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E se Lara e Jurij Zivago avessero avuto il telefonino?

di Francesco Lamendola - 03/10/2007

 

 

Chi non ricorda quella scena del film Il dottor Živago in cui i due amanti, Jurj Živago e Larissa Antipova, separati da anni di vicende drammatiche e oscure, si sfiorano e sembrano sul punto di ritrovarsi, ricevendo infine - a dispetto di tutto e di tutti - il premio di tante amarezze e sofferenze? Lui (interpretato dall'attore Omar Sharif), che ha ripreso la sua professione di medico nella Mosca del regime staliniano, viaggia sul tram elettrico; lei (l'attrice Julie Christie), venuta in città a cercare sua figlia, smarrita in Mongolia nelle tragiche vicende della guerra civile, cammina con passo deciso lungo il marciapiede, sfiorando il muro grigio di una fabbrica. Nonostante gli anni trascorsi, le pene e la solitudine, è sempre una donna bellissima; lui, invece, è visibilmente invecchiato e il suo cuore malato pompa il sangue con fatica sempre maggiore; ma, nello sguardo limpido e sognante, è rimasto il poeta irriducibile che lotta per l'ideale e per la bellezza, in una realtà tetra e soffocante. Seduto al suo posto, la vede d'improvviso dal finestrino, vicinissima: il tram rallenta in vista della fermata e, per qualche metro, lei procede col suo passo spedito affiancata alla vettura. Ma il finestrino è chiuso e resiste agli sforzi di Jurij, che si è alzato di scatto; egli batte sul vetro, ma lei non sente; allora si alza e cerca di raggiungere l'uscita, proprio mentre il tram si ferma e le portiere automatiche si aprono: ma la folla a bordo è troppo fitta, non si apre, nessuno gli cede il passo. Disperato, Jurij vede le portiere richiudersi, accompagnate dallo scampanellio che avvisa i viaggiatori della partenza; e il tram si rimette inesorabilmente in movimento.

Ormai in preda a un'agitazione incontenibile, e sentendo già il muscolo cardiaco sobbalzare pericolosamente,  l'uomo si riavvicina al finestrino e vede ancora Lara affiancata dalla vettura, poi nuovamente superata; e, di nuovo, fallisce nel tentativo di richiamare la sua attenzione. Che tragica ironia! Essersi ritrovati vicinissimi, così per caso, nell'immensa Unione Sovietico, dopo anni di totale separazione, e non riuscire a superare quell'ultimo metro che ancora li divide… Ma ecco che il tram, finalmente, si arresta alla fermata successiva; Lara sta appena passando; con uno sforzo supremo, già colpito dai primi sintomi dell'infarto, Jurij riesce ad aprirsi un varco e a scendere. Si guarda intorno: Lara lo ha appena sorpassato, dritta e veloce, sempre senza vederlo; sono appena pochi passi, non è troppo tardi. Lui accenna ad affrettarsi per raggiungerla, allunga il braccio, può quasi toccarla: vorrebbe gridare, ma la voce non gli esce… E una nuova fitta al cuore, più forte, irreparabile, lo blocca: con il braccio ancora proteso in aria, cade a terra. È morto. Una piccola folla si raccoglie immediatamente intorno al suo corpo; solo Lara, che si allontana velocemente, non s'è accorta di nulla… Saprà dai giornali della sua morte e si recherà al suo funerale, ma ormai troppo tardi… Troppo tardi!

 

Ebbene: che cosa sarebbe successo, si chiede il filosofo Maurizio Ferraris (nel suo libro Dove sei? Ontologia del telefonino, Milano, Bompiani, 2005), se Lara e Živago avessero avuto il telefonino? Domanda un po' irritante e quasi irriverente, risposta scontata - peraltro Ferraris non vi indugia - i due amanti si sarebbero ritrovati, Jurij non sarebbe morto (a meno, diciamo noi, che non gli fosse venuto comunque l'infarto per la felicità: son cose che capitano). Conclusione, scontata anch'essa: che bella cosa, avere sempre in tasca un telefonino cellulare ben carico e acceso ventiquattr'ore su ventiquattro! Vedete se non è vero che un telefonino può cambiarvi la vita, in meglio, si capisce? Sembra quasi uno spot pubblicitario; e Ferraris, infatti, inserisce nel suo libro addirittura un fotogramma del film di David Lean, immortalando proprio l'istante in cui il dottore, a bordo del tram, vede - ahimé non visto a sua volta - la sua adorata Lara che se ne viene bella bella lungo il marciapiedi, a non più d'un metro di distanza…

Naturalmente nel contesto del libro, che ha circa 350 pagine, quello di Lara e Živago è un semplice episodio, che permette all'autore di aprire una finestra per ragionare sugli orizzonti  possibili che la tecnologia della telefonia mobile sta aprendo nelle nostre vite. La tesi centrale di Ferraris è un'altra: che il telefonino cellulare, in misura crescente, sta divenendo un mezzo di scrittura più che di comunicazione orale; che sta assommando innumerevoli funzioni, comprese quelle del computer, per cui entro pochi anni contribuirà in misura decisiva alla definizione del mondo degli oggetti sociali, mediante le sue immense capacità di registrare dati; mondo intermedio fra quello degli oggetti fisici (le cose materiali) e il mondo degli oggetti ideali (i teoremi della matematica, ecc.). Tuttavia, senza voler fare torto all'insieme del libro, le cui tesi non intendiamo discutere in questa sede, ci piace soffermarci sulla domanda: «Cosa sarebbe accaduto se i due amanti avessero avuto un telefonino (anzi, due telefonini: uno per ciascuno), in quella data circostanza, o magari anche prima?»; perché raccogliere le sfide e le provocazioni è sempre un modo filosoficamente interessante di confrontarsi con l'alterità e di scuotersi dal pericolo di mummificarsi nelle proprie solipsistiche certezze.

Ma diamo brevemente la parola allo stesso Ferraris che, se non risponde alla domanda, in compenso delinea velocemente  una teoria estetica, oltre che ontologica, relativa all'impatto del telefonino nell'arte del romanzo e in quella del cinema, nonché nelle nostre anonime vite quotidiane (op. cit., p. 53):

 

"Ecco, con il telefonino cambia anche il verosimile; si crea, per così dire, un noveau roman, e questo appare particolarmente interessante perché viene a toccare non solo il mondo reale, quello che più o meno conosciamo e che c'è, ma anche i mondi possibili, quelli che definiscono la necessità logica. Non sarebbe la prima volta. La comunicazione a distanza tra gli spiriti era stata la fantasia di un veggente settecentesco, Emmanuel Swedenborg, severamente censurato da Kant. Già semplicemente il telegrafo aveva reso praticabile questa fantasia: poi è venuto il telefono e la cosa è diventata banale. Fino a che il telefono è rimasto fisso, tuttavia, la faccenda non ha inciso molto sulla nostra immaginazione romanzesca. Certo, lo ricordavo prima, Proust ha scritto pagine profetiche sul telefono, quando cercava Albertine e non la trovava (figuriamoci se Albertine avesse avuto un telefonino: non l'avrebbe lasciata in pace un momento). Però, era o appunto episodi. Adesso tutto è cambiato, e l'immaginazione narrativa deve fare i conti con questa circostanza. Albertine è scomparsa. Dov'è il problema? Uno squillo sul telefonino e la trovi, sempre che la perfida non lo abbia spento."

 

Non soffermiamoci sulla disinvolta rapidità con cui viene liquidato il "veggente" Swedenborg, severamente censurato da Kant; anzi, il "veggente" settecentesco Emmanuel Swedenborg: per Kant basta il cognome e non occorre indicare il secolo, tanto è famoso e autorevole; mentre il povero Swedenborg, chi lo conosce? Forse più persone di quel che Ferraris non creda; e, forse, a molte di esse poco importano le banalità scientiste che Kant ha pronunciato su di lui. I fatti rimangono, e la descrizione dell'incendio che aveva bruciato i quartieri di Stoccolma fino a pochi metri dalla sua casa, ma senza raggiungerla, mentre lui si trovava Londra, è uno di quei (molti)  fatti. Così come è un fatto che Swedenborg è stato anche uno scienziato, un filosofo, un mistico; cosa, quest'ultima, un po' diversa da semplice veggente; ma non importa.

Torniamo al dunque e domandiamoci: sarebbe cambiata la vita di Lara, sarebbe cambiata la vita di Albertine se avessero avuto il telefonino? Sarebbe cambiato, inoltre, l'immaginario romanzesco del pubblico? Alla seconda domanda, non si può rispondere che in modo affermativo: si tratta, peraltro, di una classica tautologia, come chiedersi se sarebbe cambiato qualcosa qualora noi avessimo modificato i termini di un dato problema. Vorremmo vedere come si potrebbe rispondere di no. Alla prima domanda, proveremo a dare una risposta più articolata. E lasciamo perdere Albertine: il caso è diverso, perché lei aveva qualche cosa da nascondere e quindi, sicuramente, non avrebbe desiderato essere reperibile alle telefonate del suo geloso amante. Certo non avrebbe potuto appartarsi nei bagni pubblici con la piccola lavandaia, per abbandonarsi al vizio di Gomorra, con il telefonino acceso e la spada di Damocle di una telefonata in arrivo. E poi, dev'essere già acrobatico fare all'amore non su un comodo letto, ma negli spogliatoi dei bagni pubblici, sia pure lasciando una congrua marcia alla sorvegliante; figuriamoci tenere il telefonino a portata di mano.

Ma Larissa Antipova! Lei non aveva assolutamente nulla da nascondere a Jurij, anzi, una sua telefonata l'avrebbe fatta salire al settimo cielo, l'avrebbe resa pazza di gioia… Bene, a dispetto di quel che ne avrebbero pensato i personaggi di Palombella rossa (citato da Ferraris), osiamo azzardare l'ipotesi - certamente controrivoluzionaria o, quantomeno, oscurantista e antimoderna - che noi stiamo sopravvalutando l'importanza del telefonino nella sostanza delle nostre vite. Non nella forma, si badi: può darsi che davvero, entro qualche anno, non potremo neanche sognarci di uscire di casa senza il telefonino (e saranno davvero tempi grami per chi, come noi, non ne possiede nemmeno uno!), perché esso sarà diventato carta d'identità, libretto informatico di operazioni bancarie, cartella delle tasse, carta di credito, scheda elettorale e chissà cos'altro; insomma, non potremo più nemmeno andare al gabinetto senza essere scortati, e sorvegliati, dal nostro bravo Grande Fratello in versione tascabile. Ma nella sostanza della nostra vita (se ci sarà ancora una sostanza: del resto, è una parola sospetta: ricorda un po' troppo il concetto di anima, retaggio dei "secoli bui"), per piacere…

Se l'avere o non avere il telefonino sarà capace di cambiare radicalmente la sostanza delle nostre vite, allora vorrà proprio dire che quella sostanza non ci sarà più per davvero. E non ci si venga a dire che, in vaso di grave incidente autostradale, avere o non avere il telefonino può fare la differenza tra il vivere e il morire. Perché questo è senz'altro vero, ma il vivere e il morire hanno a che fare con la sostanza della vita? A noi sembra di no: è proprio questo l'equivoco, e il conseguente ricatto, che ha dato un tale strapotere ai Signori della medicina. Loro ci salvano la vita a colpi di autoambulanza o di elicottero, ci tagliano la gamba prima che la cancrena si diffonda, e così ci salvano la vita! Giusto: ma questo non favorisce alcun ripensamento sulle ragioni per le quali l'uomo ha bisogno di un certo tipo di medicina anziché di un altro; su come dovrebbe essere il rapporto salute-medicina; su come dovremmo tutelare la nostra salute in modo preventivo. È come dire che la polizia ci può salvare, magari in extremis, dai proiettili dei criminali: vero; ma questo significa che dobbiamo adorare le rivoltelle? Una rivoltella è sempre una rivoltella: non c'è quella buona e quella cattiva. Una medicina arrogante e invasiva, con licenza di uccidere per salvare altre vite, è sempre una medicina sbagliata. Se stiamo morendo dissanguati, può farci comodo. Ma ciò non la rende migliore e non la autorizza a farsi dogma giuridico-poliziesco. Nella città dove abitavamo, un ospedale ha vinto la causa penale dopo che una ragazza, alla guida della sua automobile, era stata travolta e uccisa da un'autoambulanza lanciata a tutta velocità, nonostante ella si fosse fermata per darle la precedenza. Forse quell'autista del Pronto Soccorso aveva visto troppi telefim di Starsky e Hutch: sta di fatto che lui e i suoi colleghi sembrano pazzi scatenati con licenza di uccidere in nome della salvezza di vite umane. Oppure vogliamo parlare dei trapianti di organi, eseguiti espiantando gli stessi dal corpo di persone ancora clinicamente vive e che potrebbero, forse, in alcuni casi, riprendersi, se non vi fosse la fretta indecente di saccheggiarne  gli organo ancora caldi?

Non abbiamo perso il filo del ragionamento; per il telefonino vale, a fortiori, lo stesso ordine di ragionamenti. Il telefonino è tecnologia allo stato puro: il massimo della tecnica nel minimo di spazio-tempo; e, soprattutto, il massimo di efficienza strumentale al servizio di qualunque fine, anche il più futile. Possiamo chiamare qualcuno in cime al Kilimanjaro solo per chiedergli se ha pranzato bene al ristorante: e, nel novantanove per cento dei casi, è precisamente questo l'uso che se ne fa , tanto è vero che una grossissima percentuale degli utenti sono bambini o ragazzini che lo usano, come rileva lo stesso Ferraris, più per messaggiare che per parlare: a tutte le ore e per qualsiasi capriccio.

E allora?

Se la disponibilità del telefonino, pronto, acceso e ben carico (e sperando che ci sia "campo"!) è tale da cambiare nella sostanza il destino di Lara e di Živago, allora vuol dire che le loro vite non erano poi così evolute da meritare salvezza mediante il "miracolo" tecnologico. La sostanza della nostra vita dovrebbe esser fondata su ben altre basi: dovrebbe essere autosufficiente. Fortuna o sfortuna sono eventi esterni; e opinabili, oltretutto: perché la sfortuna di oggi può rivelarsi la fortuna di domani. Ad esempio, è una sfortuna, nell'immediato, il fatto di non aver trovato un posto libero sul volo Roma-Londra; ma è una fortuna se, l'indomani, leggiamo che il nostro aereo è precipitato e che i passeggeri sono tutti morti. In generale, comunque, gli eventi esterni e tutto ciò che è contingente non dovrebbe avere il potere di sconvolgere la nostra vita; se ciò accade, vuol dire che la direzione di essa ci era già sfuggita di mano o che, forse non l'avevamo mai avuta in pugno. Se la sostanza della nostra vita è appesa allo squillo del nostro cellulare, allora vuol dire che siamo ridotti al ruolo di banderuole al vento, di spaventapasseri in un campo di grano.

Noi siamo padroni della nostra vita quando la sostanza di essa è nelle nostre mani. E la sostanza della nostra vita è la fedeltà alla chiamata, la capacità di riconoscerci e di sceglierci, di perseguire la realizzazione delle nostre potenzialità specifiche di esseri umani; cioè, come diceva Aristotele, di tendere al fine della vita razionale, realizzando al tempo stesso il binomio di virtù e felicità (cfr. il nostro articolo L'uomo è un viandante fornito di doppia cittadinanza). Per tornare al caso di Lara e Jurij  Živago: due persone, se si amano davvero, sono unite per sempre. Nulla e nessuno le potrà separare. Forse le vicende della vita le divideranno, e magari per sempre; si cercheranno, ma non riusciranno a ritrovarsi fisicamente; non importa: sono già insieme; non si sono mai separate. Solo il più rozzo materialismo può pensare che un amore finisce perché due persone sono fisicamente separate. Se così fosse, la morte sarebbe comunque la sconfitta definitiva e irrimediabile dell'amore e della vita stessa, che è - essenzialmente - amore.

Invece non è così. Nemmeno la morte può dividere chi veramente si ama; anzi, la morte meno che qualunque altro evento fisico. La morte, casomai, riunisce: se si è abbastanza forti da credere che la vita è più potente della morte e che noi non siamo fatti per la morte, ma per la vita. Qualcuno potrebbe obiettare: «E sia. Se due persone si amano davvero, la distanza fisica non le può separare veramente; però è un fatto che tale distanza le fa soffrire, le rende infelici. E noi non siamo forse fatti per la felicità? Lo diceva San Tommaso, ma lo diceva anche Aristotele».

Certo che siamo fatti per la felicità; ma le vie della felicità non necessariamente sono le nostre vie. Noi possiamo credere o non credere a quella che Leibniz chiamava armonia prestabilita: se ci crediamo, dobbiamo aver fiducia che tutto accade per il bene, specialmente quando noi vi abbiamo messo la nostra parte di volontà pura e disinteressata. Tutto è grazia, diceva Bernanos. Noi occidentali siamo afflitti dalla nevrosi dell'iperattivismo: siamo persuasi che solo agendo freneticamente, manipolando, correndo e agitandoci riusciremo a ottenere un risultato; nel caso specifico: ad essere felici. È un errore. Le cose accadono quando devono accadere: e siamo noi che ci rendiamo disponibili al loro accadimento, non mediante spettacolari corse pazze dell'ultimo momento, non rombando a sirene spiegate o facendo squillare il telefonino prima che l'istante magico sia passato per sempre; ma con una vita fatta di onestà interiore, di ascolto, di contemplazione, di azione disinteressata, di disponibilità alla chiamata dell'Essere. Siamo noi che attiriamo le cose, che attiriamo il così detto destino, con il nostro modo di porci di fronte al mondo. A seconda che esso sia avido ed egoico, oppure aperto e umile, ci attiriamo gioie e dolori, successi e insuccessi, la pace del cuore o l'inferno delle passioni disordinate. Naturalmente, di queste cose diamo la colpa agli altri o al destino, ma solo perché siamo accecati da una ignoranza abissale.

Perciò, se Lara Antipova avesse udito, quel giorno sul marciapiedi, le nocche di Jurij Živago battere sul finestrino del tram; se lo avesse visto; se lo avesse atteso alla fermata, certo le loro vite sarebbero state diverse, ma non necessariamente nella sostanza. Non sopravvalutiamo la tecnologia; è già abbastanza invadente per conto suo. Forse, nella sostanza, la vita di Lara e Jurj non sarebbe cambiata sostanzialmente: avrebbero continuato ad amarsi, anche se non si fossero ritrovati. Infelici? Forse; chissà. Tutto dipende se pensiamo che per essere felici bisogna stringere in pugno, fisicamente, le cose che desideriamo. Se così fosse, tanto per fare un esempio, suore di clausura, eremiti, mistici e yogin sarebbero non solo degli infelici, ma anche dei pazzi: perché sono persone che spontaneamente rinunciano a inseguire una felicità intesa come possesso fisico delle cose amate. Invece, l'esperienza ci mostra che non è così. L'esperienza ci mostra che queste persone, se davvero hanno fatto una libera scelta (e ne abbiamo conosciute diverse), sono in genere molto più serene, molto più realizzate, molto più in pace con se stesse di chi continua a cercare la felicità nel possesso.

E allora, con buona pace di chi pensa che la tecnologia sia un modo di risolvere la sostanza dei problemi, bisogna avere il coraggio di dire che il telefonino non può fare la differenza tra una vita felice e una vita infelice. Per essere felice, una vita deve essere autentica e deve saper realizzare  la propria vocazione spirituale. Con o senza telefonino.

Se poi la felicità ci ha sfiorati al telefonino, ma noi lo avevamo spento proprio in quel momento, con chi ce la prenderemo? Probabilmente, con la nostra umana imperfezione che ci ha fatto scordare di tenerlo acceso; e chiederemo, anzi esigeremo, ancora più tecnologia, e ancora più invadente, in modo che se anche noi ci dimentichiamo del telefonino, lui non si dimentichi di noi. Perfino al gabinetto; perfino mentre facciamo all'amore; perfino sul letto di morte. Non sfuggiremo un solo istante e in alcun luogo al Grande Fratello: ci seguirà come un'ombra.

E noi gli diremo anche grazie.

Grazie, perché in qualunque momento ci potrebbe salvare la vita, versione secolarizzata della Divina Provvidenza di oscurantista memoria. Oppure potrebbe salvare la nostra prenotazione aerea; oppure potrebbe salvare il nostro perduto amore, che sta passando lungo il marciapiede, senza vederci.

Cosa faremmo senza di lui?