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Oltre la destra e la sinistra. Il ‘neoradicalismo anticapitalistico’

di Antonio Gurnari - 01/10/2007

 

 

 

 

Parte prima*

Il ‘neoradicalismo anticapitalistico’ di Badiale

 

 

Nel duemilasei il centrosinistra ha vinto le elezioni e la sua componente di sinistra, tanto quella più ‘integrata’ (Ds) che quella più caratterizzata come alternativa (Prc e Pdci, ma anche i Verdi), ha largamente assunto ruoli diretti di responsabilità all’interno del governo e nelle istituzioni. In concomitanza con ciò si è assistito all’acuirsi di una critica non solo delle politiche poste in essere complessivamente dalla nuova maggioranza, ma, d a   p o s i z i o n i   d i   s i n i s t r a,  in particolare di entrambe le declinazioni della sinistra sopra richiamate.

‘C r i t i c a’, si diceva ¾ non  c r i t i c h e. Perché, mentre le seconde sono legate a occasioni particolari (dichiarazioni, documenti, votazioni, etc.) e quindi risentono di una inevitabile occasionalità, la  c r i t i c a  va ben più oltre e a fondo, contestando cioè la sinistra, t u t t a  la sinistra, ‘su piazza’, in ordine a due distinti piani di giudizio:

1.       sul piano della  c o e r e n z a, in quanto si ritiene che essa abbia smarrito (quando le si concede la buonafede), o, alternativamente, che essa abbia deliberatamente tradito (quando le si attribuisce una volontà di inganno), il suo compito storico di rappresentanza degli interessi delle classi subalterne, infeudandosi al sistema vigente;

2.       sul piano della  i n a d e g u a t e z z a ¾ quando anche le si concedesse la buonafede ¾ della sua analisi e proposta di iniziativa politica, così, si sostiene, da renderla oggettivamente inutile e vacua, se non addirittura ostacolativa, al perseguimento del suddetto compito storico.

L’una e l’altra critica ¾ ritengo ¾ , ancorché si sviluppino al momento in cerchie abbastanza circoscritte e circolino su circuiti alternativi di minore risonanza rispetto a quelli dei mezzi di comunicazione di massa prevalenti (televisione, editoria commerciale, testate giornalistiche), rappresentano un movimento relativamente ‘sotterraneo’ che, tuttavia, riveste, per l’analista sociale, particolare importanza e interesse.

Non si tratterebbe infatti di semplici ‘polemiche’, dal momento che tale movimento critico teorizza ormai esplicitamente la  c o m p l e t a  inappropriatezza al contesto presente di ciò che finora si è inteso con la locuzione ‘sinistra’, e insiste con forza sulla necessità, oltre che di abbandonare il termine ‘sinistra’, di  o l t r e p a s s a r e   l a   s i n i s t r a   i n   q u a n t o   t a l e, ossia il tipo di  p r o g e t t o   s o c i e t a r i o  associato all’area semantica e politica ‘di sinistra’, di esplorare soluzioni  a l t e r n a t i v e  a ciò che è ‘sinistra’, di battere vie ‘né di destra né di sinistra’, di andare ‘o l t r e   l a   d e s t r a   e   l a   s i n i s t r a’. Il che significa rimettere in gioco  t u t t e  le collocazioni nello spazio politico, per cui, ove si realizzassero in concreto le conseguenze di questo sparigliamento delle carte in tavola, la  g e o g r a f i a  p o l i t i c a  ne sarebbe ristrutturata in modo inedito e drastico ¾ molto più, evidentemente, di quanto possa essere determinato p.e. da una mera aggregazione come quella del costituendo Partito democratico, e che pure, stando alla vulgata corrente, dovrebbe costituire un vero e proprio sommovimento dell’intero scenario della politica nazionale. Se la ‘cosa’ prendesse piede, cioè, si aprirebbero le condizioni per una possibile aggregazione attorno a un progetto politico nazionale di strati di elettori portatori di interessi che, per il fatto di stare al di là della storica dicotomia sinistra/destra e senza nemmeno essere però ‘di centro’, ove il progetto della ‘cosa oltre’, della ‘cosa né…né…’, facesse breccia, si configurerebbero tendenzialmente come maggioritari. Da qui la rilevanza di un esame di tali posizioni critiche soprattutto in ordine alla coerenza e ai possibili effetti della loro conseguente  p r o p o s t a  di oltrepassamento della vigente strutturazione dello spazio politico.

 

In considerazione di ciò, di fronte a tali posizioni di critica ‘f o n d a m e n t a l e’, l’analista sociale deve chiedersi due cose:

1.       se la suddetta critica colga nel segno, se cioè la locuzione ‘sinistra’ abbia ormai perso effettivamente la sua capacità di denotare qualcosa di suo proprio, di specifico; e

2.       se la critica in questione possa approdare all’effettivo superamento (‘né…né’, ‘oltre’) della nozione di sinistra, e quindi con la definizione e l’eventuale accreditamento di qualcosa di sostitutivo (la ‘cosa’  n u o v a, la ‘terza via’…).

 

Per sviluppare la risposta a queste domande intendo procedere esaminando due formulazioni rappresentative della critica ‘fondamentale’ alla  n o z i o n e  e alla ‘c o s a’ di ‘sinistra’, nelle quali la questione della perdita di una capacità denotativa, referenziale, del termine ‘sinistra’, si intreccia con l’altra, quella della indispensabilità dell’abbandono ‘oltristico’ del termine e della ‘cosa’, verso nuovi modelli di strutturazione dello spazio politico.

La prima di tali formulazioni, quella che qui sintetizzo con il termine ‘neoradicalismo anticapitalistico’, è stata enunciata da Marino Badiale (con molte collaborazioni ‘editoriali’ di Massimo Bontempelli), ed è oggetto di questa prima parte del mio scritto; la seconda, che sarà oggetto della seconda parte, è stata teorizzata da Gianfranco La Grassa, propugnatore, a partire da una critica di largo respiro anti-sinistra, di un progetto di ‘terza forza’.

 

Comincio dunque con l’esame delle tesi di Badiale e Bontempelli, con la precisazione che le osservazioni che seguono non hanno ovviamente alcuna pretesa di completezza[1], ma costituiscono solo l’abbozzo di una enucleazione dei punti-forza di questo pensiero in vista dell’analisi teorica sopra indicata[2].

 

L’analisi di fase.

Intanto, gli autori partono da una duplice preoccupazione: il montante degrado della vita sociale e delle esistenze individuali, e i crescenti problemi di sostenibilità ambientale dovuti al culto dello ‘sviluppo’ che lo fa coincidere con il valore del pil, e da una conseguente visione decisamente negativa, se non addirittura pessimistica dello stato e dell’evoluzione della presente congiuntura. A queste preoccupazioni dovrebbe fornire risposte efficaci la  p o l i t i c a. Ma questa, per i due autori, ripulita dal belletto di cui essa stessa si copre, non vuole farsi carico della gestione dei due ordini di problemi menzionati, e il ceto politico, tutto intero, di ‘destra’ e di ‘sinistra’, è impegnato, permanentemente e nell’ombra, a competere per il potere per il potere; e, intermittentemente e visibilmente, ad ‘addomesticare’ individui e collettività in modo da assuefarle, con una panoplia di artifici e raggiri, alle condizioni di vita, esistenziali e ambientali, di crescente deterioramento. Ora, perché un siffatto mostruoso scenario ¾ elettorati che ‘si fanno adattare’ consensualmente a un contesto per loro ostile e talora disumano; un ceto, quello politico, pur emanazione di questi stessi elettorati, intento a trarre profitto in senso ampio dalla sofferenza e dai pericoli del suo elettorato ¾ si sia potuto insediare nelle collettività di tutti i paesi, ciò è dovuto, secondo gli autori, al trionfo pieno e compiuto del  c a p i t a l i s m o (“capitalismo assoluto”), che, a partire all’incirca dagli anni settanta del secolo scorso in qua, è riuscito a imporsi planetariamente, oltre che come modo economico, soprattutto come  m o d e l l o   c u l t u r a l e, ossia come paradigma alle cui particolari caratteristiche conformare tempi di vita, consumi, relazioni parentali e sociali, attività creative e ricreative, financo il pensiero come tale. Il capitalismo, per la sua ricerca del profitto  c o m e   c h e   s i a, è portato a essere totalitario, cioè a non arretrare di fronte a nulla pur di realizzarlo. Il modo, gli ambiti, le regole in cui e attraverso cui conseguirlo, sono tutti un che di opzionale: a seconda delle fasi, strumento e occasione per fare profitti può essere, di volta in volta, il commercio estero, la grande impresa fordistica, il distretto, l’investimento diretto all’estero, il gioco in borsa, il mercato delle valute e così via. Il capitalismo, divenuto così ‘assoluto’ ¾ in quanto cioè ha  a s s o l u t i z z a t o  un aspetto  p a r z i a l  e  dell’esistenza (l’agire economico) rendendolo pretesamente universale e normativo ¾ , sorge pertanto con un vizio di origine, i cui effetti assurdi e distruttivi, scaturenti dal suo immanente squilibrio, ne fanno un monstrum. Il degrado delle condizioni di vita, di esistenza e dell’ambiente è da ricondurre esclusivamente al progredire inesorabile della logica del capitale, ossia profitto che deve crescere. Ma perché ¾ ci si deve chiedere ¾ il capitalismo, pur portatore di così tante negatività e sofferenze e a così tanti, non viene bloccato dalla  s o c i e t à, che ne è la prima vittima[3]?

 

Il capitalismo si riproduce, nonostante tutto.

Provo ad abbozzare una traccia di risposta non incompatibile con la fenomenologia dell’accadere sociale e politico di Badiale e Bontempelli: il sociale, la ‘potenza prima’,  i l   d e c i s o r e   d i   u l t i m a   i s t a n z a[4], non reagisce alla aggressione a suo danno da parte del capitalismo assolutizzato perché  esso risulta composto:

1). in minoritaria parte da coloro che, dal sistema del profitto, sono direttamente privilegiati come beneficiari netti: proprietari dei mezzi di produzione, detentori di capitali finanziari, redditieri ¾ i quali sono fortemente motivati a conservare il sistema e a espanderlo;

2). in stragrande maggioranza da coloro che, non disponendo di altri mezzi di vita, lavorano alla dipendenza di coloro che hanno i mezzi di produzione (capitali finanziari e reali), e quindi, non avendo altra scelta per procacciarsi i mezzi di sussistenza, si acconciano al sistema del profitto, non per esso stesso in quanto tale ma per la circostanza, tutt’altro che irrilevante, che il suo normale andamento assicura a questa categoria di persone la possibilità comunque di vivere[5].

Quindi, parte per oggettiva e consapevole convenienza, parte per necessità, accade che il corpo sociale sia complessivamente disposto ad accettare (di buon grado o a malincuore) le negatività del sistema, perché, tanto nell’uno che nell’altro caso, esso dà una ‘risposta’ ¾ o positiva (ai proprietari) o con almeno qualche elemento di positività (ai lavoratori).

Ebbene, il  c e t o   p o l i t i c o, specie in regimi democratici ¾ quindi senza dovere postulare questionabili forme di incapacità o malafede nei singoli politici o nelle singole formazioni politiche ¾ , è la proiezione, sostanzialmente  f e d e l e  del suo elettorato. Le formazioni politiche di ‘destra’ perciò gestiranno il sistema capitalistico prioritariamente per fare crescere i profitti delle categorie sociali proprietarie; le formazioni di ‘sinistra’, lo gestiranno per tenere aperte le possibilità di lavoro e quindi di vita dei non-proprietari: quindi, o g g e t t i v a m e n t e, per riconfermare, non mettere in discussione, la bipartizione sociale fondamentale ¾ quella tra i proprietari e i non-proprietari ¾ e, quindi, rinsaldando alla fine il sistema del profitto[6].

Se poi a ciò si aggiunge che, attraverso la gestione dell’accomodamento delle condizioni dei non-proprietari agli obiettivi e alle regole dei proprietari (è soprattutto questo in particolare al giorno d’oggi il lavoro  s p o r c o della ‘sinistra’), si creano allettanti opportunità di lucro, di protagonismo, di notorietà, di potere puro e semplice: ecco che ciò basta a rendere ragione del perché le formazioni politiche, i  p a r t i t i, soggiacciano e debbano sempre soggiacere alla legge ferrea dell’oligarchia di Michels/Pareto, ossia diventare proprietà degli apparati e essere utilizzati come strumenti dediti anzitutto e per lo più ad arrecare quei benefici sopra richiamati ai loro ‘proprietari’.

Badiale e Bontempelli, invero, non negano che possa esistere un ceto politico ‘di alternativa’, quindi un soggetto diverso da un mero replicante della domanda politica  d i   f a t t o, ‘a corto raggio’, afferente dall’elettorato, bensì un ceto politico di  a v a n g u a r d i a, elaboratore e attore di modelli societari alternativi al sistema del profitto. I due autori si limitano soltanto a negare categoricamente che tale ceto ‘mirabile’ possa essere identificato con la  s i n i s t r a  presente sul mercato delle formazioni politiche in competizione (in Italia e altrove), ma anche con la c.d. sinistra ‘antagonista’ o ‘di alternativa’ (p.e., in Italia, il Pdci, il Prc, i Verdi). E, invero, la dimostrazione che di tale tesi essi offrono è, direi, senz’altro conclusiva[7].

Quindi, in forza di quanto detto, il contesto vitale, esistenziale e ambientale è progressivamente sempre più degradato, la società appare incapace di pervenire a una visione da un livello più alto e di contrapporre al corso corrente delle cose (l’economia del profitto), un disegno alternativo e di tradurlo in coerenti mandati alle formazioni politiche. Queste, dal canto loro, anche quando siano sedicenti di ‘sinistra’, traggono i loro vantaggi, esse pure, dal sistema, limitandosi a gestire l’assoggettamento quanto meno doloroso possibile, l’‘anestesia’, del parco-buoi sociale (anzitutto e per lo più il loro elettorato proprio), al sistema dato.

Epperò, l’assolutismo del capitale, la logica ossessiva del sempre più profitti, va arrestata, da subito, senza mezze misure ¾ pena la crescita esponenziale di sofferenze e di pericoli per l’intero pianeta, uomini e natura. L’obiettivo massimamente importante e perciò assolutamente prioritario è quello di  a r r e s t a r e   i l   c a p i t a l i s m o, e tutto il discorso teorico dei due autori in esame si aggira attorno ai modi in cui riuscire a conseguire questo risultato[8].

 

Il congedo della sinistra come forza anticapitalistica.

Ebbene, qual è a questo punto la proposta di Badiale e Bontempelli?

Per prima cosa una rifondazione della politica, il cui elemento-forza sia l’ a b b a n d o n o   d e l l a   s t o r i c a   d i c o t o m i a   t r a   ‘d e s t r a’   e   ‘s i n i s t r a’. Sarebbero, queste, categorie desuete, le cui ascendenze storiche e di tradizioni si rivelano inappropriate e inapplicabili al contesto presente costituito dall’assolutismo capitalistico e, quindi, non idonee a darne una lettura capace di cogliere aspetti di debolezza e contraddizioni su cui fare leva per ‘intralciare’ il capitalismo stesso, per attivare la ‘rivoluzione interstiziale’[9]: se esse servono, egregiamente, specie a sinistra, per operazioni più o meno in buonafede finalizzate al procacciamento di consenso elettorale, sono però del tutto inutilizzabili dai critici sinceri del sistema per individuare ‘smagliature’ o criticità potenzialmente capaci di innescare processi di autodisgregazione del sistema stesso.

Quale alternativa allora alla suddetta contrapposizione? Badiale e Bontempelli propongono di immaginare/costruire uno spazio sociopolitico ‘oltre la destra e la sinistra’ (così come correntemente intese), un terreno nuovo e  c o m u n e  a quanti, al di là della etichetta delle loro posizioni all’interno dell’universo di categorizzazione ‘destra/sinistra’, condividano il  r i g e t t o   c o m p l e t o   d e l   c a p i t a l i s m o   a s s o l u t o. È  q u e s t o  il discrimine ultimo per superare l’(in)attuale dicotomia destra/sinistra.

Ora, un aspetto rilevante ¾ e invero apprezzabile ¾ delle tesi propositive di Badiale e Bontempelli è che esse saldano strettamente il momento dell’analisi critica (si cfr. p.e. le lucide argomentazioni svolte contro i riti identitari di certa sinistra, il settarismo, l’autocompiacimento, etc.) con il perseguimento di una  s t r a t e g i a  volta a realizzare la mobilitazione e il consenso sociali più elevati possibili contro il capitalismo assoluto. Il loro movente è un movente  p r a t i c o, militante. Detto diversamente: posto che in un sistema democratico a suffragio universale vince chi porta dalla sua i numeri più grandi, ebbene, argomentano i due autori, allora per arrestare il capitalismo assoluto bisogna creare uno spazio ‘oltre’, o r i g i n a l e, capace di aggregare  m a s s e   r i l e v a n t i  di elettori.

Come pervenire a questo? Non certo risventolando le ‘bandiere’ del comunismo ¾ un’esperienza che, oltre a essere dagli autori giudicata un “fallimento epocale”, ha la ben più seria aggravante di fare fuggire a gambe levate qualunque persona che non sia un adepto di una qualche conventicola neo-comunista[10]; ma facendo leva su ciò che appare essere in grado di mobilitare diffusamente, ‘trasversalmente’, il  s o c i a l e   t u t t o. Premesso cioè che il sistema del capitalismo assoluto lega a sé per ragioni di mera sopravvivenza la maggioritaria classe dei non-proprietari, come si potrebbero rendere determinanti gli aspetti di sofferenza e negatività ai fini della mobilitazione e del voto  a n t i – s i s t e m a  di tale classe, facendoli prevalere sugli aspetti di positività immediata (la possibilità di un salario con cui vivere come che sia)? Ossia: come, avvalendosi delle regole del gioco elettorale nel contesto dato, si possono ‘capitalizzare’ in funzione antisistemica i disagi della maggior parte delle persone in vista di un modello societario soggettivamente e oggettivamente più adeguato[11]?

A tale proposito essi individuano alcuni  v a r c h i   d i   o p p o r t u n i t à.

Gli autori ¾ circoscrivendo il loro ragionamento all’Italia ¾ individuano sostanzialmente  t r e   m a c r o a r e e  di sensibilità sociale  g e n e r a l e   in grado di ‘attivare’ in modo specifico l’elettorato: il  t e r r i t o r i o  in quanto insediamento umano, lo  s t a t o   s o c i a l e  e la  c o s t i t u z i o n e   r e p u b b l i c a n a. Ciò, perché queste aree non sono ‘pascolo’ di questa o quella classe o categoria, ma toccano tutti o quasi tutti, a un livello assai profondo e acuto: quindi ¾ secondo gli autori ¾ suscitano quel genere di interesse e di mobilitazione di cui si alla ricerca per potere approdare all’‘oltre’.

 

Osservazioni alla ‘nuova radicalità anticapitalista’.

Intendo sviluppare schematicamente, a partire dall’analisi di fase effettuata e dai varchi di opportunità intravisti nelle posizioni in esame, alcuni rilievi circa la loro fondatezza ed efficacia per una concreta azione antisistemica[12].

1.       Il disagio sociale non si traduce normalmente in protesta; talora ciò accade, ma è, più che protesta, ‘s t i z z a’ (restituisco o strappo la scheda elettorale; me la prendo con l’agente terminale del sistema (‘l’omino allo sportello’) che mi vessa; voto a favore chi ritengo sia ‘contro’ ciò che/colui il quale percepisco/presumo essere in questo momento la fonte del mio disagio, ‘a prescindere’ da come possano stare esattamente le cose; etc.); si tratta allora, però, di un atto di  r a b b i a, al più di mera ribellione, che non appare adeguato a intaccare il sistema (ciò che è l’obiettivo). Ci vuole ¾ parrebbe ¾ un catalizzatore/attore organizzato[13].

2.       Ancora, la tutela dei diritti dello stato sociale universale non appare capace, pur di fronte all’incessante e avvertito arretramento dei livelli e alla contrazione della varietà dei diritti sociali garantiti, di generare mobilitazioni e aggregazioni diffuse e intense: ospedali, uffici postali e stazioni ferroviarie che vengono chiusi, sfruttamento legalizzato da parte delle società di lavoro interinale, la manovalanza servile e sottoremunerata degli immigrati, etc., non hanno fin qui dato luogo a nulla di effettivamente antisistemico. Di nuovo, parrebbe, ci vuole un catalizzatore/attore organizzato.

3.       Infine, la salvaguardia dello straordinario patrimonio inscritto nella costituzione repubblicana, continuamente fatto strame platealmente nelle piccole e grandi cose (dalla violazione del principio dell’ammissibilità della guerra solo in caso di difesa del territorio nazionale al divieto di finanziamento della scuola privata, al diritto al lavoro, e così via…), non appare neanche essa una battaglia capace di scuotere le coscienze  c i v i l m e n t e   e   p o l i t i c a m e n t e  ‘anestetizzate’ dalla società dello spettacolo e di dare origine a fatti  p o l i t i c i   d i   m a s s a. Ancora, parrebbe, ci vuole un catalizzatore/attore organizzato.

 

Mi pare perciò complessivamente di potere argomentare che l’analisi, ancorché disincantata e assai lucida, è però astratta, nel senso che essa è  p a r z i a l e. Per farmi capire. Posto che si riuscisse a mobilitare il sociale su un tema generale, p.e. la sanità, da ripristinare come diritto sociale universale, occorrerebbe che la volontà, sia pure solo maggioritaria, della società, si traducesse in atti legislativi correttivi rispetto ai processi di privatizzazione e mercatizzazione in cui la sanità negli ultimi decenni è stata incanalata; e poiché i parlamenti sono specchi fedeli degli elettorati, i primi potrebbero ben determinarsi in tale direzione. Ma il contenuto di tale legislazione significherebbe l’adozione di politiche pubbliche che urterebbero contro resistenze a un aumento della pressione tributaria (segnatamente da parte di chi sarebbe maggiormente chiamato a contribuirvi in ragione della progressività contributiva), oppure che susciterebbero le resistenze del sistema degli interessi settoriali di imprenditori della sanità e della maggior parte dei professionisti del settore sanitario (medici, infermieri, altri operatori specializzati, etc.) e dei relativi indotti. Interessi forti, consapevoli, strutturati, facilmente coalizzabili, facoltosi, che potrebbero fare tanto, ‘lavorando’ ‘in alto’ lobbisticamente e ‘in basso’ propagandisticamente, per rallentare, annacquare, sabotare, la introduzione e/o la implementazione della legislazione in questione.

Ma, soprattutto, un movimento di ripristino dei diritti sociali, una volta avviato, porterebbe inevitabilmente alla sua estensione all’intero ambito di tale categoria di diritti: non solo sanità, ma anche istruzione, edilizia agevolata, servizi per le famiglie, servizi sociali, pensioni, e così via. Per cui, se, al limite, la ‘restaurazione’ del regime  s o c i a l e  per un singolo dato settore ¾ p.e. quello sanitario ¾ potrebbe  n e l   c o n t e s t o   d a t o  anche essere ipotizzabile, difficilmente potrebbe esserlo qualora lo si volesse estendere ai principali diritti connessi allo stato sociale. Una tale opzione, oltre che i già richiamati interessi settoriali, susciterebbe, per le politiche finanziarie  a d    a m p i o   s p e t t r o  da essa implicate, la immediata levata di scudi di istituzioni extra-nazionali (Ecofin, Banca comune europea, Fondo monetario internazionale, agenzie varie di rating, etc.), custodi dell’ortodossia ideologica neoliberista, provvisti di efficaci titoli di ingerenza e di ritorsione, al servizio del capitale (finanziario e industriale) trans-nazionale, unico condizionatore di ultima istanza delle politiche nazionali. Fare  p o l i t i c a  ¾ e non ‘g e s t i o n e’ dell’accomodamento del sociale alle esigenze del sistema, ancora più, fare politica anti-imperialistica ¾ presuppone un ambito provvisto di   e f f e t t i v a   s o v r a n i t à.

 

Se quanto rilevato ha fondamento, direi che nella proposta neoradicale v’è una insufficienza di analisi sotto i seguenti aspetti:

a). sotto il profilo delle macro-coordinate politiche: in quanto se ci si vuole davvero opporre al capitalismo, all’imperialismo, allo sviluppismo, etc. non si può, meglio non si deve, abbandonare la dicotomia destra/sinistra; la  s i n i s t r a  è infatti, storicamente e idealmente, portatrice di valori e principi alternativi proprio a questi fenomeni criticati dai due autori[14]; ora, asserire che tradizioni di pensiero politico diverse, “minoranze antisistema”, coalizzabili sulla base del minimo comune denominatore costituito da anticapitalismo, anti-imperialismo e costituzione[15], non sarebbero ‘né di destra né di sinistra’, ‘né rossi né bruni’, ma starebbero nello spazio ‘oltre la destra e la sinistra’, è questa una asserzione che non rende giustizia ai significati storici e oggettivi delle parole; ma, soprattutto, tale asserzione crea una situazione ambigua, da ‘notte in cui tutte le vacche sono nere’: per capirci, come si fa a essere, a un tempo, esaltatori delle differenze (individuali, di gruppo, di comunità, razziali, di genere, di tradizione, di nazione, etc.), come è proprio della destra, e convinti della fondamentale uguaglianza di tutti (sicché ove questa uguaglianza non sussista va perseguita), come è proprio della sinistra?; p.e. e sempre per capirci, la destra assume la datità ‘naturale’ delle differenze individuali e ne accetta coerentemente gli esiti, positivi o negativi, cui esse danno origine, ne prende con soddisfazione atto e le pone normativamente come il metro della società efficiente ed equa ¾ e, sostiene, equa perché efficiente[16]; non così la sinistra, che preso atto dello stato di cose ‘naturale’, lo rapporta a un metro di realizzazione di un determinato  t i p o   d ’ u o m o  postulato come desiderabile, e cerca di appianare artificialmente quelle differenze in direzione del ‘tipo d’uomo’, e, ove ciò non sia possibile o non del tutto possibile, cerca di fare sì che le diverse dotazioni fornite dal caso non siano di ostacolo alla realizzazione quanto più compiuta del desiderato ‘tipo d’uomo’; diversamente detto, gli individui sono variamente non uguali, ma mentre da destra ci si limita ad accettare tale non eguaglianza, da sinistra ci si adopererà perché sia appianata e, in ogni caso, a non farne la ‘base legittima’ per il manifestarsi di ‘vincitori’ e ‘perdenti’ nell’avventura vitale-esistenziale di ciascun uomo[17];

b). sotto il profilo dei rapporti di produzione: in quanto il neoradicalismo non tiene conto della fondamentale bipartizione tra i proprietari dei mezzi di produzione e coloro che invece, per vivere, debbono avvalersi del capitale altrui, i lavoratori non-proprietari, e del fatto che entrambi hanno interesse al mantenimento del sistema capitalistico del profitto; per cui, se si vuole immaginare e operare per una società non-capitalistica, i conti con i rapporti di produzione debbono essere fatti, e ciò significa che la medicina  d i   s i n i s t r a   della socializzazione dei mezzi di produzione[18] può essere avvertita, sì, anacronistica e retrò, ma non è in via di principio eludibile; questo passaggio è reso necessario dalla esigenza di assoggettare la dinamica naturale del capitale, diretta all’ a c c u m u l a z i o n e, a una qualche  r e g o l a z i o n e   s o c i a l e, di modo che quella, posta sotto controllo di questa, non abbia più le briglie sciolte per introdurre accidentalità nelle esistenze e nell’ambiente sociale e naturale, e sia ripristinata la conveniente subordinazione dell’agire economico all’ i n t e r o  sociale;

c). sotto il profilo della proposta alternativa al regime del capitalismo assoluto: tale regime, nelle tesi della ‘nuova radicalità anticapitalistica’, si sostanzia in sintesi e di fatto nella riproposizione del modello borghese liberaldemocratico[19], i “valori della civiltà occidentale”, sintetizzati nei tre titoli: diritti civili, stato sociale e costituzione repubblicana; qui va osservato che è ben possibile, e anzi utilissimo e indispensabile, intraprendere iniziative localizzate di ‘intralcio’ al capitalismo assoluto, che è una buona idea, per mobilitare e aggregare, di richiamarsi a possibilità positive realizzatesi storicamente (e di cui ancora, ma sempre più vagamente, si conserva ricordo e traccia); ma che tali iniziative e richiami, se debbono avere un senso e un respiro ¾ non essere gesto ma strategia ¾ , allora debbono inquadrarsi in un  d e f i n i t o   p r o g e t t o   d i   s o c i e t à  tale, almeno in linea di principio, da evitare, in negativo, gli inconvenienti del capitalismo, e, in positivo, da delineare una possibile forma di vita individuale e collettiva in cui l’uomo prenda in mano le redini del proprio destino, ciò che è il senso autentico del ‘moderno’[20]; ora, l’impianto societario social-liberal-borghese patrocinato (in virtù della sua universalità e aggregatività) dal neoradicalismo badialiano ¾ impianto senz’altro progressivo rispetto all’ancien régime aristocratico-agricolo antecedente alla rivoluzione francese e a quella industriale ¾ , è purtuttavia l’impianto  i n   c u i  il capitalismo è giunto a maturazione e a trionfo egemonico (‘capitalismo assoluto’) e, con esso, lo ‘sviluppismo’ ¾<