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Arrivano i bambini-logo

di Marco Grollo* - 02/10/2007

   



 

Sulla Metropolitana di Bruxelles, di ritorno da un incontro del Media Literacy Expert Group della Commissione Europea (di pochi giorni fa, venerdì 28/09), entra e si siede una giovane donna con due bambini piccoli, che ridono e giocano. Li osservo divertito, ma dopo poco la mia espressione cambia. Il più piccolo dei due, che avrà non più di tre anni, ha un taglio di capelli cortissimo in cui è ben visibile, come decorazione (occupa un quarto della superficie dei capelli) il logo della Nike.

La madre, o il parrucchiere, o magari il bambino stesso, ha avuto l'idea di farsi disegnare sulla testa un marchio, trasformando una parte del corpo (evidentemente non bastano più i capi di abbigliamento) in messaggio pubblicitario. In quel bambino c'è, visibile, la tendenza inesorabile della pubblicità, e dunque del consumo, di invadere ogni spazio vitale, fino ad imprimersi nella fisicità, dopo aver colonizzato il nostro spazio mentale.

Dopo una giornata trascorsa a discutere, con esperti di mezza Europa, di strategie della Media Education, di tutela dei minori, di infanzia digitale e di promozione del pensiero critico, vedere materializzarsi davanti ai propri occhi un bambino-logo, è un vero colpo.

Quello che facciamo, o meglio tentiamo di fare, con la Media Education, è davvero una goccia nel mare. Talmente potenti sono i messaggi e i modelli dei media. Eppure il bimbo-nike è anche una sfida. Un richiamo alla necessità e all'urgenza di puntare sull'alfabetizzazione ai media, e rivolta anche agli adulti. Proprio in questo periodo stanno partendo i progetti di Megachip di Media Education in Friuli, Veneto, Lombardia, Toscana e nelle Marche. Altre regioni seguiranno nei prossimi mesi. A giorni su questo sito compariranno nuovi materiali e proposte culturali, non solo per la scuola.

C'è bisogno di diffonderli, di promuovere attività e percorsi di educazione critica, di moltiplicare gli sforzi. Perché il contesto in cui abitiamo, nelle società industrializzate, è un contesto sempre più potentemente pubblicitario. E propone il consumo come valore base, al di sopra e prima di ogni altro.

A questo proposito vengono alla mente i molti esempi concreti contenuti nel volume “Il potere del consumo” (di Vanni Codeluppi, 2001, Bollati e Boringhieri editore) riferiti agli dagli Stati Uniti, con i quali viene descritta l'invasione degli spazi pubblicitari di ogni spazio, compresi quelli pubblici (scuole, ospedali) e gli effetti sociali e psicologici di tale invasione. Anche in Europa, a distanza di pochi anni, sta avanzando questa tendenza. Basta pensare ai nomi dei bambini. Faceva allibire il fatto che, sempre negli Stati Uniti, secondo una ricerca di una Università americana riportata da un noto articolo di Zucconi, nel 2002 oltre 600 bambine erano state chiamate con il nome proprio “Fanta”, circa 200 bambini invece si chiamavano “Ferrari”, oltre 400 “Lexus”, e così via, di marca in marca. Invece il fatto che quest'anno la figlia di Totti si chiami Chanel (meno male che le hanno risparmiato il numero, ma ci penseranno i suoi coetanei non appena potranno) non pare abbia suscitato molte discussioni. Dunque marchiare un bambino con il nome di un prodotto, farne un veicolo permanente di pubblicità – sogno perfino insperato di ogni impresa – è diventato socialmente accettabile. Questo deve far riflettere.

Può essere l'avvio di un esercito di bambini-logo.

Ricordo a questo proposito che la legge italiana vieta di dare ai bambini nomi dispregiativi. E' la sola limitazione: un nome lo si può anche inventare, ma non si può dare ad un individuo un nome che può causargli direttamente un danno. Sulla base di questo significato, che giustifica la norma, potrebbe essere interessante una iniziativa legislativa (anche a livello Europeo) che vieti di dare ad un bambino il nome di un prodotto.

In questo modo, qualsiasi sia il grado di sanità mentale di un genitore, e qualsiasi sia il suo livello di dipendenza affettiva dalla pubblicità, e ai prodotti che essa propone, non rischieremo di avere bambini che sono inconsapevoli veicoli di messaggi di consumo. Bambini la cui personalità potrebbe essere condizionata dai significati che il loro stesso nome, in quanto marca, rappresenta.

Perché questa, per dirla chiaramente, è una sottile e profonda forma di violenza.

Qualsiasi altro suggerimento o commento in merito, sarà più che gradito, e per questo chiunque lo ritiene ci scriva all'indirizzo scuolaeformazione@megachip.info

*Responsabile Settore Scuola e Formazione
Segreteria Nazionale Megachip