutò ai pretoriani il donativo promesso da Ninfidio Sabino a suo nome, promessa che era stata la causa determinane del suo successo, affermando con sprezzo che "i soldati si comandano, non si comprano". Con il prefetto Ninfidio Sabino tenne un contegno freddo e altero, per nulla riconoscente verso quanto aveva fatto per lui, finché lo sospinse a tentare un nuovo colpo di Stato con l'appoggio dei pretoriani, che risolse nell'uccisione del prefetto da parte di alcuni soldati. Infine, insospettito dal contegno del governatore africano Clodio Macro, che sembrava perseguire ormai una politica puramente personale, entrò in rotta con lui e riuscì a farlo sopprimere, quando già la sospensione della flotta granaria africana aveva fatto balenare per un attimo lo spettro della fame nella capitale. Pure Fonteio Capitone, legatus della Germania Inferiore, cadde in sospetto a Galba e finì assassinato da alcuni inviati dell'imperatore, mentre Verginio Rufo veniva richiamato in Italia ove non ricevette alcun premio per la sua campagna vittoriosa contro Vindice ma, anzi, trattato con malcelata diffidenza. A sostituire i due governatori germanici, infine, Galba scelse due uomini assai poco adatti, Ordeonio Flacco per la provincia superiore ed Aulo Vitellio per quella inferiore; forse la sua scelta, come già in clima di tirannide neroniana, fu determinata dal grigiore dei due personaggi; ma egli avrebbe avuto ben presto modo di pentirsene.

A questa serie impressionante di misure estreme e quantomeno inopportune  si aggiunse un atteggiamento politico ultranconservatore e una strategia economica improntata al più ferreo risparmio. Nell'un caso come nell'altro, Galba aveva inteso reagire energicamente all'andazzo invalso negli ultimi dieci anni del governo di Nerone; ma la svolta fu troppo brusca perché i vari gruppi sociali potessero apprezzarla. I pretoriani, già irritati per la mancata concessione del donativo, furono ulteriormente inaspriti dalla restaurazione di una severa disciplina militare e dalla promessa dell'imperatore che sarebbero stati trasferiti fuori città, in Italia e perfino nelle altre province, come tutti gli altri soldati. Il popolino, da parte sua, rimpiangeva più che mai la spensierata politica neroniana del panem et circenses e si lagnava della tetra austerità imposta da Galba. Perfino i senatori, o una parte di essi, ossia i naturali alleati del principe, avevano motivo di essere scontenti dell'azione politica di Galba. In primo luogo avrebbero preferito un principe più indipendente dall'elemento militare - come Clodio Macro, ad esempio - perché, per quanto apprezzassero i sentimenti repubblicani e filo-senatori di Galba, non potevano dimenticare che egli era arrivato al potere grazie alla spinta decisiva del detestato elemento militare. In secondo luogo, molti membri dell'aristocrazia si erano abituati al clima fastoso e spensierato instaurato da Nerone e che per tanto tempo aveva imperato nella capitale; e, sebbene ricordassero con orrore la persecuzione antisenatoria neroniana, ora avrebbero desiderato una transizione meno brusca verso la normalizzazione della vita pubblica.

In questa cornice va inserito il dramma politico e personale di Galba: uno spirito sinceramente repubblicano, sinceramente filosenatorio, sinceramente devoto all'ideale del ripristino della legalità; ma troppo rigido, troppo intransigente, troppo poco avveduto per instaurare quell'età di pace che tanto anelavano Roma e l'Impero. Galba rappresentava l'esatta negazione di tutto quanto il neronianesimo era stato; ma, uomo all'antica in tutto e per tutto, non riusciva a comprendere che il neronianesimo non era stato semplicemente il clima politico e morale imposto alla società imposto da un principe demente, bensì l'espressione profonda di una delle esigenze intime e reali della società romana in piena crisi di crescenza. L'orientalismo, il libertinaggio, la rilassatezza dei costumi, le spese pazze: tutto ciò aveva saldamente preso piede non solo nell'animo della plebe e dei soldati, ma di una parte stessa dell'aristocrazia; quella, per intenderci, che aveva trovato espressione nel clima dell'Ars amandi di Ovidio e della dorata gioventù romana, e che la restaurazione tradizionalista di Augusto e, ancor più, di Tiberio, avevano momentaneamente represso. Tutto, si può dire: l'aumentato benessere materiale, l'irruzione dei costumi ellenistici e orientali a Roma, il sorgere e il crollare fantasmagorico di fortune favolose, connesso anche con il nuovo ruolo politico-sociale svolto dai liberti e, in genere, dagli homines novi; quella sfrenata ostentazione di ricchezza da parte dei nuovi ricchi che è così ben testimoniata dal Satyricon di Petronio: tutto questo spingeva in direzione di un atteggiamento nei confronti della vita - economico e morale insieme - che negli ultimi dieci anni di Nerone aveva trovato la sua piena e naturale espressione. Verè che questo "clima neroniano" aveva portato l'Impero sull'orlo del tracollo finanziario, gli eserciti sulla via della dissoluzione, la società dell'Urbe e della Penisola a un punto appena credibile di infrollimento e corruzione; e che il controllo dell'immenso Stato, come l'episodio di Vindice aveva ammonito, e come i fatti del 69 avrebbero dimostrato, stava per sfuggire dalle mani tremanti di quella società decadente.

Ma Galba commise un grossolano errore di valutazione quando pensò che, rimosso Nerone, di potesse tornare senz'atro all'antico; errava quando pensava di poter trattare i pretoriani come forse nemmeno Tiberio aveva fatto; quando spogliava la plebe dei divertimenti ormai consueti,; e quando imponeva alla stessa nobiltà senatoria delle economie rigidissime I suoi provvedimenti in materia di bilancio finanziario rivelano la sua illusione che un riassestamento economico potesse effettuarsi senza provocare contraccolpi, benché perseguito con misure draconiane. Nerone, nei lunghi anni in cui aveva spadroneggiato alla direzione dell'Impero, aveva creato e distrutto, con le prodighe donazioni e con le spietate confische, delle vere e proprie fortune. Uno dei primi atti di Galba, una volta arrivato a Roma, fu quello di ordinare il recupero delle somme favolose elargite dal suo predecessore a cittadini privati; somme, che, naturalmente, avevano ormai largamente circolato per la società e il cui recupero imponeva di necessità l'alternativa fra il sopruso e la rinunzia. Al tempo stesso Galba, pur richiamando tutti gli esuli politici e tutti coloro che il regime neroniano aveva in vario modo perseguitato, non restituì loro i beni confiscati; e così, alla sua fama ormai dilagante di taccagneria, aggiunse ora quella di arbitrarietà e di ingiustizia. Dalla corte, è vero, era scomparsi i mille ministri del piacere del suo predecessore, la folla variopinta di arruffoni, clienti, parassiti, gl'inutili apparecchi del lusso e i banchetti costosissimi. Tuttavia si mormorava che la corruzione, in fatto di denaro pubblico, non fosse affatto diminuita e che uomini come il liberto Icelo, o come il console Tito Vinio, accumulassero con mezzi illeciti sostanze enormi, avvalendosi della protezione imperiale. Così pure, Galba aveva decretato l'immediata sospensione dei lavori alla Domus Aurea: quell'immensa, fastosissima, incredibile villa imperiale che Nerone aveva incominciato a far costruire, dopo l'incendio del 64, fra il Palatino e l'Esquilino, espropriando anche vasti terreni pubblici; ma larghi strati della plebe non apprezzavano il generoso risparmio di denaro e rimpiangevano piuttosto la fine dei grandiosi ludi circensi e di tutti gli spettacoli di cui era stato prodigo Nerone.

Così, sul cadere dell'anno 68, si potevano chiaramente percepire in tutti gli ambienti sociali della capitale, e in parte anche delle province, i segni inequivocabili di malumore dell'opinione pubblica che preludono sempre ai grandi rivolgimenti politici. Galba, nonostante le sue doti innegabili di onestà personale. Buona fede e dedizione allo Stato, nel giro di appena qualche mese aveva creato attorno a sé il vuoto, alienandosi il favore di tutti. Aveva deluso e disgustato i pretoriani con la sua dura disciplina e la mancata distribuzione del donativo; i marinai, con la strage spietata del Ponte Milvio; il popolino, con la cessazione degli spettacoli e delle elargizioni; i provinciali e gli eserciti legionari, specialmente in Occidente, con la punizione degli alleati di Rufo e la premiazione di quelli di Vindice; il Senato, con il clima di austerità e di sospetti, la persecuzione contro i vecchi amici di Nerone, l'assassinio di uomini come Clodio Macro e Fonteio Capitine. Perfino i suoi più stretti partigiani, quelli ai quali andava debitore del successo e del supremo potere, avevano motivo di lagnarsi amaramente della sua freddezza e ingratitudine. Primo fra tutti il giovane Salvio Otone, il suo principale sostenitore al tempo della rivolta antineroniana, che lo aveva aiutato con generosità e che, dopo la caduta di Nerone, lo aveva seguiti a Roma, mostrandosi apertamente fiducioso di essere prescelto dall'anziano imperatore come suo collega e successore designato. Ma i mesi erano passati e Otone non aveva fatto un passo avanti verso la soddisfazione delle proprie ambizioni, probabilmente perché il severo Galba lo giudicava troppo compromesso, in passato, col regime neroniano; troppo poco indicato, lui compagno di bagordi del caduto sovrano, a impersonare la "svolta" politica e morale inaugurata dal nuovo governo.

Un altro scontento era il governatore della Betica, quell'Alieno Cecina che si era unito a Galba nella primavera del 68 e che, dopo aver ottenuto il comando di una legione, era stato accusato di sottrazione di denaro pubblico, sottoposto a giudizio e che adesso, nella Germania Superiore, non aspettava che l'occasione favorevole per potersi vendicare. E poi c'era Fabio Valente, generale di qualche valore, che dalla Germania Inferiore aveva indotto Verginio Rufo a recarsi in Italia dopo la caduta di Nerone e che aveva ordito la soppressione di Capitone; e che adesso era rimasto deluso perché l'imperatore non gli aveva mostrato alcuna particolare riconoscenza per siffatti servigi.  Un altro errore, e non da poco, aveva inoltre commesso Galba sostituendo Ninfidio Sabino alla prefettura del Pretorio con un tal Cornelio Lacone, uomo di scarso valore, che non ebbe mai in pugno i suoi uomini come li avevano avuti un Seiano o un Tigellino e che non fece nulla per affezionarli alla causa del nuovo imperatore.

Così, sotto la superficie apparentemente liscia e tranquilla, la società romana covava un incendio che di lì a poco sarebbe scoppiato, divampando ai quattro angoli dell'Impero con incredibile violenza. Il governo sanguinario e irresponsabile di Nerone era finito, quasi senza scosse, dopo quindici anni di follia; ma i sette mesi di austerità e disciplina imposti da Galba sarebbero sfociati nella più crudele guerra civile che Roma ricordasse dai lontani tempi del secondo triumvirato.

 

 

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