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Insurrezione di Vitellio contro Galba

di Francesco Lamendola - 01/10/2007

 

  

 

 

 

Prestiamo il secondo capitolo del libro di Francesco Lamendola «Galba, Otone, Vitellio. La crisi roomana del 68-69 d. C. », Poggibonsi (Siena), Antonio Lalli Editore, 1984, pp. 43-68. L'opera è da tempo esaurita ma un numero limitato di copie può essere richiesta direttamente all'Autore.

 

 

 

 

I n d i c e

 

 

1.     ORIGINI DEL MOVIMENTO VITELLIANO

 

2.     PROCLAMAZIONE DI VITELLIO

 

3.     IL MOVIMENTO LEGIONARIO TRANSALPINO

 

4.     PREPARAZIONE DELLA MARCIA SU ROMA

 

5.     CONTRACCOLPO POLITICO A ROMA

 

6.     LA NOMINA DI PISONE

 

 

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1.     ORIGINI DEL MOVIMENTO VITELLIANO.

 

È impossibile intendere le ragioni profonde del movimento vitelliano se non si tengono Presenti l'irritazione profonda e il sordo risentimento delle legioni germaniche nei confronti del nuovo indirizzo politico inaugurato da Galba. la sua stessa scalata al potere, largamente preparata e favorita dall'alleanza con Giulio Vindice, si era presentata loro sotto la luce alquanto sfavorevole di un compromesso con le forze antiromane della Gallia.  Vincitori, sotto la guida di Verginio Rufo, del movimento di Vindice, i legionari delle due province germaniche si consideravano i salvatori dell'ordine romano nel paese transalpino, contro quello che essi avevano probabilmente interpretato come un movimento nazionalista e, forse, separatista dei Celti. Essi però erano rimasti delusi e contrariati dal fatto che Galba, insediatosi al potere, non aveva concesso loro alcun riconoscimento per quanto avevano fatto; anzi, avevano assistito con sdegno alle punizioni infitte alle città e alle tribù galliche e germaniche che non avevano partecipato al movimento di Vindice e avevano aiutato le legioni del Reno a domarlo.

Dopo un simile esordio, il governo di Galba prendeva avvio nelle condizioni più infelici agli occhi degli eserciti germanici; né l'imperatore fece alcunché per blandire il loro scontento. Con la sua rigida politica di restaurazione senatoria, egli sembrava voler smentire clamorosamente il diritto dell'elemento militare - e di quello legionario più ancora di quello pretoriano -  a interloquire in materia politica. Ma in ciò appunto si rivelava più penosa la contraddizione singolare, nella quale il governo di Galba si dibatteva inutilmente: quella di un imperatore che, dopo aver dato, egli per primo, l'esempio di un "pronunciamento" militare nelle province, grazie al quale era giunto al supremo potere, pretendeva adesso di privare qualunque altro esercito provinciale della possibilità di sostenere delle pretese analoghe. Perché dunque gli eserciti della Germania non avrebbero potuto imporre al Senato un imperatore di propria scelta, quando quello di Spagna vi era pienamente riuscito? E cos'era quell'unica legione spagnola, debole per giunta, e lontana dall'Italia, a paragone delle sette formidabili legioni del Reno, la cui fama guerresca era diffusa per ogni angolo dell'Impero, e anche strategicamente più vicine alla Città Eterna?

Come si ricorderà (vedi l'articolo Da Nerome a Gaòba), fin dall'indomani della loro strepitosa vittoria sull'esercito gallico di Vindice le legioni vittoriose avevano offerto la corona imperiale al proprio duce, Verginio Rufo, il quale - però - aveva rifiutato. Dopo la morte di Nerone e l'ascesa di Galba, lo scontento fra esse diffuso non aveva accennato a placarsi e l'episodio di Fonteio Capitone non aveva certo migliorato il loro stato d'animo nei confronti di Galba. Inviato da quest'ultimo quale legato della Germania Inferiore, Capitone - a quanto pare - aveva cercato di mettersi a capo di una rivolta militare, sfruttando l'inquietudine delle truppe e la loro avversione nei confronti degli Edui, dei Sequani e delle alte tribù galliche che avevano parteggiato per Vindice. Galba, però, venuto in qualche modo a conoscenza dei suoi piani, era riuscito a prevenirlo prima che il movimento avesse avuto il tempo di prendere consistenza. Secondo Tacito, anzi, l'imperatore non fece altro che limitarsi ad avallare quanto Cornelio Aquino e Fabio Valente avevano fatto in suo nome. Aquino e Valente comandavano ciascuno una legione del Reno e, non appena ebbero sentore delle intenzioni del legato, senza attendere ulteriori istruzioni da Roma lo avevano fatto sopprimere. Esecutore materiale dell'assassinio di Capitone era stato il centurione Crispino che, più tardi, sarebbe stato messo a morte dai legionari ancora legati al ricordo del loro governatore. Pare che anche il prefetto della flotta del Reno, Giulio Burdone, fosse a parte dell'iniziativa di Aquino e Valente. Ma senza dubbio la parte di maggior rilievo dovette essere svolta dallo stesso Fabio Valente, comandante energico e spregiudicato, che aveva già svolto un ruolo, peraltro non ben conosciuto, nel fallimento della proclamazione di Verginio Rufo da parte delle legioni, e che adesso sperava di ricevere ampie ricompense dall'imperatore al quale, per due volte, aveva eliminato un pericoloso rivale. Senonché, questi suoi meriti non ricevettero affatto il riconoscimento da lui sperato, e l'ambiziosissimo Valente, amaramente deluso dall'ingratitudine di Galba, cominciò a sua volta sul fuoco dello scontento dell'elemento militare per trarne direttamente vantaggio.

Dopo che Verginio Rufo, annientato il movimento di Vindice e rifiutato l'Impero che i suoi soldati gli offrivano, fu rientrato in Italia, Galba aveva spedito in qualità di legato della Germania Superiore  un tal Ordeonio Flacco. Scelta infelice perché costui, già avanti negli anni, malato di gotta e completamente privo di energia, era certo l'uomo meno indicato per far rispettare gli interessi dell'imperatore fra quelle truppe scontente e irrequiete.

Quanto alle legioni della Germania Inferiore, dopo l'assassinio di Fonteio Capitone esse rimasero per diverso tempo abbandonate a se stesse, e solo nell'autunno Galba provvide a inviar presso di loro Aulo Vitellio in qualità di legato consolare. Così, dei due esercirti del Reno, l'uno, quello superiore - che aveva svolto il ruolo principale nella repressione del movimento di Vindice - si era visto allontanare il proprio capo, interpretando ciò come una punizione per quanto aveva fatto;  l'altro, l'inferiore, aveva conosciuto il regime di Galba attraverso l'assassinio del proprio legato. Entrambi covavano un profondo malcontento che aspettava ormai solo l'occasione adatta per prendere corpo in una aperta sollevazione militare. Fu lo stesso Galba che, sostituendo nel giro di  poche settimane entrambi i legati,  tradì la propria sospettosa insicurezza e accese la miccia della deflagrazione che ne avrebbe affrettata la fine.

Dei due nuovi legati germanici, sia l'uno che l'altro erano, di per se stessi, completamente insignificanti; ma dietro di essi stavano le ambizioni sconfinate  di alcuni generali, decisi a sfruttare la situazione per cavalcare la tigre  dello spirito di rivolta delle legioni. Anziché mettersi direttamente alla testa di un moto insurrezionale antigalbiano, essi cercarono un uomo di pace capace al tempo stesso di riuscire gradito  ai soldati e di servire arrendevolmente i loro sogni di potere.  Quest'uomo poteva essere che uno dei due nuovi legati: ma uno di essi, Ordeonio Flacco, andava senz'altro scartato per lo scarso ascendente di cui godeva fra le truppe. Restava Vitellio: uomo torpido e indolente, affatto digiuno di esperienza bellica, bevitore e ghiottone insaziabile, ma che aveva dalla sua  alcuni fattori degni di tutto rispetto. Primo, era raccomandato dai suoi illustri natali e dal ricordo della splendida carriera del padre, Lucio Vitellio, tre volte console e potentissimo amicus dell'imperatore Claudio. Secondo, i suoi modi estremamente affabili, anzi fin troppo indulgenti e camerateschi, unito a un certo qual tratto di innata generosità e bonomia, lo avevano reso subito molto popolare fra i suoi soldati, abituati a una più rigida disciplina.  Terzo, poiché era appena arrivato a Colonia Agrippina (od. Colonia), oltretutto preceduto da una buona fama quale governatore dell'Africa Proconsolare, il grosso delle legioni non aveva avuto ancora il tempo di conoscerlo bene e di notare i suoi molti difetti, il che era per lui un vantaggio indiscutibile.  E infine, ma non per ultimo, generali ambiziosi e senza scrupoli, quali Cecina e Valente, si erano resi conto della sua intettitudine sia militare che politica, e da ciò traevano la facile speranza di poterlo in futuro manovrare secondo il proprio personale tornaconto. Il fatto stesso che Vitellio non avesse doti militari lo metteva automaticamente nella necessità di delegare  la guida di una eventuale insurrezione armata ai propri luogotenenti, dai quali sarebbe venuto così a dipendere in misura sempre maggiore.

È dunque necessario riconoscere che gli esordi di Vitellio furono di natura politica opposta a quelli di Galba o di Otone: costoro per la propria personalità, lui per mancanza di personalità furono lanciati dai rispettivi eserciti l'un contro l'altro nella sanguinosa competizione  per accaparrarsi il supremo potere.

 

 

2.      PROCLAMAZIONE DI VITELLIO.

 

Sia fra le legioni della Germania Superiore che fra quelle della Germania Inferiore, dunque,  maturavano implacabilmente i semi dello scontento e della rivolta.  Ad aggravare lo stato di tensione già esistente fra le truppe, poi, gli ambasciatori dei Treveri e dei Lingoni si erano recati, verso il dicembre del 68, presso i quartieri d'inverno delle legioni del Reno superiore, alimentando  coi loro discorsi l'indignazione contro Galba. I Treveri, popolazione germanica della riva sinistra del fiume, e i loro vicini di stirpe celtica, i Lingoni, erano stati fedeli  alleati di Verginio Rufo nella repressione del movimento di Vindice e ne avevano avuto in premio, da parte di Galba, l'abbattimento delle mura cittadine, una diminuzione dei territori e un aumento delle imposte.  Questi racconti, naturalmente, furono ascoltati con viva partecipazione dai legionari  a fianco dei quali avevano combattuto e vinto. Le cose arrivarono al punto che alcuni dei più esaltati incitarono apertamente i soldati alla rivolta; e il legato Ordeonio Flacco, sempre più allarmato, dovete far allontanare gli ambasciatori dal campo. Ma tutto ciò che ottenne fu di spingere gli ausiliari galli e germani nelle braccia dei legionari e di far nascere la voce che gli ambasciatori  erano stati assassinati mentre lasciavano, di notte e in gran segreto, l'accampamento.

Verso la fine del mese, la situazione sembrò matura ai generali per tentare il gran colpo.  Fra essi si distinguevano in modo particolare Fabio Valente, i cui motivi di risentimento  verso Galba già conosciamo,  e che era a capo di una delle quattro legioni della Germania Inferiore; e  Alieno Cecina, che comandava una delle tre della Germania Superiore. Come si ricorderà (cfr. Da Nerone a Galba), Cecina era stato questore della Betica al tempo in cui Galba si era pronunciato contro Nerone e aveva aderito subito al movimento, venendone ricompensato - appunto - col comando di una legione sul Reno. Ma, accusato poi da Galba di una sottrazione di pubblico denaro,  era caduto in disgrazia e aveva compreso di non poter nulla più sperare  dalla sua fedeltà all'imperatore. Al pari di Valente, dunque, questo giovane e audace condottiero, molto popolare  fra le truppe e dotato di buone capacità militari, aveva incominciato a predisporre il terreno in favore di Vitellio quale possibile candidato al supremo potere.

Il primo gennaio del 69 presso tutte le legioni del vasto Impero doveva svolgersi la cerimonia del giuramento di fedeltà delle truppe  al nuovo imperatore. Le sette legioni del Reno erano così ripartite: nella Germania Superiore, la IV Macedonica, la XXII Primigenia e la XXI Rapax; nella Germania Inferiore la I, la V,  la XV e la XVI. Queste ultime si risolsero, pur fra mormorii o in una atmosfera di silenzio minaccioso, a  pronunciare il sollemne sacramentum in favore di Galba. Invece, nella città di Mogontiacum (Magonza), le due legioni IV Macedonica e XXII Primigenia, all'atto del giuramento, si rivolsero contro le effigi dell'imperatore e le fecero a pezzi. Alla sera del 1° gennaio, dunque, mentre le forze della provincia superiore, incitate da Cecina avevano passato il Rubicone, compromettendosi irrimediabilmente col governo legittimo, quelle alle dirette dipendenze di Vitellio avevano prestato il loro giuramento, col solo incidente di alcune sassate isolate scagliate da pochi soldati contro le effigi di Galba.  Il legato Ordeonio Flacco, benché rimanesse personalmente fedele all'imperatore, non ebbe l'ardire di contrastare i propri soldati, giunti al culmine dell'eccitamento e assistette passivamente all'arresto di alcuni centurioni che, per aver cercato di ricondurre le legioni all'obbedienza, furono subito messi in catene. Da parte loro, le truppe  di Magonza non acclamarono alcun candidato all'Impero, ma si limitarono a dichiararsi fedeli al Senato e al popolo romano: affermazioni chiaramente propagandistiche e politicamente vuote, come di lì a poco i fatti avrebbero mostrato.

Vitellio, intanto, si trovava a Colonia, mentre delle sue quattro legioni la I era accmpata a Bonna (Bonn), la XVI a Novaesium (Neuss), la V e la XV a Castra Vetera (Xanten). La notte fra il 1° e il 2 gennaio giunse a Colonia un messo della IV legione Macedonica annunciando al legato della Germania Inferiore gli eventi della giornata, e cioè che le due legioni  stanziate a Magonza avevano giurato fedeltà al Senato e al popolo romano e abbattuto le immagini di Galba. A questo punto Vitellio giudicò arrivata l'ora di agire. Mandò a sua volta dei messi alle proprie truppe e ai comandanti, informandoli degli eventi verificatisi presso l'esercito superiore e osservando che non restava che un'alternativa: o marciare contro di esso in nome di Galba, oppure designare un proprio candidato all'Impero. Aggiungeva, a quanto pare, l'esplicito suggerimento di considerare la seconda soluzioni, per ovvie ragioni, di gran lunga preferibile. Naturalmente egli sapeva benissimo che i propri legionari provavano una ripugnanza istintiva all'idea di prendere le armi contro i loro commilitoni della Germania Superiore; e sapeva, inoltre, che mai lo avrebbero fatto solo per salvare il trono a Galba, divenuto così impopolare.  È fin troppo chiaro che Vitellio, se avesse avuto davvero l'intenzione di prendere le parti di Galba, avrebbe dovuto comandare ai suoi generali di muovere senz'altro contro i ribelli e non chiedere, in forma ambigua, il loro parere sul da farsi. Inoltre, se fosse stato in buona fede, avrebbe dovuto prevenire, declinando l'offerta, ogni eventuale tentazione delle truppe di contrapporlo a Galba: come Germanico aveva a suo tempo fatto, tra quegli stessi soldati, a favore di Tiberio.

La prima legione della Germania Inferiore ad essere raggiunta dagli inviati di Vitellio fu la I, il cui legato Fabio Valente si affrettò a prendere la palla al balzo. Assicuratosi il consenso delle proprie truppe, si mise subito al galoppo sulla via di Colonia con la cavalleria romana  e con quella degli alleati germanici; e, coprendo velocemente i trenta chilometri che lo separavano dalla capitale provinciale, entrò in Colonia nella giornata stessa del 2 gennaio. Quivi per primo egli acclamò Vitellio imperatore, fra l'esaltazione dei suoi soldati. Gli storici antichi ci mostrano Vitellio , per parte sua, tutto preso dalla sua consueta passione per i banchetti, quasi che egli solo, in quelle ore cruciali, non si preoccupasse a chi sarebbe toccato l'Impero, ma soltanto di mangiare e bere senza alcun freno.

Diciamo subito che questa ricostruzione dei fatti è francamente inaccettabile.  L'immagine di Vitellio trascinato dal triclinio agli scudi dei soldati è una caratteristica pennellata della velenosa storiografia senatoria: tanto improbabile quanto quella del VI secolo che ci presenta l'imperatore Onorio, nelle ore tragiche del sacco alariciano di Roma, tutto intento a imbeccare di chicchi di grano la sua gallina prediletta di nome, appunto, Roma. Per prima cosa, infatti, si potrebbe osservare che Vitellio può aver trovato ingegnoso l'espediente di  farsi credere preso alla sprovvista dagli eventi: nella lunga storia delle usurpazioni militari nell'Impero Romano, quasi nessun pretendente ha trovato di buon gusto accettare  ala prima offerta di lasciarsi innalzare sugli scudi. Valga per tutti l'esempio di Giuliano l'Apostata, acclamato  Augusto dalle legioni galliche nel 351, mentre si  trovava in casa, e che finì per accettare  non senza aver prima aver opposto qualche insincera resistenza. Oltre a questo, pare che l'insaziabile e ben nota ghiottoneria di Vitellio abbia letteralmente dato alla testa  degli storici filo-senatori, ben felici di poterlo mettere in caricatura, sulla base di un dato reale e incontestabile, ma anche nelle circostanze meno verosimili. Ad esempio lo storico Flavio Giuseppe, nella sua Guerra Giudaica, arriva a scrivere che perfino pochi istanti prima di essere ignominiosamente ucciso, in una Roma  stravolta dal massacro e dalla rapina,  l'imperatore usciva dal Palazzo ancor più del solito imbuzzito di cibo, proprio perché consapevole della propria fine imminente. Nel qual caso, oltretutto, non si capisce perché  - come riferiscono Tacito, Svetonio e lo stesso Giuseppe - solo all'ultimo istante Vitellio sarebbe uscito dal palazzo per tentare una fuga tanto  tardiva quanto disperata.

L'arrivo della cavalleria di Valente  a Colonia segnò la svolta decisiva nell'insurrezione.  Trascinati dall'esempio, i soldati e gli abitanti della capitale germanica si pronunciarono come un sol uomo per Vitellio, come se non avessero atteso altro.  Questi, da parte sua, non volle accettare né il titolo di Augusto né quello di Cesare, ma - come se la forza stessa degli eventi  lo avesse spinto al punto di non poter fare altro  che accettare di guidare il movimento militare - accolse il giuramento dei soldati e si mostrò fiducioso e sicuro del fatto suo. Quando, la sera del 2 gennaio, un incidente bruciò la casa ove aveva trasferito il proprio quartier generale,  per un attimo i suoi superstiziosi sostenitori si mostrarono colpiti da quel presagio di cattivo augurio; ma Vitellio in persona li rincuorò con queste parole: - Non temete, amici, èun fuoco di gioia per noi! -. Questo ed altri particolari analoghi, che la storiografia antica ci ha conservati,  paiono mostrarci un Vitellio ottimista e quasi baldanzoso, estremamente fiducioso circa il buon esito della propria avventura imperiale; un Vitellio, insomma, tutt'altro che colto alla sprovvista dal rapidissimo precipitare degli eventi. Questo per quanto riguarda l'immagine di un usurpatore strappato, controvoglia, ai banchetti: immagine cara anche a certa storiografia moderna, più pittoresca e letterariamente efficace, che convincente da un punto di vista storico-critico.

Le notizie degli avvenimenti occorsi a Colonia si diffusero con estrema rapidità lungo tuta la riva sinistra del Reno e fra gli accampamenti delle legioni, così come fra i popoli germanici e celti tradizionalmente alleati dei Romani. Il giorno successivo, 3 gennaio, tutto l'esercito della Germania Superiore ruppe gli indugi e giurò fedeltà davanti alle effigi di Aulo Vitellio, ormai capo indiscusso del movimento. A tal fine molto si adoperò il legato Alieno Cecina, svolgendo fra le truppe del Reno superiore la stessa opera di spregiudicata propaganda vitelliana, che Valente aveva dispiegato fra quelle della provincia inferiore. Tacito non può fare a meno di esprimere un sarcastico commento a proposito della sincerità con la quale, solo due giorni prima, le truppe della IV Macedonica e della XXII Primigenia avevano giurato fedeltà al Senato e al popolo romano: osservazione con la quale dobbiamo interamente concordare.

Mentre a Magonza e a Vindonissa (odierna Windisch, presso Basilea) le legioni di Ordeonio Flacco prendevano posizione per Vitellio, anche le tribù dei Treviri e dei Lingoni , che avevano dei conti in sospeso con Galba e una tradizionale amicizia con le vicine legioni, abbracciarono entusiasticamente la causa di Vitellio. Ci vien detto che città e distretti facevano a gara nell'offire truppe ausiliarie, armi, denaro  e materiali per la causa degli eserciti di Germania, e che perfino i soldati semplici correvano ad offrire i propri baltei e le proprie falere agli ufficiali di Vitellio. Così, nel giro di poche ore, le due province del Reno si erano levate come un sol uomo sotto le bandiere dell'usurpatore, e non aspettavano che un segnale per  gettarsi contro i vecchi amici gallici di Vindice e di Galba.

 

 

3.      IL MOVIMENTO LEGIONARIO TRANSALPINO.

 

Erano passati appena pochi giorni dagli eventi di Colonia e di Magonza e già la notizia arrivava a Roma, presso l'imperatore, ad opera del procuratore della Gallia Belgica, Pompeo Propinquo. Raro esempio di fedeltà in quei giorni di passioni scatenate e di continui voltafaccia, costui si era mantenuto dalla parte di Galba mentre lo stesso legato della Germania Superiore, il vecchio e malfermo Ordeonio Flacco, rompeva ogni indugio e si dichiarava anch'egli per Vitellio. La nuova della rivolta giunse così a Galba fin dai primi di gennaio, ma l'imperatore ritenne opportuno impedire che la notizia si diffondesse a Roma e cercò fino all'ultimo di minimizzarla. Infatti solo nel discorso di presentazione di Pisone ai pretoriani, il giorno 10 gennaio, ne diede brevemente notizia ai soldati, - affinché - dice Tacito - il tacere della rivolta non la facesse ritenere più importante. Però non disse che tutte le legioni del Reno si erano proclamate per Vitellio, anzi di Vitellio non fece - a quanto pare - nemmeno il nome; informò soltanto che due legioni avevan manifestato segni d'insubordinazione, e concluse dicendosi convinto che entro pochi giorni sarebbero tornate all'ubbidienza. Ciononostante, noi sappiamo che le notizie del movimento di Vitellio dovettero esercitare un peso decisivo nello spingere Galba a scegliersi un collega nell'Impero: di questo parere sono anche quasi tutti gli storici moderni. Purtroppo non sappiamo se Galba, nelle due settimane di regno e di vita che gli rimanevano dopo l'inizio della rivolta germanica, ebbe il tempo e il modo di rendersi conto della vastità del movimento vitelliano, ;ma è probabile che lo abbia almeno intuito.

Subito dopo il 3 gennaio infatti apparve chiaro nei Paesi transalpini che il movimento facente capo a Vitellio non era semplicemente una insurrezione militare di carattere locale e circoscritta. Non solo tutte le legioni del Reno, le più forti e agguerrite dell'Impero, avevano abbracciato la causa vitelliana; non solo tutti i comandanti, e le tribù germaniche e celtiche della riva sinistra; ma quasi subito le fiamme della rivolta divamparono in profondità nelle province occidentali. Pompeo Propinquo, il procuratore della Gallia Belgica che aveva subito informato Galba dell'insurrezione, fu catturato e messo a morte dai soldati inferociti senza che la sua provincia opponesse alcuna resistenza. La flotta germanica passò subito dalla parte di Vitellio e il suo comandante, Giulio Burdone, tratto in arresto e salvato a stento dal furore dei legionari, poiché era sospettato di aver avuto parte nell'assassinio di '

Fonteio Capitone. Gli ausiliari batavi, che costituivano ;iM nucleo poderoso sull'ala sinistra dello schieramento renano, mantennero un atteggiamento di ambigua neutralità. I legionari avrebbero voluto sfogare il proprio odio anche contro il capo batavo Giulio Civile, ma il governo vitelliano con saggia decisione impedì che gli venisse falla violenza. In realtà i Batavi erano sostanzialmente disinteressali a quella che si annunciava come una guerra civile romana e spiavano invece l'occasione per sfruttare al massimo la temporanea debolezza dell'autorità centrale ai loro propri fini di rivendicazione nazionale. Per il momento non vi furono che alcuni incidenti isolati fra le truppe ausiliarie e i soldati della XIV legione, che si trovavano allora nella capitele dei Lingoni, e gli ufficiali di Vilellio ritennero di evitare alcunché che potesse alienar loro il favore delle dieci coorti baia ve, che già si erano, unite al legalo Fabio Valente e costituivano una forza di cui si doveva tener conto.

Intanto il movimento vitelliano guadagnava terreno verso ovest e verso nord. Nella Gallia Belgica, eliminalo il procuratore Propinquo, si schierò al fianco di Vitellio il legato Valerio Asiatico, che ne avrebbe avuto in premio, di lì a poco, la figlia del generalissimo e il consolato per il dicembre del 69 (che però non giunse mai a ricoprire). Anche il governatore della vasta Gallia Lugdunense, Giulio Bleso, abbracciò la causa degli eserciti del Reno, portando così la minaccia fin sui confini dell'Italia. Del pari le truppe di stanza a Lugdunum (Lione), e cioè la I legio Italica e la cavalleria tauriana, giurarono fedeltà a Vitellio. Il movimento aveva così acquistato tale portala che sia le truppe ausiliarie del Norico, sia le legioni della Britannia vi aderirono poco dopo, sia pure senza parteciparvi, dapprima, in forma massiccia. Le Spagne nel complesso mantennero un atteggiamento di attesa, divise fra il ricordo di Galba e la naturale tendenza ad aggregarsi alle altre province transalpine. Così, entro le prime settimane di gennaio, quello che era iniziato come un movimento militare locale si era trasformato in una vera e propria insurrezione delle province occidentali dell'Impero contro l'Italia e quelle orientali, tuttora fedeli a Galba.

Naturalmente il nucleo di questa coalizione antigalbiana rimaneva l'elemento militare, e più precisamente l'elemento legionario di frontiera deciso a strappare alle coorti pretoriane i molti privilegi di cui avevano così a lungo goduto. Ma le legioni di Palestina, impegnate nella guerra giudaica, quelle di Siria e d'Egitto, e quelle, infine, del Danubio, non aderirono al movimento e non afferrarono, a quanto pare, la sua natura di ribellione del proletariato militare contro i reparti d'elite stanziati a Roma e in Italia. Prescindendo per il momento dalle legioni d'Oriente, che per varie ragioni svolgevano un servizio meno oneroso di quelle del limes renano-danubiano, rimane il fatto che le legioni del Danubio non fecero causa comune con quelle del Reno e anzi costituirono, più tardi, il nerbo dell'esercito di Otone e poi ancora di Vespasiano, e furono proprio loro a troncare in maniera decisiva l'avventura imperiale di Vitellio. Eppure le legioni del Danubio e quelle del Reno svolgevano un servizio analogo, vivevano in condizioni di disagio simili, e proteggevano le frontiere dal medesimo pericolo germanico; tanto che al momento della successione di Tiberio ad Augusto, l'insurrezione militare renana aveva avuto un immediato contraccolpo in Pannonia e sul Danubio.

Alcuni storici moderni hanno sottolineato il fatto che le legioni germaniche, specialmente dopo la repressione della rivolta di Vindice, si consideravano il vero baluardo della romanità e dell'Impero contro la barbarie, tanto quella transrenana indipendente, quanto quella celtica, solo parzialmente assimilata, e pronta a colpire alle spalle alla prima occasione favorevole, come appunto la vicenda di Vindice aveva dimostrato. Di conseguenza, esse insorsero contro un imperatore che aveva misconosciuto i loro servigi, che onorava la memoria di Vindice mentre puniva gli alleati gallici di Roma. Non è però possibile affermare che questo fu il movente principale dell'insurrezione vitelliana. Il malcontento contro Galba e la delusione per la sua politica gallica fornirono piuttosto l'occasione per dare sfogo a sentimenti a lungo repressi, di differente natura. Anzitutto, il successo di Galba contro Nerone aveva insegnato agli eserciti provinciali un segreto politico di prima grandezza, e cioè, per dirla con Tacito, « che non solo a Roma potevano esser fatti gli imperatori ». Ciò che spinse principalmente le legioni del Reno a ribellarsi fu la coscienza della propria forza e l'esempio stesso dato da Galba, fattosi imperatore con l'aiuto di un'unica legione della Spagna. E ciò che provocò, di lì a poco, la reazione delle legioni del Danubio, fu la ripugnanza istintiva a sottomettersi all'altrui candidato e il desiderio di eleggersi un proprio imperatore, in opposizione a quello germanico. Inoltre, la funzione pro-romana e antibarbarica attribuita alle legioni del Reno dovrebbe essere ridimensionata. Infatti, se è vero che esse andavano fiere delle proprie vittorie sia sui barbari esterni, come Arminio, sia su quelli stanziati all'interno del limes, come Vercingetorige e, secondo il loro modo di vedere, lo stesso Vindice, è pur vero che per esse l'aspetto tecnico-militare del problema difensivo imperiale era di gran lunga prioritario rispetto a quello etnico-culturale. Per fare un solo esempio: alleati principali delle legioni, sia nella lotta contro Vindice che nella campagna contro Olone, furono i Treveri, tribù germanica assai poco romanizzata; loro principali avversari sulla strada di Roma furono invece gli Elvezi, tradizionali alleati del Senato. Ma non basta. Un peso forse decisivo nella vittoria di Vitellio a Bedriaco ebbero, a fianco delle legioni, gli ausiliari germanici, galli e perfino britanni, tutti elementi assai poco permeabili alla civiltà latina, comandati sovente da propri capi e non da ufficiali romani, e che nella loro marcia attraverso la Gallia e l'Italia diedero sfogo a un vero odio anti-romano, avanzando come in terra di conquista. Perfino i più alti ufficiali vitelliani ostentavano familiarità di costumi con questi barbari, e ciò proprio in una guerra che per forza di cose li spingeva a entrare da nemici nella Penisola italica, patria della civiltà romana. Sappiamo ad esempio che Fabio Valente usava vestirsi di pelli alla foggia germanica, e che indossava le brache galliche che tanto scandalo suscitarono nella tradizionalistica società latina (moltissimo tempo dopo, una legge dell'imperatore Onorio arriverà a proibirne l'uso): e questo in lui, lo sterminatore degli Elvezi, l'invasore dell'Italia, non poteva non acquistare un preciso significato politico. Dopo la vittoria di Bedriaco, quando Vitellio sciolse i pretoriani di Otone per sostituirli coi suoi uomini, aprì le porte della milizia pretoriana, antica roccaforte di privilegio italico, anche a questi barbari delle due rive del Reno. Sempre da Tacito sappiamo che, subito dopo l'ingresso dei flaviani a Roma, nel dicembre del 69, si scatenò una vera e propria caccia al barbaro: una statura fuori della norma e una capigliatura bionda erano contrassegni sufficienti per essere senz'altro passati per le armi.   

Tutti questi fatti dimostrano se non altro una cosa, è cioè che il tanto conclamato orgoglio romano e anti-barbarico delle legioni vitelliane deve perlomeno essere ridimensionato e soprattutto inquadrato in una diversa prospettiva, meno schematica e meno semplicistica nella sua contrapposizione di romanità e barbarie.

 

 

4.      PREPARAZIONE DELLA MARCIA SU ROMA

 

Portato al potere da una coalizione di interessi, in cui faceva spicco la volontà dei legionari germanici di scacciare da Roma l'imperatore «spagnolo» per imporre un proprio candidato, Vitellio comprese che l'unico atteggiamento possibile nella sua situazione era quello offensivo, e senza por tempo in mezzo si diede a organizzare l'invasione dell'Italia. Egli ignorava, naturalmente, che la sua sola proclamazione aveva indotto Galba a scegliersi Pisone come collega e innescato, così, il meccanismo che avrebbe portato il vecchio imperatore al tracollo nel giro di pochi giorni. Ignorava che mentre già le sue forze si erano messe in movimento, a Roma il potere effettivo era passato dalle mani del Senato a quelle dei pretoriani. L'unica realtà era : che le legioni del Reno là avevano acclamato loro capo col nome di « Germanico » allo scopo evidente di aver mano libera, in primo luogo contro i vecchi alleati di Vindice, e in secondo luogo sulla via dell'Italia e di Roma. Un elementare intuito politico gli suggeriva di non procrastinare la marcia verso le Alpi, e di lasciarsi trasportare dall'entusiasmo dei soldati, finché esso era tale da assicurargli il vantaggio di una impetuosa offensiva iniziale.

Dalla Britannia, ove il legato Roscio Celio era entrato in rotta col governatore Trebellio Massimo e l'aveva obbligato a rifugiarsi sul continente, cominciavano già ad affluire i primi rinforzi al partito vitelliano. Sull'isola, recente conquista di Claudio e ancor più recente riconquista di Svetonio Paolino, erano di stanza tre legioni: la XX Valeria Victrix, la II e la IX. Esse si schierarono tutte dalla parte di Vitellio, il che liberò quest'ultimo da ogni preoccupazione per le proprie retrovie: senza l'adesione delle forze britanniche, la spedizione sull'Italia non sarebbe stata neppur pensabile. Non parteciparono però massicciamente alla marcia su Roma, bensì inviarono alcuni distaccamenti a rinforzare le legioni del Reno che già si stavano concentrando in vista della guerra.

Il piano dei vitelliani era il seguente: un primo esercito, costituito dalle legioni della Germania Superiore e comandato da Alieno Cecina, avrebbe intrapresa la marcia direttamente sull'Italia, passando per il territorio degli Elvezi; avrebbe transitato attraverso il valico del Gran San Bernardo e sarebbe sceso nella Pianura Padana. Un secondo esercito, più forte, costituito dalle legioni della Germania Inferiore, e posto agli ordini di Fabio Valente, dal Reno avrebbe marciato attraverso la Gallia; e, passando per Lione, avrebbe superato le Alpi al passo del Monginevro, sboccando quindi a rinforzo del primo. La parte veramente decisiva del piano consisteva nella rapidità di mosse di cui avrebbero dato prova le legioni, rapidità tanto più ardua da rispettare se si considera, da un lato la presenza di numerosi avversari potenziali distribuiti lungo il percorso di entrambi gli eserciti (gli Elvezi nel caso di Cecina, gli Edui e i Sequani in quello di Valente), e, dall'altro, le difficoltà logistiche e atmosferiche connesse al transito di una tal massa d'uomini attraverso le Alpi nel cuore dell'inverno. D'altra parte, solo a patto di avanzare celermente si poteva sperare di sboccare nella valle del Po prima che il nemico avesse il tempo e il modo di sbarrare i passi alpini: e se tale mossa fosse riuscita, si poteva ben dire che il più era fatto. Nell'aperta Pianura Padana le forti e bellicose legioni del Reno avrebbero fatto valere la propria superiorità sul poco numeroso esercito d'Italia, costituito essenzialmente dalle coorti pretoriane e da quelle urbane. Perché, e qui stava il punto veramente capitale del piano vitelliano, occorreva impedire ad ogni costo che Galba avesse il tempo di ricevere soccorsi dalle legioni del Danubio o da quelle d'Oriente: solo a questo patto si poteva sperare di batterlo rapidamente e impadronirsi di Roma, il che, probabilmente - così almeno si congetturava - avrebbe spento ogni velleità di resistenza sia fra le legioni dei Balcani, che fra quelle di Siria, Palestina ed Egitto. In ogni caso, mentre Cecina e Valente si incaricavano di forzare le porte della Penisola prima che i difensori avessero il tempo di sbarrarle, Vitellio non sarebbe rimasto colle mani in mano, attendendo passivamente di sapere a chi andasse la vittoria. Egli invece si sarebbe dato a radunare un terzo e più formidabile esercito, attingendo principalmente alle coorti ausiliarie e alle tribù amiche dei Celti e dei Germani: esercito ancor più eterogeneo, indisciplinato e barbarico dei primi due, ma tale da gettare il peso decisivo sul piatto della bilancia, qualora Cecina e Valente non fossero venuti a capo della resistenza avversaria nell'Italia settentrionale in tempi brevi. Questo piano di guerra - che, come si vede, nelle sue grandi linee era piuttosto semplice e lineare - presentava parecchi vantaggi collaterali, posto che l'armata vitelliana, per sua stessa natura, non poteva assolutamente lasciare al nemico il vantaggio della prima mossa. In primo luogo, consentiva di assicurarsi, con le buone o con le cattive, la fedeltà di tutte le province transalpine situate sulla via dell'Italia, rimuovendo ogni possibile preoccupazione sul tergo degli eserciti operanti e sulle vie di comunicazione. Secondo, offriva ottime prospettive di un successo decisivo entro poche settimane, al massimo pochi mesi, evitando di mettere le legioni di Germania alle prese con quelle delle province orientali - e dunque con un problema militare di assai difficile soluzione. Terzo, lasciava la condotta della guerra nelle mani di due abili ed energici comandanti, riservando a Vitellio, personalmente incompetente in materia militare, il compito di raccogliere gli allori della vittoria o, nella peggiore delle ipotesi, di apportare il contributo decisivo alla vittoria stessa. Che Cecina e Valente non si amassero né si stimassero, questo non era allora un segreto per nessuno; che fosse opportuno non farli operare a troppo stretto contatto, era politica quantomeno saggia da parte del generalissimo; infine, la duplice avanzata sull'Italia, su due colonne distinte calanti dal nord e dall'ovest, era manovra tale da stimolare la competitività dei due comandanti a tutto vantaggio della rapidità dell'offensiva.

Purtroppo noi non conosciamo bene tutti i particolari del piano vitelliano, e non siamo perciò in grado di dire fino a che punto fosse opera di Vitellio, e fino a che punto dei suoi potenti generali, ai quali andava debitore del potere. Ma poiché, come si disse, era ben nota la scarsa competenza di Vitellio in campo militare, non è molto probabile che il piano ii guerra fosse interamente opera sua. È più probabile che sia Cecina, sia Valente abbiano esercitato pressioni per ottenere il comando di una propria armata, forse colla segreta speranza di precedere ciascuno il rivale, per assicurarsi la palma della vittoria senza bisogno dell'altrui soccorso.

Così, in sui primi di gennaio, dando prova di una rapidità di movimenti veramente notevole, le due prime armate vitelliane si mettevano in movimento lungo direttrici divergenti. La loro avanzata fu così veloce che solo quando erano entrambe in piena avanzata furono raggiunte dalla notizia che il loro avversario non si chiamava più Galba, ma sibbene Salvio Otone.

 

 

5.      CONTRACCOLPO POLITICO A ROMA

 

Gli avvenimenti di Germania, riferiti a Galba dal legato Propinquo, affrettarono a Roma una svolta politica che già da tempo era nell'aria. Non si può certo dire che la rivolta germanica scoppiasse sul cielo d'Italia come un fulmine a ciel sereno: dopo gli episodi di Clodio Macro in Africa e di Fonteio Capitone sul Reno, non erano mancate al regime galbiano le avvisaglie di nuovi focolai d'insoddisfazione. Comunque la notizia del movimento di Vitellio affrettò la decisione dì Galba di scegliersi un collega nell'Impero, decisione da lungo tempo auspicata dall'opinione pubblica e già allo studio da parte del principe e dei suoi collaboratori. L'età avanzata di Galba era una delle cause principali di perplessità da parte dell'opinione pubblica; non però la sola giacché se la nomina di un collega avrebbe costituito il primo passo sulla strada della successione imperiale, molti si attendevano anche una svolta politica dopo la durezza della prima fase del governo galbiano. Queste speranze però, diffuse tra quella che potremmo chiamare l'ala moderata del partito galbiano nonché, naturalmente, fra i suoi segreti oppositori, in primo luogo fra i vecchi amici di Nerone, erano destinate a rimanere totalmente deluse: e questo fu l'errore politico captale di Galba, che lo avrebbe perduto. s;b Noi non sappiamo, purtroppo, in quali termini le notizie della rivolta germanica furono riportate all'imperatore, e se egli fosse in grado di farsi un quadro abbastanza veritiero e realistico della situazione nelle province transalpine. Il fatto che l'imperatore si sforzasse di minimizzare l'entità del movimento vitelliano può spiegarsi ugualmente con ragioni di opportunità politica interna e con una difettosa informazione da parte dello stesso Galba. Da un passo di Tacito sappiamo che le prime nuove della rivolta, spedite a Roma da Pompeo  Propinquo, si riferivano all'insurrezione militare di Magonza del 1° gennaio, quando due legioni della Germania Superiore avevano abbattuto le immagini di Galba e giurato fedeltà al Senato e al popolo romano. I messi partiti dalla Gallia Belgica dovettero giungere a Roma in tre o quattro giorni, tuttavia, data la contemporanea insurrezione della Lugdunense al fianco di Vitellio, è ben difficile che arrivassero da Galba senza raccogliere lungo la strada notizie più precise della situazione lungo il Reno. I fatti salienti, verificatisi nelle due Germanie dopo il F gennaio, erano due: la comparsa di un capo alla testa del movimento, il che aveva subito fatto cadere in oblio l'insincero giuramento di fedeltà al Senato; e la diffusione della rivolta a tutte le legioni del Reno, fino alla Britannia e alla maggior parte della Gallia. Se ciononostante Galba, ancora il 10 gennaio, parlava di due sole legioni in agitazione; -è nemmeno faceva il nome di Vitellio, è più probabile che .ciò dipendesse dal fatto che egli cercava deliberatamente di .contenere la diffusione di notizie deprimenti, piuttosto che cadesse in buona fede in un errore di valutazione. Come si è detto, all'interno del partito galbiano esistevano almeno due raggruppamenti principali: uno moderato, in cui faceva spicco la figura di Otone, ed uno intransigente, Capitanato da uomini di tendenza fortemente conservatrice, come il giovane Pisone. Questo naturalmente era una diretta conseguenza della composizione stessa del movimento galbiano e delle sue origini: regime composito, di compromesso, doveva fatalmente tornare a disgregarsi, dopo la vittoria su  Nerone,  nelle  forze  elementari  che  lo  componevano. Abbiamo visto che la ragione principale di questo dualismo consisteva nel fatto che l'aristocratico Galba, uomo di fiducia i del Senato e deciso restauratore dei privilegi politici di esso, era giunto ad afferrare il potere non tanto colle proprie forze bensì coll'aiuto determinante delle coorti pretoriane, ossia dell'elemento militare italico, privilegiato rispetto a quello provinciale.  Gli interessi politici   del  Senato, però, che perseguiva un proprio disegno di restaurazione, e quelli dei pretoriani, che proprio sotto Nerone e Tigellino avevano goduto di una supremazia incontrastata nella vita pubblica di Roma, erano diversi e in gran parte divergenti, In definitiva, I il paradosso politico di Galba era il seguente: che mentre l'elemento militare italico aveva dato il contributo decisivo alla vittoria del Senato su Nerone, ora quest'ultimo pretendeva di metterlo in disparte per tornare a una situazione politica semi-repubblicana. Galba, politicamente non del tutto sprovveduto, comprendeva almeno in parte tale contraddizione e cercava un compromesso, riconoscendo ai pretoriani un certo diritto a ingerirsi nella cosa pubblica, ma al tempo stesso si preoccupava di salvare  la preponderanza del Senato che doveva tornare ad essere, secondo lui, il cardine della vita .politica. Quando ad esempio ripeteva ad alta voce, rifiutando ai soldati il donativo, che «lui i soldati li comandava, non li comprava» (Svetonio), dava la dimostrazione evidente che la precaria alleanza tra Senato e Pretorio doveva fare fulcro sulle antiche prerogative del primo, non sulle recenti acquisizioni di fatto del secondo. L'assassinio di Ninfidio Sabino, capo dei pretoriani e artefice principale della caduta di Nerone, subito dopo l'arrivo di Galba a Roma, aveva suggellato, ma solo momentaneamente, questa situazione di precario equilibrio: ma era inevitabile che i pretoriani, sino ad ora spettatori più che protagonisti della caduta di Nerone e dell'ascesa di Galba, prendessero coscienza dei propri reali interessi, che il Senato non poteva e non voleva soddisfare.

Quanto ai più intimi collaboratori di Galba, Tito Vinio, Cornelio Lacone e Marciano Icelo, nemmeno tra essi regnava la concordia, ma si rispecchiava la più ampia divisione esistente nel partito galbiano.

Il console Tito Vinio era amico personale di Otone e la voce pubblica sussurrava che volesse addirittura imparentarsi con lui, dandogli in sposa la propria figlia, ed è da presumere quindi che non condividesse le ambizioni di restaurazione senatoria di Galba. Viceversa il nuovo comandante della guardia pretoriana, Lacone, e il liberto Icelo, amante e consigliere intimo dell'imperatore, caldeggiavano la nomina di un collega di Galba che non fosse Otone e finirono per sostenere la candidatura di Pisone Liciniano. Quanto a Salvie Otone personalmente, il suo stato d'animo in quelle giornate tra la fine del 68 e l'inizio del 69 può essere facilmente immaginato. Dopo lo sfortunato Vindice e dopo Ninfidio Sabino, egli era stato il principale sostenitore di Galba nell'estate precedente, così come era stato uno dei primissimi ad aderire al movimento antineroniano. Venuto a Roma dalla Lusitania colla segreta speranza di ereditare il supremo potere dall'ormai anziano imperatore, era rimasto deluso nelle proprie speranze e per di più irritato dalla scarsa riconoscenza che gli aveva dimostrato quest'ultimo. La persona di Salvio Otone del resto, estremamente popolare nella capitale e in specie nell'ambiente militare, essendo quella di maggior spicco nell'ala che abbiamo detto « moderata » (di contro a quella senatoria intransigente), non poteva n