Il nuovo luogo comune della «sindrome Nimby»
di F.C. - 20/12/2005
Fonte: Il Manifesto
La «sindrome Nimby» E' il nuovo luogo comune di chi giudica gli ecologisti capaci solo di «dire no». Senza neppure più entrare nel meritoRiccardo Viale è un valente economista dell'ambiente, collaboratore anche di questo giornale, ma nei giorni scorsi un suo scritto ci ha fatto sobbalzare: «Ambientalismo. Se gli ecologisti dicono solo no. I movimenti `verdi' oggi sono in crisi dopo decenni di successi Oggi predomina la sindrome Nimby». Così il titolo nel Diario di Repubblica del giorno 13 dicembre. Ma per fortuna il testo diceva tutt'altro e precisamente che «l'ecologia è e non può che essere una proposta organica, ancorché flessibile nel tempo e articolata a livello locale, di riconversione alla sostenibilità (..). Non una politica dei No, facile bersaglio degli incompetenti columnist dell'ultima ora, per i quali la deplorazione della cosiddetta sindrome Nimby (non nel mio cortile) è un alibi per non entrare nel merito e non studiare le ragioni delle opere che sponsorizzano». E ancora: «i veri promotori della politica dei No sono le multinazionali, le associazioni imprenditoriali, gli organismi multilaterali come il Wto e la Banca Mondiale e i governi che le assecondano: No alle clausole sociali (libertà sindacale nelle dittature mete privilegiate dei loro investimenti, tutela dell'infanzia dal lavoro minorile, sicurezza sui luoghi di lavoro) e ambientali (protezione delle foreste, dei fiumi, degli estuari, della biodiversità); No alla pianificazione urbanistica, all'edilizia popolare, alla negoziazione sociale; No alle valutazioni (vere) di impatto ambientale (via), alla carbon tax, alla penalizzazione delle emissioni inquinanti; No alla tariffazione degli accessi in città, alla pedonalizzazione delle aree di pregio, alla produzione di veicoli economici e sicuri. E via bloccando».
Più chiaro di così (salvo che per il malizioso titolista del quotidiano), ma anche un'ottima occasione per riflettere una volta ancora al rapporto tra naturale e artificiale che è sempre una dicotomia falsa, in rete, nell'agricoltura, persino nello sport.
Il consiglio intanto è di rileggere un romanzo pubblicato a suo tempo da Adelphi. Si intitola «Il Monte Analogo» ed è un racconto, scritto in maniera meravigliosamente squinternata da René Daumal nel 1948, e dedicato a un monte che esiste, ma che nessuno mai raggiunge. Capita anche che un tribunale delle guide di Monte Analogo processi e condanni un alpinista perché aveva ucciso un vecchio topo malandato. Non certo un gran danno per l'ambiente, si direbbe, ma quel topo si nutriva di una specie di vespe autoctona, ed essendo poco agile riusciva a catturare solo quelle deboli e malate. In questo modo distruggeva le vespe portatrici di tare ereditarie. Tuttavia, morto il topo, queste malattie si propagarono rapidamente e la primavera seguente non c'erano quasi più vespe in tutta la regione. Queste vespe, succhiando i fiori, assicuravano la loro fecondazione, ma senza di loro anche le piante che consolidavano il terreno dalle piogge scomparvero. Ne derivarono frane, smottamenti di fango, un vero disastro naturale. E tutto per un vecchio topo ucciso.
Dunque il bello e il difficile dell'ecologia sta nella catena di eventi e di dipendenze che fanno un habitat, spesso difficili quanto essenziali da decifrare. Ma importanti da capire quando sulla natura si mette mano - una cosa che sempre facciamo, da quando siamo sul pianeta.
Nel piccolo questa è anche la riflessione che sorgeva ieri mattina vedendo una gara di bouldering all'Ecole Verticale di Roma. Il bouldering è l'arte, ma anche lo stile di vita, di chi si muove con muscoli, agilità e delicatezze sui massi di cui l'era glaciale ha disseminato i boschi del mondo, a Fontainbleau come nelle nostre valli alpine. Ma per farlo tutti i giorni, non si scandalizzino i puristi, si può andare nelle palestre cittadine dove dei muri mobili vengono tapezzati di appigli e appoggi, ogni volta diversi, creando delle «vie» di cui l'arrampicatore dovrà scoprire la chiave e la soluzione, un tipico «problem solving». Quando poi un tracciato artificiale di tal fatta sarà stato superato («chiuso» dicono gli iniziati), si potrà sempre migliorare perché con pochi giri di manovella la parete della palestra da verticale diventerà uno strapiombo.
Tutto ciò è molto artificiale (finti gli appigli, morbidi i materassi sul pavimento) e sembra avere pochissimi rapporti con l'arrampicata classica sulla dolomia o sul granito del Bianco. Meno che mai con le vie di ghiaccio e roccia, magari molto più facili tecnicamente, ma così impegnative quanto a conoscenza dell'ambiente montano. Il bouldering ieri sera è stato anche protagonista di un filmfestival (www.romaboulderingfilmfestival.it), altra espressione di cultura artificiale, se si vuole. Ma era una narrazione ben diversa dalla prosa epica e insopportabile dei nazi-alpinisti che andavano su per la nord dell'Eiger nel nome di Hitler. E anche da quella assai retorica di Italia K2, che abbiamo appena finito di festeggiare un anno fa come vanto nazionale. Va a finire che risulta più sano e giocoso chi si spalma le mani di magnesite sugli appigli falsi che chi sale al Monviso ancora in calzoni alla zuava e fiasco di vino (e ampolla per l'acqua del Po).