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Russia, Cina e la Total dietro agli oppressori

di Maurizio Stefanini - 01/10/2007

Fonte: indipendenteonline.it

 

Altri nove morti tra la folla, contro cui si è sparato ancora. Fra loro ci sono forse un giapponese e un tedesco perché la giunta militare del Myanmar sembra avere scatenato una sorta di “caccia” ai giornalisti stranieri. Tutto sembra indicare che ci si stia avviando verso una ennesima soluzione violenta della crisi. Nessuno sembra in grado di andare oltre le buone parole per fermarla e la ragione di ciò sta nei potenti protettori di cui la giunta continua a disporre. Ed è purtroppo storia vecchia. All’inizio di quest’anno, quando gli Stati Uniti proposero all’Onu una risoluzione per condannare il regime militare di Myanmar come “minaccia alla sicurezza internazionale”, fu il voto contrario di Cina, Russia e Sudafrica a bloccare tutto. Adesso, che sta scorrendo il sangue, sono di nuovo Cina e Russia, assieme all’Indonesia, a mettersi di mezzo. Anche se Pechino spergiura di avere interesse alla “stabilità”, in un Paese ai suoi confini: gli stessi oltre i quali dopo il 1949 trovarono rifugio unità dell’esercito nazionalista sconfitto da Mao, che da lì cercarono di riaprire un fronte anticomunista fino a anni ’70 inoltrati. Sia la Cina che la Russia, si sa, guardano con sospetto a un coinvolgimento dell’Onu in questioni di diritti umani, che potrebbe costituire un pericoloso (per loro) precedente. E la Cina in particolare non può che guardare con inquietudine all’esempio della “rivoluzione zafferano” dei monaci buddhisti, visti i problemi che le creano in casa i Falung Gong e i Dalai Lama. Ma ci sono anche interessi più concreti. Dal punto di vista strategico, per esempio, la Cina è stata compensata dell’aiuto che ha fornito al regime birmano negli ultimi vent’anni con la base navale dell’isola di Coco, nel Mare delle Andamane. La stessa Cina è poi, assieme a Russia, Ucraina e India, una delle grandi fornitrici di armi al regime militare birmano, fra i primi quindici del mondo. Quanto ai russi, si sa che hanno prestato aiuto al regime birmano nella costruzione del reattore nucleare di May Myo. E si sa che le imprese cinesi, indiane e asiatiche in genere hanno approfittato a mani basse delle occasioni di business offerte dal massiccio esodo delle imprese europee e nord-americane in seguito alle sanzioni. Le quali sanzioni non hanno però impedito alla francese Total e all’americana Chevron di operare sul gasdotto di Yadana, tra Birmania e Thailandia. Contro la Total è anche in corso un’azione legale presso tribunali francesi e belgi perché quell’opera è stata realizzata con l’uso di manodopera in condizione di schiavitù. Va poi ricordato che nel 1999 l’Organizzazione Internazionale del Lavoro decise di espellere Myanmar in seguito a una denuncia della Confederazione internazionale dei sindacati liberi. Cosa lamentavano? Che almeno 800.000 cittadini birmani erano stati costretti dal loro governo ai lavori forzati.

da L’INDIPENDENTE