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Arbogaste, Eugenio e la fine del paganesimo

di Francesco Lamendola - 01/10/2007

 

  

 

Tra la morte di Valentiniano II e quella di Teodosio si colloca l'ultimo tentativo di riscossa del paganesimo contro l'alleanza fra cristianesimo e Impero Romano varata da Costantino e portata avanti con inesorabile determinazione dallo stesso Teodosio, che con un editto del 391 era giunto a porre praticamente fuori legge il culto degli dèi, sia praticato in pubblico, sia nelle case private. L'usurpazione di Eugenio, spalleggiato dal generale franco Arbogaste, rappresenta l'estremo tentativo della classe senatoria italica, anzi romana, ancora filo-pagana, per rovesciare i rapporti di forza esistenti e dare battaglia prima di scomparire. La disfatta del Frigido e la morte di uomini come Eugenio, Arbogaste e Nicomaco Flaviano segna la fine cruenta di tale tentativo e dà inizio al predominio incontrastato della religione cristiana in tutto l'Impero, sia d'Oriente che d'Occidente, proprio alla vigilia della sua definitiva lacerazione, avvenuta alla morte di Teodosio nel 395.Con i suoi giovanissimi successori, Arcadio a Costantinopoli e Onorio a Milano (dal 402, a Ravenna )non si tratterà più che di rastrellare e piegare per sempre le ultime resistenze, applicando in tutta la sua severità la legislazione antipagana emanata da Graziano e poi da Teodosio, su pressione della Chiesa cattolica, e particolarmente del vescovo di Milano, Ambrogio.

 

      Il IV secolo dopo Cristo rappresenta una fase decisiva della transizione fra il mondo antico e il mondo medievale e per la genesi dell’Europa moderna. In esso si assiste alla progressiva erosione della cultura pagana, che riceve tuttavia il colpo di grazia da una ben precisa legislazione repressiva pianificata dall’imperatore Teodosio. Non si può quindi sostenere che il paganesimo sia morto di morte naturale: è stato invece assassinato, o quantomeno la sua fine è stata drasticamente affettata, nel quadro di un generale sconvolgimento politico, sociale, economico, religioso e perfino etnico (le  migrazioni dei popoli, meglio note in ambito latino come “invasioni barbariche”).

      Il paganesimo, d’altra parte, non è mai stato un mondo unitario: sotto questa arbitraria denominazione si raggruppano tendenze e aspirazioni fra loro diversissime, specie nel contesto della società mediterranea tardo-antica ove predominavano le religioni di salvezza a sfondo monoteistico (di Mithra, di Cibele, di Osiride, dello stesso Sole Invincibile). Un grande storico ha scritto che il mondo romano, se non fosse divenuto cristiano, sarebbe divenuto mitraista, e il mitraismo presenta più analogie con lo stesso cristianesimo che con i culti “classici” di Grecia e di Roma. Questa sola riflessione dà un’idea di quanto il paganesimo tardo-antico fosse mutato rispetto al paganesimo classico e quanto il terreno dello scontro pagano-cristiano ricordi più un conflitto interno a culture affini (come accadde poi con la Riforma protestante) che non fra culture radicalmente alternative.

Appare evidente, pertanto, l’analogia fra la situazione del IV secolo e quella odierna, ove si tende – da parte di alcuni – a presentare come uno “scontro di civiltà” il conflitto tra Islam e Occidente: dimenticando che né l’Islam è “Oriente”, ma per mille ragioni, anch’esso, Occidente;  né esiste un’unica categoria di “Occidente”, ma piuttosto una realtà estremamente variegata, ove ad esempio lo spiritualismo dalle antiche radici cristiane (e persino pre-cristiane, ad esempio platoniche), ha poco o nulla da spartire  con il rozzo materialismo, l’utilitarismo esasperato, lo scientismo e la super-tecnologia elevati al rango di nuovo credo religioso. Lo studio di quanto accadde nel IV secolo  può divenire, allora, un’occasione per ripensare un certo tipo di cammino che l’Occidente ha imboccato chiamandolo pomposamente “evoluzione” o addirittura “progresso”, mentre è stato piuttosto un allontanamento dalle proprie radici e un estraniamento dalla propria identità spirituale.

 

SOMMARIO.

 

I. Politica religiosa di Teodosio in Occidente.

II. Politica religiosa di Valentiniano II dopo la partenza di Teodosio.

III Grave dissidio fra Valentiniano II e il generale Arbogaste.

IV. Morte di Valentiniano II.

V. La posizione di Arbogaste.

VI. Usurpazione di Eugenio in Gallia.

VII. Reazione di Teodosio.

VIII. Atteggiamento conciliante di Eugenio.

IX. Il partito pagano inItalia.

X. Ultima ripresa del paganesimo a Roma.

XI. Ondeggiante politica di Eugenio.

XII. Violenta persecuzione antipagana in Oriente.

XIII. Preparativi bellici di Teodosio.

XIV. Avanzata dell'esercito orientale verso l'Italia.

XV.Discesa di Eugenio e Arbogaste a Milano e loro preparativi militari.

XVI. La battaglia del Frigidus: prima fase.

XVII. La battaglia del Frigidus: seconda fase. Morte di Eugenio e Arbogaste.

XVIII. Ingresso di Teodosio vittorioso a Milano e sua morte improvvisa.

 

 

I.

      Sia dal punto di vista economico-sociale che da quello culturale-religioso, negli ultimi due-tre decenni del IV secolo le province occidentali transalpine, e particolarmente la Gallia, si erano affermate come il cardine del sistema imperiale nella sua pars occidentalis, benchè di nome l'unità dell'Impero fosse tuttora riconosciuta da tutti. Ebbene proprio in Gallia, dove buona parte della popolazione era rimasta pagana e dove maggiormente numerosi erano i contingenti barbarici dell'esercito, pagani od ariani, un profondo malcontento covava sordamente contro la politica religiosa inaugurata da Graziano, accentuata da Teodosio e ripresa, dopo la sua partenza dall'Italia, dal giovane Valentiniano II.

      Teodosio si era trattenuto in Italia fino alla primavera del 391, risiedendo a Milano, ove un poco alla volta era caduto sotto l'influenza del vescovo di quella città, Ambrogio, specie dopo che questi lo aveva costretto a una pubblica penitenza per la strage di Tessalonica. A partire da quel momento Teodosio aveva imboccato con decisione, irreversibilmente, la strada della lotta a oltranza contro il paganesimo, dalla quale si era fino ad allora astenuto. In occasione della sua visita a Roma del 389, l'imperatore aveva compiuto alcuni passi per riavvicinarsi all'aristocrazia senatoria rimasta pagana, dando prova di una certa tolleranza verso l'antica religione dell'urbe. La sua liberalità giunse ad affidare l'incarico di consoli, per l'anno 391, a due pagani, uno dei quali era il celebre Simmaco; non aveva però osato accogliere una nuova richiesta del Senato, di restaurare l'Altare e la statua della Vittoria nell'aula della curia.

      Ma ora che aumentava l'ascendente di Ambrogio su di lui, gradatamente egli tornava sui suoi passi, e riprendeva a dar mano all'ultima fase della distruzione della religione pagana. Il 24 febbraio 391 Teodosio promulgò una costituzione, che vietava esplicitamente i sacrifici pagani e ordinava la chiusura degli antichi templi. Fu questo il primo atto ufficiale con cui un imperatore pagano bandiva totalmente l'esercizio degli antichi culti e rendeva, di fatto, il cristianesimo la sola religione legale dello stato.

      In Egitto era scoppiato, ad Alessandria, un ennesimo tumulto fra pagani e cristiani, originato dal tentativo del vescovo Teofilo, che aveva per altro chiesto e ottenuto l'autorizzazione di Teodosio, di trasformare in chiesa un tempio di Dioniso. I pagani, sotto la guida del filosofo Olimpio, avevano allora occupato il famoso tempio di Serapide, respingendo con vigore gli attacchi dei cristiani e facendo delle sortite nelle strade vicine. Quando l'imperatore fu informato dai suoi ministri di quanto stava accadendo, ordinò addirittura la distruzione di tutti i templi dell'Egitto. I pagani sgomenti si dispersero, ma buona parte della popolazione di Alessandria, sia pagana che cristiana, aspettava con trepidazione lo scatenarsi della collera degli dei offesi, e specialmente di Serapide. Si temeva, per lo più senza avere il coraggio di confessarlo ad alta voce, che il Nilo avrebbe cessato di fecondare la terra e che qualche tremendo cataclisma avrebbe punito l'empietà degli uomini, che avevano rinnegato quelle divinità alla cui protezione si affidavano da tanti secoli.

      Ma quando la statua di Serapide venne ignominiosamente abbattuta e, dal suo interno, si precipitò fuori soltanto uno stuolo di topi spaventati, anche gli ultimi timori (e le ultime speranze) svanirono definitivamente e molti pagani, abbandonati a sé stessi, finirono per convertirsi anch'essi al cristianesimo.

 

II.

      Partito Teodosio dall'Italia dopo una permanenza di tre anni (era rientraro a Costantinopoli il 10 novembre del 391), Valentiniano si ritrovò teoricamente padrone dell'intero Occidente. Il potere esercitato su di lui da Ambrogio era fortissimo; sul vescovo l'inesperto imperatore faceva un sempre maggiore affidamento, tanto più che il suo ritorno all'ortodossia cattolica (dopo la parentesi filo-ariana) era stato sincero e profondamente sentito. L'austerità di Valentiniano era paragonabile a quella dell'apostata Giuliano: il giovane sovrano nel fiore degli anni digiunava quando gli altri banchettavano, evitava la compagnia delle belle donne quando intorno a lui la corsa al piacere diveniva sfrenata. La sua affabilità e gentilezza di maniere, la sua umanità e clemenza eguagliavano quelle di Teodosio, e non erano oscurate dagli improvvisi e feroci scoppi di collera che gettavano un'ombra sul carattere dell'Augusto di Costantinopoli.

      Ma Valentiniano non possedeva né la preparazione culturale e la generosa combattività di Giuliano, né l'energia e l'esperienza che in Teodosio si accompagnavano alla pia devozione. Egli possedeva la forza di privarsi dei divertimenti del circo, non però quella di svolgere una politica religiosa tollerante nei confronti dei vinti avversari.

      Nel 392, dopo la partenza di Teodosio dall'Italia, il Senato romano fece un quarto ed ultimo tentativo per ottenere dalla corte il ristabilimento dell'Altare della Vittoria nella sala della curia. Anche questa volta il concistoro imperiale fece buona accoglienza alla richiesta, accogliendola anzi all'unanimità, benchè non pochi senatori fossero di religione cristiana; e anche questa volta Valentiniano si lasciò sfuggire l'occasione per mostrare una generosa comprensione verso i vinti che, ormai, non potevano costituire una minaccia per il trionfante cristianesimo. Senza dubbio su consiglio di Ambrogio, l'imperatore respinse la supplica, affermando che la riverenza dovuta all'Onnipotente era in lui più forte del sentimento di amore verso la città di Roma.

 

III.

      Questa decisione non fece che esasperare lo scontento dei pagani e di vasti ambienti dell'esercito, e più di tutti quello dell'orgoglioso magister militum Arbogaste, il potentissimo generale che Teodosio, partendo, gli aveva posto al fianco.

Arbogaste aveva sperato, all'inizio, di poter indurre il giovane sovrano ad una politica più conciliante verso l'elemento pagano, dopo il durissimo colpo da esso ricevuto con l'editto di Teodosio del 391. Si accorgeva, invece, che se Valentiniano non possedeva personalmente la tempra necessaria per reggere le redini dello stato, nemmeno voleva cederle a lui, che era il miglior generale dell'Occidente e, forse, di tutto l'impero; un barbaro sinceramente affezionato alla sua nuova patria d'elezione e desideroso di salvarla a qualunque costo dall'abisso spalancato, verso cui la vedeva correre inesorabilmente. Preferiva cederle, quelle redini, ad Ambrogio, a un vescovo intollerante  che anteponeva, che aveva sempre anteposto gli interessi della sua Chiesa invisibile a quelli della patria terrena, e che più gravi danni aveva recati a quest'ultima con la connivenza o l'arrendevolezza dei piissimi sovrani verso di lui.

     Da quel momento le relazioni fra l'imperatore giovinetto e il ministro onnipotente divennero tese, sempre più palesemente ostili. Valentiniano si sentiva, e di fatto era, prigioniero del suo generale nel palazzo di Vienne, sul Rodano, ove si era recato per amministrare personalmente le Gallie. Arbogaste, conscio del proprio valore e dei propri meriti, sdegnato e contrariato per l'indirizzo apertamente anti-pagano ispirato alla politica imperiale da Ambrogio, sempre più si sentiva sciolto da ogni vincolo di obbedienza al suo sovrano.

       Nel 389, mentre Teodosio visitava Roma dopo aver sconfitto l'usurpatore Massimo, Arbogaste nelle Gallie aveva dovuto fronteggiare una gravissima minaccia, quando i Franchi Ripuari avevano attraversato il Reno e invaso le province dalla riva sinistra. E allora lui, il franco Arbogaste, era accorso a tamponare la falla drammaticamente aperta, a lottare strenuamente contro i propri fratelli di razza, sinchè era riuscito a respingerli al di là del limes.Con tale imprea si era confermato come il miglior generale che l'Impero avesse in quel momento, e lo stesso Teodosio, il fanatico imperatore cristiano della pars orientalis, non aveva esitato a servirsene ampiamente. Anzi il principale artefice dello strepitoso successo riportato sull'esercito di Magno Massimo, il conquistatore di Aquileia era stato proprio lui, il "barbaro" Arbogaste.

      Il quale, da parte sua, pur professando devozione e rispetto per la patria romana, sotto le cui bandiere ora serviva, non aveva mai voluto convertirsi al cristianesimo, né rinunciare, come tanti altri facevao, al suo nome barbarico. E questo benchè Arbogaste servisse negli eserciti di Roma fin dai tempi di Graziano, e fosse stato agli ordini di tre diversi imperatori, tutti accomunati dallo zelo religioso cristiano. Ma egli non ne aveva mai ricercato il favore con l'adulazione; al contrario, la grande autorità di cui godeva fra le truppe gli derivava appunto dal carattere fiero e coraggioso, dalla perizia militare e dallo sprezzo delle ricchezze.

 

IV.

      La situazione precipitò nella primavera del 392. Un giorno Arbogaste si era recato presso il trono di Valentiniano per conferire con lui, e questi decise di non indugiare oltre e incautamente gli mise in mano la lettera annunziante il suo licenziamento. Il magister militum, dopo averla letta, affermò sprezzantemente che non era in potere dell'imperatore toglierli una autorità che non era stato lui a dargli; quindi la fece a pezzi e se ne andò senza aggiungere altro. Valentiniano, sdegnato e soffocato dall'ira e dall'umiliazione, cercò di estrarre dal fodero la spada di una delle guardie, e a stento potè essere trattenuto dal compiere un gesto irreparabile.  Ma ormai tutti avevano assistito alla scena, e lo scandalo di corte divenne di pubblico dominio.

      Il giovane sovrano sempre più aveva l'impressione d'essere un recluso nel proprio stesso palazzo, in balìa d'un generale barbaro orgoglioso e arrogante che aveva osato disprezzare apertamente la sua "divina" autorità. Scrisse a Teodosio, chiedendo aiuto per la difficile situazione in cui versava; mandò a chiamare Ambrogio, chiedendogli di affrettarsi  quanto prima dall'Italia verso Vienne. Diceva di voler ricevere il battesimo, poiché era ancora soltanto catecumeno, ma probabilmente era un aiuto di tipo un po' diverso quello che sperava dal suo fido consigliere spirituale.  Due giorni dopo aver mandato un ufficiale silenziario alla volta di Milano, già chiedeva se il vescovo stesse arrivando: tale doveva essere lo stato di angoscia in cui si trovava quel giovane delicato e gentile.

      Il 15 maggio 392 Valentiniano fu trovato morto nella sua stanza. Il suo corpo pendeva da una fune legata al soffitto, il capo reclinato in avanti.

 

V.

      Arbogaste sostenne che si trattava di suicidio. Nessuno credette a una simile versione, che contrastava con tutto quanto si sapeva del carattere e della religiosità del sovrano. Mai e poi mai il piissimo sovrano si sarebbe macchiato di un tale delitto verso sé stesso e verso il proprio creatore: un delitto che la Chiesa cattolica, allora come oggi, condannava come uno dei più gravi peccati che l'uomo possa commettere. Non lo credettero le sue amate sorelle, Giusta e Grata, in Italia; non lo credette il vescovo di Milano; non lo credette Teodosio e tanto meno sua moglie Galla, l'altra sorella dell'estinto, che ben lo conosceva; non lo credettero, infine, con tutta probabilità, i soldati e i provinciali della Gallia, che erano stati lungamente spettatori, per così dire, del'aspro dissidio fra Valentiniano e il suo generale.

       Per questa ragione Arbogaste non osò assumere la porpora, della quale pure non si sentiva indegno; sapeva di poter contare ciecamente sulle truppe e su ampi settori della società gallica, soprattutto fra i pagani, ma aborriva dall'idea di presentarsi ai provinciali, agl'Italici e soprattutto all' imperatore d'Oriente, nelle odiose vesti di assassino del legittimo sovrano e di ambizioso usurpatore. Ma vi era anche un'altra ragione, non meno vera e profonda, che lo indusse a non assumere il diadema insanguinato, e cioè che i tempi non erano ancora maturi perché un Germano sedesse sul trono di Roma. Non lo sarebbero mai stati. Il mondo tardo antico aveva assistito a tutta una successione di sovrani provinciali e perfino semi-barbari, dall'africano Settimio Severo al  trace Massimino all'arabo Filippo; e il figlio di Marco Aurelio, Commodo (180-192) sembra essere stato l'ultimo dei Cesari a poter vantare un'ascendenza sicuramente italica: ma quel mondo non avrebbe mai potuto adattarsi all'idea, o piuttosto all'insulto, di un imperatore di stirpe germanica.

      Sarà il destino, dopo Arbogaste, di Stilicone e di Ricimero; l'uno vittima di questa mentalità, l'altro, reso ormai scaltro dall'esperienza, saprà aggirare l'ostacolo contentandosi di fare e disfare imperatori "romani" a proprio arbitrio e tenendo, in raltà, ben srette nelle proprie mani le redini del potere.

 

VI.

      Arbogaste esitò per tre mesi. Per tutto questo tempo egli mantenne, si direbbe, una posizione d'attesa, evitando ogni gesto clamoroso, qualsiasi pretesto che potesse offrire a Teodosio l'occasione di intervenire. Non tentò alcuna mossa contro l'Italia, ove Ambrogio era occupato a spiegare alle pie sorelle del pio imperatore, come certamente l'anima di Valentiniano, benchè egli ancora non avesse ricevuto il battesimo, fosse salita direttamente al cospetto dell'Altissimo.

       Per tre mesi Arbogaste evitò di prendere per sé la porpora, né volle darla ad altri. Forse, si trovò realmente preso alla sprovvista, comunque si considerino le sue responsabilità nella morte dell'imperatore, e non aveva avuto il tempo di studiare una linea d'azione prima che gli eventi precipitassero. È anche possibile, d'altra parte, che a bella posta il magister militum dell'Occidente simulasse moderazione e una calma studiata, oppure che volesse rendere più credibile, prolungando artificialmente l'attesa, l'avvento al potere del proprio candidato.

      Finalmente, il 23 agosto 392, Arbogaste si decise a trarre dall’oscurità una figura di secondo piano, quella del rètore Flavio Eugenio, e lo proclamò Augusto dell’Occidente. Chi era questo Eugenio, e perché la scelta del generale franco cadde proprio su di lui?

      Flavio Eugenio era un letterato, un uomo di grande cultura, che aveva insegnato grammatica latina a Roma; frequentando l’ambiente di corte, era giunto ad occupare la carica di magister di uno degli scrinia, una carica amministrativa non certo fra le più importanti. Pare che fosse stato preso sotto la protezione di Flavio Ricomere, zio di Arbogaste, il quale aveva ricoperto la carica di comes domesticorum sotto Graziano (377-78), e poi quella, assai importante, di comes et magister utriusque militiae in Oriente, sotto Teodosio (388-93). Ricomere  aveva presentato Eugenio a suo nipote, e quegli, dopo la morte di Valentiniano, dovette considerare con favore le molte doti di lui, la vastità della cultura, l’affabilità dei modi e la tolleranza del carattere. Eugenio, infatti, era un cristiano la cui fede poteva essere biasimata coi nomi della freddezza e dell’indifferenza o superficialità, oppure elogiata coi nomi della apertura e della disponibilità, oggi si direbbe, al dialogo interreligioso. Certo è che, dal punto di vista religioso, la scelta di questo personaggio quale imperatore dell’Occidente può bene essere stata il frutto di un calcolo felice: infatti egli poteva essere ugualmente bene accetto all’elemento pagano, già d’altronde rassicurato dal personale atteggiamento di Arbogaste, come a quello cristiano moderato.

      D’altra parte, il fatto che il magister militum avesse elevato ad Augusto un uomo nel complesso oscuro, privo di un proprio partito ben definito e non proveniente dall’ambiente militare, può indicare semplicemente la decisione di Arbogaste di scegliersi un docile strumento, un uomo di paglia in nome del quale esercitare saldamente il potere: proprio come avrebbe fatto, più e più volte, il germano Ricimero poco più di sessant’anni dopo.

 

VII.

      Dopo aver tentato o simulato qualche resistenza, Eugenio si lasciò persuadere a indossare la porpora e il diadema, e per prima cosa inviò un’ambasceria a Costantinopoli, sollecitando il proprio riconoscimento da parte di Teodosio. Parve a tutti che, per la seconda volta nel breve giro di nove anni, il sovrano d’Oriente ricevesse le profferte di amicizia e la richiesta di un riconoscimento al supremo potere dalle stesse mani che ancora grondavano del sangue di un figlio di Valentiniano I, al primo dei quali (Graziano) egli era debitore del trono. Ma anche questa volta, come già nei confronti dell’ambasceria di Magno Massimo, Teodosio il Grande mantenne un contegno piuttosto ambiguo, evitando una aperta rottura con l’usurpatore dell’Occidente.

      Gli inviati di Eugenio ricevettero ricchi doni ma furono rimandati con una risposta poco chiara, mentre il sovrano della Nuova Roma cercava, proprio come aveva fatto nel 383, di guadagnare tempo. Ma se è lecito dubitare che nove anni prima Teodosio avesse, fin dall’inizio, preso la decisione di vendicare Graziano, questa volta le lacrime della bella moglie Galla e l’ambizione di assicurare il trono di Occidente al piccolo Onòrio (suo secondogenito) dovettero esercitare un peso decisivo fin dal momento in cui egli ricevette la notizia della morte di Valentiniano II. Non si sentiva tuttavia pronto per una guerra immediata; la posta era troppo alta per giustificare qualsiasi affrettata imprudenza. Egli conosceva bene Arbogaste, il vincitore di Aquileia; sapeva di avere contro di sé il più grande generale dell’Impero, dietro il quale stavano la strenua fedeltà delle legioni galliche e delle truppe germaniche, e il profondo rancore delle province occidentali contro la Chiesa e contro l’Oriente.

      Lo scontro fra lui ed Eugenio, che sarebbe poi, per forza di cose, diventato uno scontro fra Oriente e Occidente, non consentiva debolezze e non lasciava spazio a una tregua o un accordo. Sarebbe stata una vera lotta per la vita, con la necessaria, totale rovina di una delle due parti: come era stata fra Costantino e Massenzio, o tra Costantino e Licinio, oppure ancora tra Costanzo II e Magnenzio. Questa volta, però, essa era d’importanza tale che nulla poteva essere trascurato, nulla lasciato al caso: occorreva prepararsi per la grande lotta cercando di accumulare una superiorità decisiva, tale da garantire, o quasi, l’esito dello scontro; da ridurre al massimo la percentuale d’incertezza e di rischio. Non solo il futuro trono di Onòrio era in pericolo, né solo l’onore personale di Teodosio; erano in gioco addirittura i destini del cristianesimo in Occidente, e questo non poteva sfuggire neanche a una riflessione affrettata.

 

VIII.

      Anche dopo l’invio dell’ambasceria a Teodosio, Eugenio adottò una politica moderata e conciliante nei confronti del potente sovrano d’Oriente. Così come il suo ambasciatore non aveva mai pronunciato il nome di Arbogaste davanti a Teodosio, così ora egli continuava a perseguire una politica amichevole verso il sovrano di Costantinopoli.

      Era consuetudine che un imperatore assumesse il consolato l’anno successivo a quello della propria elevazione al trono, e così Eugenio nominò consoli per il 393 sé stesso e Teodosio. Era una mano tesa e, nello stesso tempo, una esplicita richiesta di riconoscimento; ma Teodosio si accingeva ormai a gettare la maschera e, a sua volta, si autonominò consul designatus per il 393, scegliendosi quale collega l’orientale Abundanzio. Era, senza dubbio, un chiaro gesto di ostilità: Eugenio lo comprese e cercò, almeno, di giungere a una sorta di accordo con Ambrogio, il potentissimo vescovo milanese, per non doversi guardare anche le spalle, nell’imminenza del conflitto aperto. Neanche questo gli riuscì; il suo cristianesimo era troppo tiepido per il battagliero vescovo, al quale inoltre dispiacevano, come a tutti i cristiani intransigenti, le sue simpatie per il partito pagano e perfino la corta barba da filosofo greco che ricordava spiacevolmente, in Eugenio, quella ostentata dall’imperatore apostata Giuliano (la barba “da filosofo” identificava specialmente i neoplatonici e, in genere, quanti serbavano fedeltà alle antiche divinità). Ma una cosa, soprattutto, Ambrogio non poteva perdonare  all’usurpatore dell’Occidente: il fatto di aver ricevuto, e accettato, il potere dalle mani di colui che la voce pubblica concordemente indicava come l’assassino del pio Valentiniano.

      Quanto più vedeva frustrati e respinti i suoi tentativi di accordo con Teodosio e con l’episcopato occidentale, tanto più Eugenio si vedeva inesorabilmente sospinto verso la fazione più agguerrita del partito pagano, che da tempo covava il desiderio di riscossa contro la politica religiosa degli ultimi Valentiniani e dello stesso Teodosio, e che fatti come quelli di Alessandria avevano ancor più esasperato.

 

 

IX.

      L’Italia, infatti, si era fin dall’inizio schierata dalla parte di Eugenio, benché questi non si fosse mosso dalla Gallia, e le speranze che il pronunciamento dell’usurpatore infusero nelle file non ancor del tutto disorganizzate del partito filo-pagano, diedero vita a quella che gli storici hanno chiamato la riscossa e quasi la rinascita degli antichi culti pagani alla fine del IV secolo, proprio alla vigilia della loro disfatta definitiva.

      L’anima della resistenza pagana a Roma e in Italia non era più Quinto Aurelio Simmaco. Il vecchio oratore si era largamente compromesso al tempo dell’invasione di Magno Massimo, salutando l’usurpatore come un possibile restauratore dell’antica religione (e ciò, fra l’altro, dimostra come elementi diversissimi avessero concorso alla momentanea fortuna del movimento di Massimo, sostenuto anche dal partito filo-cattolico in funzione anti-ariana). Dopo la resa di Aquileia, il vittorioso Teodosio aveva dimostrato una generosità degna di Cesare o di Marco Aurelio, perdonando all’incauto Simmaco e, anzi, designandolo addirittura console per il 391, mentre quale collega orientale gli affiancava il pagano Taziano. La stessa generosità Teodosio aveva dimostrato verso quanti si erano compromessi col partito di Massimo, sperando principalmente in una riscossa pagana.

      Quando però Eugenio ripetè, in Gallia, l’usurpazione di Massimo, Simmaco non aveva preso aperta posizione a suo favore e aveva preferito restarsene in disparte, anche quando era apparso evidente il desiderio di Eugenio di conciliarsi il partito pagano. La direzione di quest’ultimo in Italia era passata allora a Virio Nicomaco Flaviano, Praefectus Praetorio Italiae, uomo di grande prestigio e coraggio personale, che subito si pronunciò a favore di Eugenio.

      Nel giugno del 391 proprio il pagano Flaviano aveva ricevuto da Teodosio l’ordine di applicare una legge rigorosa contro i cristiani apostati, il che naturalmente era sembrato una beffa e anche peggio, quasi una deliberata e odiosa provocazione. Probabilmente non era niente di tutto questo; tali erano le contraddizioni della politica religiosa dell’Impero, in quello scorcio del IV secolo che vedeva l’ascesa graduale ma inarrestabile del cristianesimo e gli ultimi sussulti di un paganesimo ormai quasi morente.

 

X.

      Fu il Senato di Roma a fare il primo approccio verso Eugenio, inviandogli una nuova petizione (era ormai la quinta in dieci anni) per il ristabilimento dell’Altare della Vittoria. Eugenio apparve dapprima riluttante a compiere un gesto che lo avrebbe reso inviso a molti cristiani e gli avrebbe tolto ogni speranza di accordo con il vescovo di Milano, che era stato il più tenace oppositore di quella iniziativa, al tempo di Simmaco e degli imperatori Graziano e Valentiniano II. In un primo momento, pertanto, aveva rifiutato: troppo grande era ormai divenuto il valore simbolico legato a una eventuale restaurazione dell’ara.

      Ma ben presto egli comprese che una tale politica, preoccupata soprattutto di non tagliarsi nessun ponte dietro le spalle, avrebbe finito per lasciarlo solo e senza amici, e tornò sulla propria decisione, permettendo infine che l’Altare venisse ricollocato nell’aula del Senato, per la prima volta da quando il pio Graziano l’aveva fatto rimuovere nell’ormai lontano 382. Grande fu l’entusiasmo del partito pagano per quel gesto: parve ad esso che la nefasta, intollerabile preponderanza del cristianesimo fosse finita per sempre, e che forse un nuovo Giuliano fosse giunto per vendicare il culto degli dèi offesi.

      Flaviano proclamò la sospensione per tre mesi dei pubblici affari allo scopo di purificare l’Urbe e rimise in onore tutte le festività, ormai abbandonate, del calendario pagano. Per l’ultima volta nella storia, le vie di Roma furono percorse dai cortei festanti e dalle processioni in onore di Iside e della Magna Mater, di Giove, di Saturno, di Ecate, di Mitra, del Sole, di Serapide e di Cerere. Tutta l’anima pagana dell’Italia e della capitale si rizzava in piedi, e la religione dell’Olimpo si trovò frammischiata a quelle importate dall’Oriente - dall’Asia Minore, dalla Siria, dall’Egitto e dalla Persia - in un estremo e patetico fulgore di vita.

      Ma Eugenio osò spingersi anche oltre. Restituire i sussidi ai collegi sacerdotali e alle vergini vestali non poteva e non voleva: una rottura definitiva e irreparabile con i cristiani era un passo estremo che non intendeva compiere. Ma trovò ugualmente il modo di aggirare l’ostacolo: i beni in questione vennero restituiti non ai collegi sacerdotali in quanto tali, bensì alle più eminenti famiglie pagane di dignità senatoria; le quali, naturalmente, erano libere di devolverle agli antichi possessori. Infine, Eugenio si risolse ad abolire qualsiasi limitazione all’esercizio dei culti pagani, annullando tutte le precedenti, severissime leggi promulgate da Teodosio l’anno precedente.

      Il paganesimo non voleva morire inerme, non volle lasciarsi condurre come un capretto mansueto al macello. Gli avvenimenti, dalla vittoria di Costantino al Ponte Milvio fino ai giorni presenti, avevano dimostrato a sufficienza che il cristianesimo non si sarebbe accontentato di una posizione di assoluto privilegio rispetto agli altri culti: egli considerava ogni altra religione come una manifestazione di Satana e metodicamente, implacabilmente aveva proceduto alla loro graduale soppressione. La scomparsa di Valentiniano II e l’usurpazione di Eugenio e Arbogaste sembrarono aprire uno squarcio di speranza nell’oscuro orizzonte, verso il quale stancamente e, si direbbe, quasi rassegnati, gli ultimi seguaci del paganesimo si stavano avviando. La storia ha dimostrato che nessun sistema politico, culturale o religioso si lascia soffocare senza compiere un ultimo sforzo per risollevarsi, magari dopo una lunga, ma solo apparente, rassegnazione. I pagani di Roma e dell’Italia, mentre tripudiavano per il momentaneo successo, si stavano in realtà dibattendo negli ultimi sussulti dell’agonia, quasi presaghi della fine imminente.

 

XI.

      Eugenio non aveva inteso, con tali provvedimenti favorevoli ai pagani, rimettersi interamente nelle mani del partito pagano intransigente e affrontare con ciò le conseguenze di una rottura completa col cristianesimo. Aveva piuttosto voluto cercar di ristabilire una sorta di tolleranza, che lasciasse completa libertà di culto tanto ai cristiani che ai pagani; avrebbe voluto, probabilmente, ritornare alla politica equidistante e illuminata di Valentiniano I, piuttosto che al tentativo di restaurazione pagana di Giuliano.

      Come Valentiniano I, anch’egli era cristiano; ma non era un fanatico; e oltre a ciò, considerazioni di natura prettamente politica lo sospingevano verso l’alleanza col partito pagano. Che una tale politica fosse ormai, nell’Impero Romano del 392, una mera utopia; che nessun equilibrio fosse più possibile fra due partiti escludentisi reciprocamente, nessun ritorno al passato: questo doveva esser chiaro a chiunque fosse dotato di un minimo di lungimiranza politica. È assai probabile che lo stesso Eugenio se ne rendesse perfettamente conto, ma egli stesso era prigioniero ormai degli avvenimenti e si lasciava trascinare dalla loro forza irresistibile.

      È questa la nota malinconica, che rende un po’ patetica la figura di quest’uomo colto e intelligente, scaraventato da un destino imprevedibile in un’avventura senza ritorno. Da più di mezzo secolo il cristianesimo s’era abituato a una posizione di assoluto predominio, perfino di tutela sulla stessa sovranità imperiale; si era arrogato il diritto di bollare come blasfemi e demoniaci i culti delle antiche religioni, e implacabilmente li aveva perseguitati e dispersi. Mai avrebbe tollerato di vedersi così, da un giorno all’altro, scalzato da una tale posizione di forza; mai si sarebbe lasciato ricondurre al rango di una religione fra altre religioni ammesse dallo Stato, e posto sullo stesso piano del culto dei dèmoni! Né era difficile intuire, spingendo un po’ oltre lo sguardo, dove la china della nuova politica religiosa inaugurata da Eugenio avrebbe fatalmente finito per condurre.

      Quanto più le prospettive di un accordo con l’imperatore d’Oriente svanivano, tanto più si faceva probabile l’imminenza di uno scontro aperto. In tale prospettiva, entrambi i partiti, il pagano e il cristiano, tendevano a irrigidire le rispettive posizioni, a mettere in disparte le voci moderate. Dunque era facile prevedere che Eugenio e Arbogaste, se vincitori, difficilmente sarebbero stati in grado di non lasciarsi trasportare dall’onda della reazione pagana, e rinnovare la politica di un Giuliano, se non addirittura di un Diocleziano. Questo, almeno, temevano gli ambienti cristiani più intransigenti, e questo andavano sussurrando.

 

XII.

      Tali timori serpeggiavano fra i cristiani d’Occidente e, indirettamente, anche d’Oriente; questo comprese Teodosio il Grande: la sua risposta non poteva esser dubbia, e infatti non tardò a venire.

      Mentre in Gallia e in Italia il partito pagano festeggiava la sua ultima ed effimera vittoria, a Costantinopoli l’imperatore si risolse a infliggere il colpo mortale all’antica religione, pubblicando una nuova legge contro i suoi culti: la più severa, la più categorica di tutte (8 novembre del 392). In base ad essa non solo veniva mantenuto il divieto di immolare vittime o di entrare nei templi; veniva anche fatta proibizione assoluta di celebrare qualsiasi sacrificio, anche incruento, anche nelle case private; di bruciare incenso, di accendere lampade, di appendere ghirlande; di venerare perfino le antichissime, miti divinità domestiche, i Lari e i Penati. Per chi avesse trasgredito queste leggi, sacrificando agli dèi nella propria abitazione; per chi, astutamente, avesse scelto quale luogo per celebrare gli antichi culti, un edificio pubblico o la casa di un’altra persona, era prevista una multa di venti libbre d’oro. Per stroncare alla radice l’empia superstizione dei dèmoni, poi, Teodosio non esitava a incoraggiare, favorire e anzi prescrivere la delazione come necessario complemento dell’azione repressiva dello stato; a far suoi, cioè, proprio quegli strumenti di governo che avevano bollato nei secoli, con un marchio d’infamia, la memoria di Tiberio, di Nerone, dello stesso Costantino.

      Al defensor plebis e ai consigli municipali era fatto obbligo di segnalare rigorosamente le trasgressioni alla legge, di cui fossero venuti a conoscenza, e di comunicarli ai governatori provinciali; e a questi ultimi era fatto obbligo di perseguire implacabilmente i denunziati, pena una multa di trenta libbre d’oro e la perdita dell’ufficio. Così, gettando la società romana in uno stato di latente guerra civile, promuovendo la conflittualità permanente fra classi sociali e gruppi religiosi, dando valore legale alle denunce indiscriminate, dietro le quali, come sempre, sarebbe stato sin troppo facile mascherare interessi e rancori privati, Teodosio il Grande assestava il colpo di grazia al morente paganesimo nell’Impero d’Oriente. Estendere il trionfo della vera fede negli stati del defunto Valentiniano sarebbe stato null’altro che una pia crociata, un naturale corollario, e a questo sempre più intensamente egli dedicò le sue energie.

 

XIII.

      Alla settima pietra miliare dal centro di Costantinopoli, lungo la strada che correva verso occidente in un paesaggio incantato, lungo lo scintillante Mar di Marmara, vi era un quartiere chiamato Hebdomon, luogo delle cerimonie ufficiali della corte orientale. Costantino il Grande vi aveva eretto una chiesa dedicata a San Giovanni Evangelista, e lo stesso Teodosio ne aveva costruito un’altra dedicata a Giovanni Battista.

   Lì, il 23 gennaio dell’anno 393, circondati da una folla festante, Teodosio solennemente conferì il titolo di Augusto al figlio Onòrio, che non aveva ancora otto anni e mezzo, e dichiarò Eugenio usurpatore, significando a chiare note che l’Impero dell’occidente sarebbe dovuto andare al suo figlio minore. La guerra divenne imminente ed entrambe le parti vi si prepararono freneticamente.

      Ancora una volta l’esercito che Teodosio raccolse per marciare contro l’Occidente era composto in gran parte da una moltitudine variopinta di barbari germani e sciti. Vi era un poderoso contingente di Goti – più di 20.000, afferma lo storico goto Jordanes – e tra loro spiccavano i nomi dei futuri protagonisti della storia d’Europa: il giovane Alarico (che aveva ventitre anni, essendo nato nel 370), il futuro re dei Visigoti e primo barbaro che avrebbe preso e saccheggiato Roma; e Gainas, che avrebbe percorso tutta la carriera militare nell’esercito romano e che avrebbe, a sua volta, travagliato l’Impero d’Oriente, come Alarico quello d’Occidente. Vi era il barbaro Saul, al comando del contingente degli Alani; vi era addirittura il re dell’Iberia (la regione posta a cavaliere tra le attuali Georgia ed Armenia), che era stato prima dux della Palestina, indi comes domesticorum. Né  mancava, naturalmente, il braccio destro dell’imperatore, il marito della prediletta nipote Serena, Silicone, di stirpe vandala; egli non rivestiva il comando supremo della futura spedizione, ma era di gran lunga il più capace e fidato dei suoi luogotenenti. Il comando supremo fu invece affidato, a quanto pare, a un romano, Flavio Timasio, già ufficiale sotto l’imperatore Valente. Fra i nomi di spicco, l’unico assente era quello del comes et magister utriusque militiae, il franco Ricomere, zio di Arbogaste, che era morto improvvisamente nello stesso 393, quando Teodosio stava per affidargli il comando della cavalleria.

 

XIV.

      Dopo ormai due anni di preparativi bellici, nella primavera del 394 la spedizione era ormai pronta e l’esercito orientale stava per mettersi in movimento, quando Galla morì di parto insieme al bambino e lasciò Teodosio vedovo per la seconda volta. La sua scomparsa improvvisa valse a ritardare di qualche mese la partenza dell’esercito, perché l’imperatore, dopo averla pianta per molti giorni, affranto dal dolore rinviò le operazioni primaverili. Ma infine si riprese e mosse verso occidente con l’esercito: era già piena estate quando ricalcò il cammino già fatto sei anni prima per affrontare Magno Massimo. A Costantinopoli aveva lasciato il potere nominale nelle mani dell’Augusto Arcadio e quello effettivo in quelle del prefetto del pretorio, Flavio Rufino, un gallo nativo di Elusa che era stato magister officiorum dal 388 al 392, e che ultimamente aveva eliminato tutti i possibili rivali nell’entourage dell’imperatore. Onorio, per il momento, non seguì il padre nella spedizione d’Italia; fu lasciato indietro con la sorellastra Galla Placidia, e affidato alle cure di Serena: avrebbe raggiunto Teodosio solo quando le operazioni militari fossero state concluse.

      Eugenio, da parte sua, non era rimasto inattivo. Dopo la proclamazione di Onorio ad Augusto, nel gennaio del 393, era sceso in Italia, dove aveva rafforzato la sua alleanza col partito pagano capeggiato da Flaviano e da suo figlio Nicomaco Flaviano il giovane, divenuto praefectus urbi.  Conscio dell’avvicinarsi del supremo cimento, il partito pagano serrò le sue file e il matrimonio fra il giovane Flaviano e una figlia di Quinto Aurelio Simmaco parve suggellare un patto di solidarietà tra i diversi elementi del’aristocrazia tradizionalista di Roma.

      Ambrogio, invece, non volle attendere l'arrivo degli assassini di Valentiniano e lasciò Milano, vagando per l'Italia in un breve ma glorioso esilio, che gli apologisti cristiani si affrettarono ad adornare di svariati prodigi e guarigioni miracolose.

 

XV.

      L'esercito che Eugenio e Arbogaste avevano condotto in Italia era composto per la m