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Ogni uomo è un viandante con la doppia cittadinanza

di Francesco Lamendola - 03/10/2007

 

 

 

 

Fin da quando viene al mondo, ogni essere umano si trova a vivere contemporaneamente su due distinti piani di realtà: quello del relativo e quello dell'assoluto. È possibile che molti di noi non se ne rendano neppure conto e che ad altri, pur avendo passato una intera vita fra i libri delle più diverse specializzazioni, sia semplicemente sfuggito un simile "dettaglio", dal quale dipende - né più né meno - la nostra possibilità di essere delle persone realizzate e, forse, felici. Ma questa è una legge che vale per tutti gli esseri umani, buoni e cattivi, sapienti e ignoranti: l'unica cosa che li differenzia è il grado di consapevolezza che possiedono nei confronti di essa.

Si tratta di una legge paradossale. In sintesi, e per andare dritti all'essenziale della questione, ciascun essere umano è al tempo stesso cittadino di questo mondo e cittadino, o aspirante cittadino, o potenziale cittadino, dell'altro mondo: dell'assoluto, dell'eterno, della dimora dell'Essere. Una condizione paradossale, che fa dell'uomo una creatura anfibia: con branchie per respirare nell'acqua dello stagno terrestre, ma anche con polmoni, o almeno con embrioni di polmoni, atti respirare l'aria libera del cielo sopra la terra. Con i piedi piantati quaggiù, ma con la nostalgia delle altezze nello sguardo.

Essere consapevoli della nostra natura anfibia e della nostra destinazione finale è, dicevamo, l'elemento che fa la differenza tra vita autentica e vita inautentica, tra felicità e infelicità. Quest'ultima affermazione può suonare particolarmente impegnativa, per non dire oscura. Qualcuno potrebbe chiedere: che c'entra la felicità con la consapevolezza della doppia cittadinanza? Non è vero, al contrario - anche ammettendo le premesse - che si vive una vita più felice quanto più si ignorano le laceranti contraddizioni che l'attraversano? E non abbiamo appena detto che la doppia cittadinanza dell'essere umano lo pone in una condizione paradossale?

Ma facciamo un passo alla volta. Secondo Aristotele, ogni attività umana è fatta in vista di un fine che appare buono e desiderabile, per cui il fine e il bene coincidono. Le attività umane hanno fini molteplici, ma con un comune denominatore: che tutte - alcune direttamente, altre indirettamente - tendono al bene. Per esempio si desidera la ricchezza non come bene in sé, ma come mezzo di benessere; mentre il piacere è desiderato in sé stesso. Dunque ciascun bene parziale non è che una via per raggiungere il bene sommo: l'unico, cioè, che non viene ricercato in vista di un bene ulteriore, ma che, al contrario, è il termine ultimo di ogni nostro desiderio. Per Aristotele, il bene sommo è la felicità, che consiste nella realizzazione della natura propria dell'essere umano. E la natura propria dell'essere umano è vivere la propria vita secondo ragione: così come la natura propria della pianta è la vita vegetativa e la natura propria dell'animale è quella sensitiva. Ciascuno è felice realizzando al meglio la propria natura: l'artigiano lo è costruendo oggetti perfetti; l'architetto, realizzando edifici belli e solidi; l'uomo, in generale, è felice se vive secondo ragione, che è l'elemento caratteristico della sua natura. Se vi riesce, egli realizza la virtù: perché la virtù è l'accordo della vita umana con la natura razionale che ne è l'essenza specifica.

Più precisamente, esistono diversi gradi di virtù e quindi diversi gradi di felicità: la felicità più alta consiste nel conseguimento della virtù più alta, che è il possesso delle virtù dianoetiche (o intellettive), che sono quelle, appunto, proprie dell'anima razionale: scienza, arte, saggezza, intelligenza, sapienza. Per limitarci alla saggezza e alla sapienza (che per Platone coincidevano), per Aristotele la saggezza è la capacità, guidata dalla ragione, di fare un uso idoneo dei beni umani; mentre la sapienza è la capacità di avere scienza e intelligenza delle cose più alte e divine, dunque concerne ciò che è extra-umano, universale. Nell'Etica Nicomachea, infatti (X, 7, 1177 b), egli   afferma che

 

"L'uomo non deve, come alcuni dicono, conoscere in quanto uomo  le cose umane, in quanto mortale  le cose mortali, ma deve rendersi, per quanto è possibile, immortale e far di tutto per vivere secondo quanto c'è in lui di più alto: se pure ciò è poco di quantità, per potenza e valore supera tutte le altre cose."

 

Ora possiamo tornare al discorso della doppia cittadinanza.

L'essere umano, la persona, unico tra gli altri esseri viventi, non ha una natura data una volta per tutte, come  lo sono la natura vegetativa per la pianta e quella sensitiva per l'animale; egli può andare oltre i suoi stessi limiti fisici e puntare alle potenzialità più alte della sua anima, realizzando la virtù nel possesso della sapienza. Oppure può anche non farlo né darsene pensiero: e può limitarsi a vivacchiare al di sotto, anche molto al di sotto, delle sue potenzialità spirituali, e trascinando un'esistenza simile a quella del bruto. Ma se farà quest'ultima scelta, tradirà la sua natura: diciamo meglio: tradirà le possibilità più alte della sua natura; dunque, tradirà il suo fine. L'uomo soltanto, infatti, possiede - propriamente parlando - un fine; gli altri esseri hanno una natura pre-definita, e la loro esistenza coincide con la loro essenza, senza residui. Un cipresso è un cipresso e una tigre è una tigre: nel momento in cui il seme di cipresso si schiude e il cucciolo di tigre esce dal grembo materno, la loro natura è realizzata. Anche il loro fine è realizzato, se vogliamo parlare di fini; ma ci sembra che il concetto di fine implichi quello di movimento dello spirito, pertanto di scelta e, prima ancora, di libertà.

Per essere tigre, la tigre non deve compiere alcun movimento interiore; mentre l'uomo, per essere tale, deve compiere un movimento ben preciso: deve trascendere la sua anima vegetativa e sensitiva e deve proiettarsi verso la vita razionale, ossia verso la virtù. La tigre non può essere virtuosa o viziosa (e nemmeno il cipresso); l'uomo sì: perché l'uomo ha la facoltà di scegliere quello che vuole essere. Deve, cioè, scegliersi: e, per scegliersi, deve prima riconoscersi. Un animale o una pianta non si devono riconoscere, perché sono quello che sono e non potrebbero essere diversamente da quello che sono. L'uomo può essere virtuoso, realizzando le sue più alte potenzialità razionali e spirituali; e, sforzandosi di esserlo sempre più, finirà per trascendere - parzialmente - la sua stessa natura. Diverrà simile a un Dio. Il santo, l'asceta sono già cittadini dell'altro mondo, mentre il loro corpo è ancora quaggiù. Ma, pur essendo quaggiù, il loro stesso corpo comincia a emanciparsi dalla tirannia della materia: può vivere indefinitamente senza mangiare; può sospendere indefinitamente il respiro e il battito cardiaco; può lievitare nell'aria, senza peso; può essere presente contemporaneamente in luoghi diversi (mediante la separazione del corpo astrale); può conoscere il passato e il futuro; può leggere nel cuore e nella mente degli altri esseri umani; può ammansire le bestie feroci emanando onde di benevolenza, al punto che orsi e pantere vengono ad accucciarsi ai suoi piedi come cani e gatti assolutamente pacifici.

Certo, sono casi rari, eccezionali; ma esistono. Si farebbe male a leggere le vite dei santi, specialmente del Medioevo, partendo dal pregiudizio che certi miracoli sono divenuti tali solo grazie alla credulità dei contemporanei. No, quei fenomeni sono possibili: centinaia di persone potevano vedere san Giuseppe da Copertino quando, assorto in preghiera, si alzava letteralmente da terra. San Giovanni Bosco poteva far fiorire un giardino in pieno inverno, e Sant'Antonio da Padova celebrare messa in un luogo diverso da quello in cui gli altri frati lo vedevano perfettamente. Anche fuori della cultura cristiana si registrano tali fenomeni: nell'induismo, nel buddismo, nelle culture mesoamericane, fra i popoli di religione sciamanica dell'Asia centro-settentrionale, dell'Africa, dell'Oceania. Vi sono poi dei teologi, sulla scia di Rudolf Bultmann, il "demitizzatore", e, più recentemente, di Hans Küng, il "razionalista", che propongono di spogliare il Nuovo Testamento del miracoloso. Certo, lo si può fare. Si può benissimo pensare che Gesù non camminasse veramente sulle acque, né che potesse sfamare cinquemila persone con pochi pani e qualche pesce. Ma il fatto è che tali fenomeni esistono: li abbiamo visti, anche nell'incredula modernità. In India, ancor oggi, sono quasi comuni: e lo erano anche in Occidente, prima dell'avvento del paradigma scientista del XVII secolo, che ha appannato la nostra capacità di vedere e di giudicare serenamente. Oggi siamo ostacolati da un pregiudizio materialistico, per cui non vogliamo vedere neanche quel che abbiamo sotto gli occhi, se smentisce i dogmi dello scientismo imperante; ci vergogniamo, abbiamo paura di fare una figura ridicola, ci lasciamo ricattare dal terrorismo ideologico degli zelanti poliziotti dell'Inquisizione scientista. La nostra timidezza li ha resi sempre più baldanzosi, sempre più petulanti, sempre più aggressivi.

 

Se siamo cittadini di due mondi, vuol dire che dobbiamo essere in grado di riconoscere la nostra patria vera e di formulare una gerarchia di priorità, nella nostra vita, che sia conforme a tale riconoscimento. Vuol dire anche che dobbiamo giungere a un modus vivendi con la nostra patria seconda, tale da permetterci di vivere una vita piena e soddisfacente, che non veda sacrificato nulla di ciò che, nella nostra natura, è essenziale, ma anzi che lo potenzi quanto più è possibile. Infatti, una legge fondamentale della filosofia - e anche della vita - ci indica chiaramente che il superiore comprende l'inferiore, e che il più perfetto comprende il meno perfetto. Pertanto, riconoscere la nostra vera patria nella dimora dell'Essere, che non è quaggiù, non significa relegarsi, in questa vita, nella condizione di esuli in patria; e neanche permettere che qualcuno abbia il diritto di accusarci di diserzione dai doveri di questo mondo, come facevano i pagani del tardo Impero Romano con i cristiani che, agostinianamente, aspiravano al reintegro nella Città di Dio. Si può essere buoni cittadini di questo mondo, pur riconoscendo la nostra vera paria in quell'altro mondo; si può vivere armoniosamente quaggiù, pur sentendo fortissimo il richiamo delle altezze.

È chiaro che, in pratica, vi saranno momenti di oscurità e di contraddizione, nei quali il nostro doppio ruolo sembrerà entrare in conflitto con se stesso. Pure, forse ciò avviene non tanto per la presa di coscienza, franca e leale, della nostra doppia cittadinanza, ma, al contrario, per il tentativo che sovente facciamo - a volte conscio, a volte inconscio - di negare tale condizione esistenziale, cioè di negare la nostra stessa natura. La nostra natura, lo abbiamo detto, non è data e non è univoca: dobbiamo, in un certo senso, realizzarla da noi stessi - oppure no. Negare questa possibilità, questo rischio, questo aut-aut è la causa principale delle disarmonie, delle contraddizioni e delle sofferenze che caratterizzano la nostra vita. Riconoscerlo, al contrario, è un potente fattore di unificazione, di composizione delle antinomie, di raggiungimento del nostro  equilibrio spirituale.

Per essere ancora più chiari: se noi riconosciamo chiaramente che la nostra vera patria è l'Essere, e che verso di esso dobbiamo metterci in cammino come fa il viandante sulle strade polverose, allora e solo allora riusciremo a cogliere, gustare e godere tutte quelle piccole-grandi cose dell'esistenza ordinaria, la cui somma costituisce quello che, nel nostro linguaggio approssimativo di ogni giorno, generalmente chiamiamo la felicità. Per fare un esempio: solo chi ha compreso che la montagna è una scala verso il cielo, può stupirsi e commuoversi fino alle lacrime davanti allo spettacolo di un piccolo fiore che schiude i suoi petali nel sole del mattino. Chi vede nella montagna solo una massa di rocce e minerali, o un trampolino verso il successo e la gloria agonistica, non saprà vedere la bellezza e non saprà godere delle piccole cose; al contrario, sarà portato a deturpare la bellezza (con rifiuti, chiodi piantati nelle pareti, flora e fauna turbate e spaventate) e attraverserà le alte e terse regioni del silenzio, dell'armonia, della contemplazione, circondato da un alone plumbeo di passioni negative: ambizione, orgoglio, avidità, narcisismo.

Il vero realismo è l'utopia; il modo migliore per essere felici è ammettere francamente la nostra indigenza, la nostra povertà. E alzare gli occhi verso le cime donde scaturiscono quelle sorgenti che possono spegnere la nostra sete, calmare la nostra inquietudine, riaprire i nostri occhi allo stupore e i nostri cuori alla gratitudine.