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Il nostro fine non è tendere a quel tale bene, ma al bene in sé

di Francesco Lamendola - 01/10/2007

 

 

 

 

Fino a qualche decennio fa i teologi amavano sottolineare non solo la posizione privilegiata dell'uomo nel mondo, creatura fatta a immagine di Dio e dotata di libertà spirituale, ma anche un suo preteso diritto alla signoria sul mondo, uno diritto fondamentale a manipolare cose, piante e animali in virtù di tale supremazia. Alcuni decenni fa, del resto, lo sterminio della tigre e della balena era già in corso, ma poco se ne sapeva a livello di opinione pubblica mondiale; la foresta amazzonica era già stata intaccata, con le motoseghe e perfino con la dinamite, ma la distruzione di quella immensa area verde era ancora di là da ogni più allarmistica immaginazione. Quanto alla clonazione o alla creazione di organismi geneticamente modificati, nulla se ne poteva sospettare; pertanto si può scusare, almeno in parte, l'enfasi con la quale i teologi evidenziavano il dirtto-dovere del genere umano si servirsi del creato come di una propria esclusiva riserva di caccia - anche se alcuni, per la verità, aggiungevano che proprio in questo suo dominio egli era in grado di mostrare quanto fosse degno dell'alto potere che Dio gli aveva conferito, amministrando con saggezza e moderazione le risorse della natura.

Ad ogni modo, il punto che desideriamo mettere a fuoco, in questa impostazione teologia tradizionale, non è tanto l'eccesso di antropocentrismo, che storicamente è servito a giustificare i peggiori eccessi nel brutale sfruttamento delle altre creature viventi (così come l'eccesso di etnocentrismo, nei secoli passati, è servito a giustificare il genocidio culturale di tante civiltà extra-europee: basti pensare alla distruzione sistematica dei codici maya operata dal clero cattolico spagnolo). Si tratta di un eccesso che, dal punto di vista del cristianesimo (ma anche dell'ebraismo e dell'islamismo) si può, entro certi limiti, comprendere, poiché deriva dalla concezione secondo la quale l'uomo è stato voluto e creato da Dio come essere unico e privilegiato nell'intero universo e vi occupa una posizione assolutamente eccezionale: quella di custode e depositario dell'intera creazione. Si tratta di una concezione che si può non condividere ma che ha una sua coerenza e una sua dignità e che nasce da un modo ben preciso di intendere il rapporto esistente fra Creatore e creature: solo nell'uomo, infatti, il Creatore è stato in grado di portare la creazione all'autocoscienza, e solo dall'uomo egli si attende quel movimento spirituale, fatto di incondizionato amore e gratitudine, che conduce al ritorno intenzionale verso di Lui. Detto in termini ancora più semplici, solo dall'uomo Dio si attende lodi e preghiere; solo dall'uomo può aspettarsi un sentimento di apprezzamento per tutte le cose che esistono.

Il punto sul quale desideriamo brevemente riflettere è, dicevamo, un altro: e cioè l'idea, propria della teologia tradizionale, secondo la quale l'uomo soltanto è in grado di tendere non solo a questo o quel bene particolare, così come fanno appunto le creature inferiori (ad esempio il cervo che anela ai rivi delle acque), ma al Bene in sé, al Vero in sé e al Bello in sé. È un'idea grande, che precede - storicamente - il cristianesimo, perché fu già formulata nella maniera più ampia da Platone, quattro secoli prima di Cristo; dal platonisno è passata nel cristianesimo e, per opera principalmente di Sant'Agostino, si è fusa con esso, al punto da non potersi poi dire con sicurezza fin dove il cristianesimo si sia platonizzato e dove, invece, il platonismo si sia cristianizzato. È una grande idea dalle grandi conseguenze; e, sia che la si accetti, sia che la si rifiuti, non si può fare a meno di confrontarsi con essa, perché si tratta di una delle idee più vitali del pensiero umano, visto che dopo duemilacinquecento anni non accenna a mostrar segni di vecchiaia, pur avendo dovuto sostenere molte battaglie.

Scrive Fulton J. Sheen nel suo libro, dal titolo quantomeno intrigante, Biologia soprannaturale, Torino, Borla, 1954 (ma il titolo originale in inglese, molto meno fantasioso, è semplicemente The Life of All Living, ossia La vita di tutto il vivente):

 

"Per la prima volta, nella ricerca della vita perfetta, troviamo nell'uomo un essere che serba in se stesso il frutto dell'attività intrinseca. Il termine dell'attività intrinseca della pianta è il seme, il termine dell'attività intrinseca dell'animale è la sua specie, e questi continuano la loro esistenza staccati dalla fonte che li generò. Ma nell'uomo il termine della sua caratteristica attività immanente, che è pensare e volere, rimane entro di lui. Formulo un pensiero, ad esempio: 'giustizia'. Questo pensiero non ha né misura né peso né colore. Non ho mai visto la giustizia andarsene per un viottolo di campagna o sedersi a tavola. Donde è venuta dunque l'idea? Essa è stata generata dalla mente, tal quale l'animale genera la sua specie.

"Dunque, nella mente v'è generazione, come v'è generazione nella vita della pianta e dell'animale; ma qui l'atto generativo è spirituale. V'è fecondità nella mente così come v'è fecondità nei tipi inferiori di vita: ma qui la fecondità è spirituale. E poiché il suo atto generativo e la sua fecondità sono spirituali, il termine del suo concepimento rimane nella mente; non si stacca da essa come il seme dal trifoglio, Né resta separato come il cucciolo dal cane. L'embrione dell'animale fu una volta parte dei suoi genitori, ma nel regolare corso della natura esso venne generato, cioè separato dal genitore. Nella vita intellettuale, invece, ha luogo la concezione mentale e il pensiero vien generato dalla mente, ma rimane sempre entro di essa, mai se ne separa. L'intelletto conserva sempre la sua giovinezza, sicché i più grandi pensatori di tutti i tempi hanno chiamato l'intelligenza la più elevata specie di vita su questa terra. Questo è il significato che traspare dalle parole del Salmista: «Intellectum da mihi et vivam». La vita è conoscenza: il termine della sua conoscenza non è, come per l'animale, quel tal bene, bensì il Bene, il Vero, il Bello. Levandosi al di sopra delle cose buone, vere e belle, l'uomo raggiunge la comunione con l'Assoluto, che è il Bene, il Vero, il Bello.

Quel che è vero per l'intelletto è vero per la volontà. La forma che spinge l'uomo a cercare scopi e fini, che lo spinge all'amore e all'odio, al piacere o al dispiacere, non è qualcosa completamente fuori di lui e quindi materiale. La scelta viene dall'interno. La pietra non ha volontà, la sua attività è completamente determinata da una legge impostale dall'esterno. In servile obbedienza alla legge di gravità,  essa deve cadere, ad esempio quando è rilasciata dalla mia mano. E come le cose materiali sono direte ai loro fini da leggi naturali, così anche gli animali sono diretti ai loro fini dall'istinto. V'è un'infinita monotonia nell'effettuarsi dell'istinto animale: per questo l'animale non progredisce mai. L'uccello non perfeziona mai la costruzione del suo nido, non muta il suo stile nel curvare i ramoscelli, passando, per esempio, dal romanico alla commovente devozione del gotico. La sua attività è imposta, non è libera. Nell'uomo invece v'è una scelta, che è liberamente determinata dall'anima stessa. La ragione pone uno dei mille possibili bersagli e la volontà sceglie uno dei tanti diversi proiettili per quel bersaglio. La semplice parola 'grazie' si leverà sempre come una confutazione del determinismo, perché essa implica che qualcosa che fu compiuta poteva anche essere lasciata incompiuta.

"Non solo la scelta avviene dall'interno e non dall'esterno, come invece avviene per legge di gravità nelle cose o come, nel caso dell'animale, per un dato bene percettibile, ad esempio un cespo d'erba; ma la volontà può spesso cercare i suoi obietti nell'anima stessa ed ivi trovare rifugio. L'amore del dovere, la ricerca della verità, il perseguimento di ideali intellettuali, sono tutti scopi e finalità così intrinseci da provare ancora una volta come l'uomo abbia un'attività interna che di gran lunga supera quella delle creature inferiori, dandogli una supremazia spirituale sopra quelle…" (Fulton J. Sheen, op. cit., pp. 17-20).

 

Sorvoliamo - già lo abbiamo detto - sull'enfasi antropocentrica di questo brano e concentriamoci sulla parte veramente vitale e più interessante: sull'affermazione, cioè, che mentre gli animali tendono unicamente a quei beni sensibili e contingenti che, volta per volta, nella loro esperienza immediata, paiono loro desiderabili, l'essere umano soltanto è in grado di concepire valori assoluti, trascendenti, e di ricavarli dalla propria anima, dal proprio pensiero e dalla propria volontà: generandoli, per così dire, proprio come gli animali generano la loro prole o come le piante generano i semi da cui altre piante nasceranno. L'essere umano, dunque, spicca nel contesto della creazione perché capace di auto-produzione e, più precisamente, di auto-produzione spirituale:  non soggetto, o soggetto solo parzialmente, alle leggi della natura, con la sua parte spirituale egli è in grado di creare da sé il suo fine, nella sfera della libertà morale.

Qui veramente fa capolino un concetto di origine aristotelica, ripreso poi dal tomismo, che oggi la maggior parte dei filosofi e forse anche alcuni teologi non sono disposti ad ammettere, se non con grandissima difficoltà e infinite limitazioni: quello di fine intrinseco. Per Aristotele, ogni cosa nella natura tende naturalmente al suo fine: ad esempio, l'aria e il fuoco tendono verso l'alto, mentre l'acqua e la terra tendono verso il basso; comunque, ogni ente materiale è attratto verso un suo luogo naturale (anche se, in pratica, può anche non raggiungerlo), e ogni cosa esiste per una causa finale, ossia per un fine, uno scopo. La domanda, dunque, che dobbiamo farci davanti a una pietra, una pianta, un animale o anche all'essere umano, è questa: verso che cosa tende? Qual è il suo scopo? Sia detto per inciso, per Aristotele il fine cui l'essere umano tende è la felicità. Ogni altra cosa cui l'uomo tende non è voluta per se stessa, ma per altro: solo la felicità è cercata per se stessa, perché tutto ciò che l'uomo vuole, lo vuole per essere felice.

Il finalismo è stato duramente criticato nel corso degli ultimi secoli (guarda caso, dalla Rivoluzione scientifica del XVII secolo in poi, con la quale si è instaurato l'odierno paradigma materialista, meccanicista e riduzionista. La filosofia naturale è diventata scienza naturale; la scienza della natura ha rinunciato a chiedersi "verso che cosa" tendono gli enti per limitarsi a chiedere "come" avvengono i fenomeni (riducendosi a un rigoroso descrittivismo del mondo fisico); e la filosofia ha finito per non chiedersi più nulla, anzi per domandarsi (con Wittgenstein) se non avrebbe fatto meglio a parlare di nomi anziché di cose e, in ultima analisi, a tacere del tutto.

Veramente, a noi pare che la reazione anti-finalistica, conseguenza del radicale (e schizofrenico) dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa, sia andata decisamente oltre il segno, perché chiedersi se le cose esistano per qualche scopo non è affatto una domanda stupida, anche se è  certamente una domanda metafisica. Tuttavia non di questo volevamo ora discutere, ma dell'idea secondo la quale - accettando come ipotesi di lavoro le premesse teoriche del finalismo - l'uomo, unico fra le creature, può tendere al Bene, al Vero e al Bello. Perché, lasciando impregiudicata la questione se gi animali siano totalmente esclusi da una siffatta libertà morale (e il cane che si lascia morire di fame sulla tomba del padrone non sembra agire per istinto, perché l'istinto gli suggerirebbe di mangiare), resta il fatto che una possibilità nasce sempre dalla supposizione del suo contrario - ché, diversamente, non sarebbe possibilità, ma necessità. Ora, non solo il ragionamento astratto ma anche la concreta osservazione del comportamento umano ci mostrano che un gran numero di esseri umani non perseguono affatto il Bene in sé (o il Vero, o il Bello) e pertanto, da questo punto di vista, le loro scelte non si collocano su di un piano sostanzialmente diverso da quello degli animali. Cercano infatti un bene contingente e immediato e non sembrano desiderare altro; salvo stancarsene presto, non appena lo abbiano soddisfatto, per tornare alla ricerca di un altro bene contingente; e così via. L'essere umano, infatti, si caratterizza per la sua natura di essere desiderante: è sempre proiettato alla ricerca di un oggetto del desiderio, possibilmente irraggiungibile; tanto è vero che, se per caso riesce a raggiungerlo, se ne stanca e avverte la necessità  di crearsene un altro.

Senonché, se ci fermassimo a questo livello del nostro ragionamento, avremmo raggiunto una visione solo parziale del problema. Il fatto che l'essere umano, molte volte, si disperda nella vana ricerca di beni immediati e circoscritti, non significa o, almeno, non dimostra che egli sia insensibile al richiamo di quei beni assoluti che Platone chiamava le Idee del Bene, del Vero e del Bello. Certo, l'uomo ha sete di acqua, o di latte, o di vino; ma questo non significa che non sia mosso da una sete che non è di acqua o latte o vino, ma di una Bevanda che spenga la sua sete per sempre. Questo, crediamo, intendeva dire Cristo alla Samaritana, quando le diceva che avrebbe dovuto chiedere da bere a lui, anche se ella aveva un secchio per attingere al pozzo e lui no: perché bere della semplice acqua non spegne la sete che per un breve tempo; mentre bere dell'Acqua viva toglie la sete per sempre e dà la vita eterna. Allo steso modo, noi vediamo continuamente gli esseri umani inseguire degli amori verso i propri simili, che di volta in volta idealizzano sino a farne quasi delle creature divine - salvo poi rimanerne amaramente delusi. Ma ciò non significa che nella natura dell'uomo non vi sia la tensione verso un Amore assoluto, un Amore che non delude e non lascia l'amaro in bocca: significa semplicemente che, il più delle volte, non ne conoscono la strada. Eppure ne hanno la nostalgia in cuore: se così non fosse, perché mai sentirebbero il bisogno di idealizzare, assolutizzandolo, l'essere amato? Si contenterebbero di godere del suo amore nella dimensione del finito e del relativo, senza crucci e senza troppi voli della fantasia. Si sentirebbero appagati dall'amore terreno; in loro non sorgerebbe l'inquietudine.

 

Già, l'inquietudine. Per certa cultura moderna, imbevuta di una sociologia al servizio dell'esistente e di una psichiatria dogmaticamente ancorata ai suoi pregiudizi pseudo-scientifici, l'inquietudine è una forma di nevrosi da curare, magari con una bella terapia a base di psicofarmaci; comunque, una anormalità da estirpare dalla coscienza, per il bene dell'individuo, si capisce.

E se così non fosse? Se l'inquietudine fosse, invece, la spia della nostra vocazione trascendente, della nostra finalità extra-creaturale ed extra-umama? Se essa fosse, né più né meno, il richiamo dell'Essere che si fa sentire nel profondo dell'anima; cioè, appunto, la nostalgia e la speranza che ci fanno protendere, magari inconsapevolmente, attraverso continue cadute ed errori, verso il Bene, il Vero ed il Bello in sé stessi?