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L'opera narrativa di Cezar Petrescu

di Francesco Lamendola - 04/10/2007

  

 

PREMESSA.-

 

Prima di entrare nel vivo del nostro argomento, non possiamo non fare una breve premessa di carattere generale (vorremmo quasi dire: epistemologico) sui fondamenti stessi nonché sui criteri metodologici della storiografia letteraria comparata.

A parte il fatto che i linguisti stessi non hanno affatto chiara la distinzione scientifica tra lingua e dialetto, per lo studioso delle piccole lingue e delle piccole letterature si pongono delle difficoltà oggettive, che poi sono le stesse dell’autore che si serve, rispettivamente, del dialetto o di una piccola lingua per comporre le proprie opere. Precisiamo subito che l’espressione “piccola lingua” non vuole avere assolutamente un significato riduttivo, ma solo ed esclusivamente quantitativo.Il romeno è parlato da oltre venti milioni di persone e quindi non potrebbe dirsi, in verità, una piccola lingua. Ma nell’éra della globalizzazione, purtroppo, vale la legge dei grandi numeri: e dunque “grandi” sono le lingue (e le letterature) parlate almeno da qualche centinaio di milioni di persone. Per limitarci al mondo occidentale, sono cinque quelle che rispondono a tale requisito: l’inglese, che si avvia a divenire la lingua universale del Duemila; il francese (parlato in molti paesi africani), il russo, lo spagnolo (parlato in tutta l’America Latina a eccezione del Brasile), il tedesco (parlato anche in Austria e Svizzera e compreso in buona parte della Scandinavia). Scrivere in una di queste cinque lingue, significa avere la possibilità di essere letti e conosciuti in tutto il mondo. L’italiano non è certo una piccola lingua, per non parlare del suo prestigio storico come lingua di cultura; ma essendo parlato solo da sessanta milioni di persone, non rientra fra le grandi lingue. In pratica non c’è posto per le lingue medie; si passa subito alle piccole.

Questa situazione presenta, tra gli altri, un inconveniente particolarmente grave: fa sì che piova sempre, per così dire, sul bagnato. Chi dispone dei grandi numeri, piglia tutto; agli altri le briciole. Un Dante o uno Shakespeare possono nascere in Albania o nei Paesi Baschi; ma, se non adottano una delle grandi lingue, resteranno fatalmente sconosciuti al resto del mondo. Per pigrizia, per forza d’inerzia (e un discorso analogo si potrebbe fare per il teatro, per il cinema, per la musica, ecc.) le case editrici con un raggio d’azione internazionale non prenderanno in considerazione opere scritte in una piccola lingua, e tanto meno in un dialetto, a meno di tradurle; non vedremo mai, dietro le vetrine delle nostre librerie, i libri di un Dante albanese o di uno Shakespeare basco; forse li troveremo, e con moltas difficoltà, negli scaffali polverso di qualche sonnolenta biblioteca universitaria.In compenso siamo bombardati ogni giorno dalla pubblicità di libri (e film, e canzoni, ecc.) scritti in inglese, anche se di mediocrissimo o nessun valore artistico.

La mistificazione comincia sui banchi di scuola. Ai giovani studenti  italiani, per esempio, viene insegnato che la letteratura mondiale è stata fatta, oltre che da scrittori italiani, da scrittori inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, russi e… basta. Delle letterature scandinave; di quelle slave non russe; di quella olandese, magiara, romena, finnica (per non parlare della occitanica, della gaelica, della basca, della ladina), niente di niente. Qualche nome, ogni tanto, supera lo “sbarramento” dei grandi numeri e vien fatto scivolare nelle antologie più scruplose, per aver l’aria di completare il quadro. Grandissimi poeti come l’ungherese Petöfi, il polacco Mickiewicz, il romeno Eminescu – solo per limitarci ad alcuni tra i maggiori dell’Ottocento – sono praticamente sconosciuti agli studenti occidentali, anche a quelli universitari; per non parlare del cosiddetto pubblico medio.

Questa legge dei grandi numeri, che impone un criterio di efficienza tipicamente economico in sede di valutazione estetica (poiché la letteratura è una manifestazione d’arte) sta producendo appiattimento e impoverimento in misura crescente. Non conoscere Petöfi, Mickiewicz o Eminescu, non avere mai letto un loro verso in tutta la propria vita significa essere privati di qualcosa di grande, di prezioso, d’insostituibile. Certo, l’ideale sarebbe poterli leggere nell’originale; ma, dato che anche la persona di media cultura non conosce, in genere, più di tre o quattro lingue, che almeno vengano letti in traduzione.Qualcosa del loro spirito, del loro ritmo, del loro profumo sopravviverà anche a una tale operazione. E il pubblico occidentale incomincerà a capire che la letteratura mondiale è qualcosa d’infinitamente più ricco, più variegato e più multiforme di quanto abbia sinora immaginato.

Una cosa dev’essere chiara. Ogni lingua è un universo armonioso, ogni letteratura è un tassello del grande mosaico della civiltà mondiale, un fiore profumato della grande foresta. Checchè ne pensino gli apologeti della globalizzazione e i ragionieri dei grandi numeri, la pluralità delle lingue e delle opere è un bene, perché riconduce ciascun popolo alle proprie radici, alla propria cultura, al proprio humus. Apertura verso il mondo non vuol dire sradicamento o negazione della propria matrice identitaria, di cui la lingua materna è l’espressione prima e più importante. Molte piccole lingue, oggi, stanno letteralemte morendo: scompaiono. È il caso dell’istro-romeno, del serbo di Lusazia, ma anche del ladino o dell’occitanico. Le persone che parlano in queste lingue, per non parlare degli scrittori che  se ne servono, vanno riducendosi sempre più, come pozzanghere sotto il sole che le asciuga. Un giorno saranno scomparse, per sempre; di loro non rimarrà neanche un ricordo tangibile. Già al presente le villotte friulane, le dolci e malinconiche dojne dei pastori romeni sono solo un ricordo carico di nostalgia.

In molti paesi del mondo, e, da alcuni anni, anche dell’Europa centro-orientale, si assistse a un fenomeno imponente e apparentemente inarrestabile di migrazione verso i paesi ricchi dell’America anglosassone e dell’Europa occidentale. I giovani, la speranza della propria patria, si lasciano tutto alle spalle per cercar fortuna in Occidente. Non è solo un fenomeno economico: gli emigranti dell’Ottocento sognavano di tornare a casa non appena racimolato un gruzzoletto. Oggi no. Il legame antico, sacrale con le proprie radici si sta seccando. Quei giovani, spesso, non sognano di tornare a casa; casomai, di portare con sé le persone care rimaste indietro. Anche così delle culture, delle letterature, delle lingue rischiano di morire. In cambio di un mondo dove nemmeo i giovani polacchi leggeranno più Mickiewicz, dove i giovani romeni o magiari non conosceranno, se non forse di nome, Eminescu e Petöfi; ma dove, im compenso, tutti quanti masticheremo chewin-gum, berremo Coca-Cola e andremo in delirio ai megaconcerti di qualche pop-star. Tutti vestiti (o svestiti) allo stesso modo, con lo stesso taglio di capelli, con le stesse scarpe firmate; tutti felici e contenti. E tanto, tanto ignoranti.

 

LA CORNICE STORICA.-

 

Per capire un autore, dobbiamo inserirlo nel proprio contesto culturale: solo così riusciremo a coglierne gli elementi di universalità, oltre a quelli di specificità. E ciò è tanto più necessario, trattandosi di un autore straniero appartenente a una realtà storica, geografica, linguistica da noi poco conosciuta. La letteratura romena, ad onta del fatto che ha prodotto una serie straordinaria di poeti e prosatori, specialmente negli ultimi due secoli, è una delle meno conosciute dal grande pubblico italiano. Si fa una  certa fatica a trovare le opere romene nelle nostre librerie  e anche nelle nostre biblioteche, e oggi più di ieri (fatto che da solo dovrebbe incrinare l’ottusa fiducia nelle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione). Tutto sommato, gli autori romeni venivano maggiormente letti e tradotti qualche decennio fa, di quanto non accada al presente.

La letteratura romena dei primi quattro decenni del Novecento, diciamo fino alla tragedia della seconda guerra mondiale, offre un quadro ricco e composito. La Romania era un paese in crescita, in tutti i sensi (e  continuerà ad esserlo fin verso gli anni ’70), che vuol mettersi al passo, anche sul piano culturale, con l’Europa occidentale, senza però minimamente rinunciare alla propria identità e senza dimenticare il vero, antico protagonista della sua lunga, tenace vicenda storica che dai Geti ai Romani, su su lungo i secoli, ha preservato l’identità linguistica  e spirituale della nazione: il contadino. La Romania di fine Ottocento e degli inizi del Novecento è un paese che vuol riguadagnare il tempoo perduto durante la secolare dominazione ottomana, ma non vuol rinunciare alla propria anima rurale; i suoi intellettuali, i suoi scrittori si chinano con sensibilità, con delicatezza su quel mondo campagnolo ricchissimo di tradizioni, sobrio, laborioso, resistente, eroico nel suo attaccamento alla terra. Traverso mille e mille invasioni e dominazioni straniere, il contadinoi romeno è rimasto fedele ai valori della terra: alla religione ortodossa, alla famiglia patriarcale, alla lingua e ai costumi dei padri. E questa fedeltà, questo coraggio continua a mostrarli anche nelle terre “irredente”: la Transilvania ungherese, la Bucovina austriaca, la Bessarabia russa, resistendo a ogni politica di snazionalizzazione, duro e tance come un grande albero nodoso e secolare. Dunque, gli intellettuali romeni sentono tutta l’importanza di questo legame secolare con la terra, legame non solo storico ed economico, ma affettivo e spirituale: legame religioso nel senso più profondo del termine. E sentono la gratitudine verso quel povero contadino che pena e fatica sopra una terra non sua, ma dei grandi boiari; che ancora nel febbraio del 1907 (mentre a Parigi, Londra, Vienna e Berlino si celebrano i fasti della belle époque, tra uno svolazzare di cappellini femminili e uno scintillìo d’uniformi a teatro) urla tutta la sua rabbia secolare in una disperata rivolta, che verrà repressa sanguinosamente dalle truppe.

Già, perché vi fu un tempo, neanche poi tanto remoto, in cui la povertà (che, si badi, è tutt’altra cosa dalla miseria) non era ancora, come lo è diventata oggi, nel mondo del cosiddetto benessere, una condizione di cui vergognarsi – così come non lo era nel mondo contadino italiano fin verso il “miracolo economico” degli anni Cinquanta -, anche perché generalizzata e dignitosa, ma soprattutto perché l’essere umano non era stato ridotto dal consumismo alla sola dimensione economica. Il contadino romeno era povero e, per lo più sfruttato; ma era paziente, saggio della millenaria saggezza della terra, capace di rialzare la testa come la spiga di grano dopo ogni temporale estivo; e quasi tutti gli intellettuali, cosa che fa loro onore, non si curvavano su di lui per compiangerne il duro destino (come il Verga de I Malavoglia), quasi con l’intimo distacco di chi sente avvicinarsi inesorabile la fiumana del “progresso”, ma con la piena consapevolezza che solo in loro riposavano le radici vitali della nazione e solo in loro era custodito il seme prezioso dell’avvenire.

In questa Romania d’inizio secolo, ancora quasi tutta patriarcale ma con una capitale, Bucarest, che già vorrebbe imitare le metropoli dell’occidente, un ruolo importantissimo nella vita culturale è quello svolto da una decina di battagliere riviste letterarie, che svolgono una funzione di confronto e dibattito, un po’ come in Italia, negli stessi anni, il Leonardo, Lacerba e, soprattutto, la Voce. Ognuna di esse ha il proprio programma, e ognuna parte da una sua particolare filosofia della società romena, dei suoi problemi, delle sue speranze. Tutte si disputano vigorosaente il campo l’una con l’altra e ciascuna di esse nutre una fede incrollabile nei propri valori, nelle proprie certezze, nella propria idea di progresso e nella concezione stessa della realtà nazionale. Tra esse, cinque spiccano per vivacità e radicamento nel pubblico e, in ultima analisi, per la capacità d'interpretare differenti aspetti, ma tutti autentici, della società.

La prima, in ordine di tempo, è la gloriosa Convorbiri literare (Conversazioni letterarie), organo della prestigiosissima società letteraria Junimea (La giovinezza). L’una e l’altra sono state fondate dal professore universitario, oratore, filosofo, Titu Maiorescu (1840-1917), che è due volte ministro ed esercita una sorta di dittatura nel campo della critica per circa un quarantennio: un po’ come da noi, negli stessi anni, Benedetto Croce, del quale condivideva l’indirizzo filosofico idealista. Junimea nasce nel 1865 a Iasi (capoluogo della Moldavia), Convorbiri literare nel 1867, nella stessa città, per poi venire trasferita, nel 1885, a Bucarest, e sono, per così dire, la mente e il braccio di un nuovo movimento letterario e filosofico, il cosiddetto criticismo. Esso costituisce una tendenza, anzi una vera e propria scuola che si propone, appunto, una revisione critica della cultura nazionale, alla quale rivolge l’accusa di una eccessiva imitazione dei modelli occidentali e, in particolare, di quello francese. Tutto questo in nome di una specificità e di una originalità irriducibili, aperte sul mondo e tuttavia fedeli a sé stesse, nonché di una assoluta indipendenza dell’arte da ogni programma politico, sociale o morale, che richiama, per certi versi, una ripresa dei principii estetici del tardo romanticismo e, poi, del nascente simbolismo. E infatti è stato proprio il tardo romanticismo ad avvantaggiarsi del clima spitituale favorito dal criticismo, tanto è vero che il potente rinnovamento culturale promosso dalla rivista Junimea è culminato proprio nella lirica straordinariamente originale e malinconicamente sognante di Mihail Eminescu (1850-1889), il più grande poeta lirico romeno di tutti i tempi.

Maiorescu ha studiato filosofia a Vienna, Berlino, Giessen; Eminescu, a Vienna, si è immerso nello studio di Kant e Schopenhauer (oltre che di Platone e Spinoza): l’uno e l’altro sono dunque imbevuti della cultura filosofica tedesca, di quella Mitteleuropa che è, tra il 1865 e il 1914, la fucina di tanta parte del pensiero e della sensibilità europei, da Nietzsche a Freud. La reazione contro la strapotenza dell’influenza culturale francese, dunque, per gli intellettuali criticisti si colloca più sul piano della filosofia e su quello del gusto; dal punto di vista più specificamente letterario, essi auspicano una lingua ricca di elementi nuovi, resa possibile dalla conoscenza e dalla traduzione delle lingue europee, a cominciare dal francese stesso, che sappia “internazionalizzarsi” pur conservando l’humus inconfondibile delle proprie radici. Insomma la cultura locale va preservata come il valore primario, ma interpretandola nel quadro di un cosmopolitismo intelligente e moderato.

Convorbiri literare svolge un ruolo importantissimo, nel rinnovamento della letteratura romena di fine Ottocento, per la formazione dei giovani scrittori, anche se bisogna riconoscere che non produce una scuola di statura europea. In compenso favorisce  la manifestazione di tre dei maggiori geni letterari della Romania: oltre a Eminescu, altri due “junimisti” tengono la scena, raggiungendo risultati, nei propri campi, pressoché insuperati: Ion Creanga (1837-1889) nella novella e Ion Luca Caragiale (1852-1912) nel teatro. Ai primi del Novecento, comunque, Convorbiri literare ha in gran parte esaurito la sua carica propulsiva e, se è vero che continuerà ad uscire fino al 1944, dimostrando una vitalità veramente eccezionale, a partire da allora deve gradualmente cedere il terreno ad altre riviste e ad altri movimenti che si vanno impetuosamente affermando.

Uno dei più caratteristici di tali nuovi movimenti è il poporanismo, una corrente social-riformista che sostiene un populismo a carattere contadino (il termine è una traduzione romena del narodnicismo russo). I suoi ideologi si rifanno a una schietta ispirazione taraneasca, per la materia, per l’impronta e per la lingua ed hanno il proprio organo nella rivista Viata Romineasca (La vita romena), fondata anch’essa a Iasi nel 1906 e destinata a durare sino al drammatico 1944. È un fatto che il poporanismo non produce direttamente opere poetiche o narrative, poiché i suoi portabandiera sono più che altro dei teorici, tuttavia a questo movimento si suole associare la produzione letteraria del più grande novellista e romanziere romeno del primo Novecento, il moldavo Mihail Sadoveanu (18801961), e ciò non a caso. Nella vastissima opera di questo autore (più di cinquanta volumi, fra cui spiccano gioielli come La scure e L’osteria di Ancutza) è infatti evidentissima la dimensione taraneasca e poporanist: il contadino, e ancora più spesso il pastore ed il boscaiolo, sono infatti al centro del suo mondo poetico, pervaso da un’ansia di giustizia sociale e di riscatto che ha reso ancor più popolare, se possibile, la sua opera dopo il 1945, cioè dopo il sorgere della Repubblica popolare. Lo stesso Sadoveanu, senza traumi né eccessive forzature ideologiche, canterà l’avvento dei tempi nuovi in romanzi come Mitrea Cocor (del 1949), aderendo di fatto all’ideologia marxista e salutando l’arrivo dei suoi banditori, gli eserciti sovietici. Si può anzi dire che lo stesso poporanismo è risorto dopo il 1945 in versione marxista, il che non significa che fosse tale nella sua prima versione; esso aveva sì una ispirazione socialista ma niente affatto marxista, e  questo è ver, a maggior ragione, dopo la rivoluzione bolscevica del 1917.

 Bisogna infatti tener presente questa costante dell’anima nazionale romena: se i suoi scrittori hanno sempre guardato alla Francia o, in una certa misura, all’Italia (come è il caso di Duiliu Zamfirescu, 1858-1922), pur con la chiara coscienza della propria autonomia; e i filosofi, per lo più, alla Germania; si può dire che un po’ tutti, intellettuali e classi popolari, hanno sempre visto nel potente vicino dell’est, se non proprio un nemico “storico”(ché anzi è con l’intervento russo del 1877 che ha avuto fine il protettorato ottomano), quantomeno una costante minaccia all’integrità nazionale. È chiaro che questa, chiamiamola così, russofobia si è accentuata, nella Romania borghese tra le due guerre mondiali, alimentata dal timore del bolscevismo (che fa da cornice storica al bel romanzo di Gib Mihaescu, 1894-1935, Rusoaica [La Russa], del 1933, uno dei migliori di quel periodo).Con la Russia, d’altronde, il rapporto è sempre stato ambivalente, di repulsione ma anche di segreta attrazione: se da un lato, come abbiam detto, esso è stato ispirato a malcelata diffidenza, dall’altro è innegabile un’influenza dei grandi scrittori russi, da Gogol a Goncarov a Tolstoj a Dostoevskij, sulla letteratura romena; così come è innegabile la presenza di un fondo slavo – tendenza al tragico, al malinconico, al fantastico, all’introspettivo, talvolta al macabro, spesso al fatalistico – nell’opera di molti scrittori romeni, a cominciare dal più grande di tutti, Eminescu.

In ogni caso l’istintiva diffidenza per la Russia (non per la sua cultura, ma per le sue ambizioni imperialistiche) ha contribuito non poco a tener lontani i poporanisti della prima generazione dal marxismo, benchè essi abbiano sempre coltivato, nel loro amore alla causa contadina, un nucleo di sottintesa protesta sociale per lo sfruttamento del mondo rurale da parte dei boiari e, quindi, di potenziale convergenza col marxismo. In linea di massima, essi  sono favorevoli a un tentativo di riforma agraria e non possono  trovarsi che su posizioni assai diverse da quelle della destra estremista, affermatasi negli anni Trenta per impulso della Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu. Lo stesso Sadoveanu, pur non subendo una vera e propria persecuzione, è  inviso alla dittatutra di Antonescu: data la frequenza degli assassinii politici compiuti dall’estrema destra in quegli anni, si può ancora dire che se la cava abbastanza bene. Votati alla causa rurale, i poporanisti, comunque, rappresentano la borghesia progressista e non l’estrema sinistra che, in Romania, si identifica coi primi nuclei della classe operaia, specie dopo il 1918. Ma in un paese ancora largamente agrario, la classe operaia resta quasi insignificante fino alla prima guerra mondiale e il marxismo è una pianta esotica che non ha potuto  ancora mettere vere radici.

Bisogna comunque ricordare, perché il quadro del social-riformismo sia completo, che nel 1920 il governo Averescu attua una riforma agraria mediante l’esproprio dei latifondi superiori ai 500 ettari e delle proprietà degli assenti e degli stranieri (quest’ultima misura è diretta chiaramente contro i latifondisti ungheresi della Transilvania, annessa dopo la prima guerra mondiale). La riforma coinvolge 1 milione e 390.000 contadini che ricevono, complessivamente, 6 milioni di ettari; ma risulta poco incisiva, non essendo accompagnata da misure di assistenza tecnica e creditizia. Si tratta tuttavia di un primo passo verso una distribuzione più equa del bene primario della nazione, la terra, se si tien conto del fatto che fino al 1916 più di metà della superficie coltivabile era di proprietà di sole 8.000 famiglie e che i contadini indipendenti, circa mezzo milione, possedevano al massimo la miseria di tre ettari a testa.

Il poporanismo e la rivista Viata Romineasca svolgono una funzione importante nel panorama culturale e civile della Romania dei primi decenni del Novecento, tuttavia bisogna riconoscere  che non è esso a interpretare gli strati più profondi dell’anima nazionale, bensì un altro movimento che si afferma prepotentemente all’inizio del XX secolo, il seminatorismo.

La rivista Samanatorul (Il seminatore) vede la luce a Bucarest nel 1901 (uscirà fino al 1910, ma la sua influenza durerà molto a lungo) per impulso di una notevole figura di intellettuale di statura europea e mondiale, lo storico Nicolae Iorga (1871-1940), autore di una fondamentale Storia dei Romeni e della loro civiltà, tradotta in italiano nel 1928. Egli è un grande ammiratore, tra l’altro, della cultura e della storia italiana, specialmente medievali, cui dedica opere ispirate alla vita di Dante e a quella di S. Francesco. Il seminatorismo riunisce due elementi caratteristici dell’animo romeno: l’amore per la terra e l’amore per la patria, spinto fino al nazionalismo. Lo stesso Iorga è il fondatore, nel 1910 (con A.C.Cuza), del Partito nazionalista democratico; ma un rapido sguardo al suo programma ci fa capire che si tratta di un nazionalismo non estremista e congiunto alla coscienza dei problemi sociali, che sono essenzialmente, come abbiamo detto, quelli legati al mondo rurale. Il partito fondato da Iorga si propone infatti il suffragio universale, un moderato decentramento dei poteri e una riformas agraria per dare la terra ai contadini. Nel 1916 esso si schiera sul fronte interventista e contribuisce all’ingresso del paese nella prima guerra mondiale contro gli Imperi Centrali; poi, nel 1917, anima la resistenza nazionale contro l’invasore austro-tedesco. Ma che si tratti di un nazionalismo che nasce soprattutto da un amore viscerale per la terra, vista (virgilianamente) come la fonte delle virtù patrie e dei valori morali, e non da xenofobia, antisemitismo ed esaltazione mistica, lo dimostra, tra l’altro, il fatto che Nicolae Iorga, più volte ministro di stato nel primo dopoguerra, sarà tra i primi uomini politici a cadere sotto la barbara violenza dei Legionari della Guardia di Ferro. Verrà assassinato, infatti, come vendetta per il processo e la condanna dello stesso Codreanu, nel bosco di Pantelìmon, il 28 novembre 1940, dov’era stato portato dopo il suo rapimento: un delitto che ricorda, per certi aspetti, quello di Giacomo Matteotti nell’Italia del 1924.

I seminatoristi sono nettamente anti-socialisti in politica, poiché rappresentano la borghesia moderata, mentre nel campo propriamente letterario sono aperti a svariati apporti, non avendo dei canoni rigidi a livello teorico. Un po’ per questo, un po’ perché sanno interpretare un sentimento diffuso dell’anima romena, e un po’ anche perché, come abbiamo detto, il poporanismo rimane su un piano prevalentemente teorico (con la vistosa eccezione di Sadoveanu), a un certo momento essi attraggono nella propria orbita, direttamente o indirettamente, non meno di due terzi degli scrittori romeni. Sarebbe troppo lungo elencarli tutti: ricordiamo almeno i poeti Octavian Goga (1879-1938), Stefan Octavian Iosif (1875-1913), Dimitre Anghel (1872-1914) e Panait Cerna (1881-1913); e i narratori Emil Garleanu (1878-1914), Ion Agirbiceanu (1882-1963), Liviu Rebreanu (1885-1944).

Quest’ultimo, per il suo potente soffio realistico (degno, a tratti, del miglior Verga) spicca fra tutti gli altri superandoli, come si suol dire, di tutta la testa: Originario della Transilvania (regione sottoposta alla dominazione ungherese fino al 1918), ha vissuto il dramma dell’irredentismo nella persona di un fratello, ufficiale nell’esercito austriaco, giustiziato dagli Austriaci, durante la prima guerra mondiale, per alto tradimento (come i nostri Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa), avendo cercato di disertare.. A questo dramma fosco egli saprà dare respiro epico, nonché una convincente dimensione psicologica, in uno dei suoi tre libri più importanti, Padurea spanzuratilor (La foresta degli impiccati), del 1922.Gli altri due sono Ion (Giovanni, in due volumi: La voce della terra e La voce dell’amore), del 1920-21, e Rascoala  (La Rivolta), del 1933. Nel primo viene descritta la fame divorante di terra da parte del protagonista, che giunge, un po’ come Mastro-don Gesualdo di Verga, a disumanizzarsi in un crescendo impressionante di avidità, durezza, egoismo e ostinazione. Qui il contadino è colto, con crudo realismo, nei suoi tratti priomordiali e quasi bestiali: la sua dimensione umana è ritratta con potente partecipazione, anzi quasi con un vero atto di immedesimazione, e spogliata di ogni alone idealistico e romantico. Altrettanto incisivo, nella sua vigorosa dimensione epica, il secondo romanzo, che rievoca con strardinaria potenza drammatica, il prepararsi e poi lo scatenarsi della violentissima rivolta contadina del 1907, seguita da una repressione sanguinosa, come il graduale e inesorabile addensarsi delle nubi minacciose che precedono lo scatenarsi del temporale, con tutta la sua furia devastatrice. Il naturalismo di Rebreanu è così duro e impietoso da sconfinare, talvolta, nel brutale; eppure è presente in lui una profonda dimensione spirituale e religiosa, fatta di scavo interiore e di tormentosa inquietudine, particolarmente evidente ne La foresta degli impiccati.

Tragica sarà la fine di questo scrittore, che per affinità ideologica con l’estrema destra aveva finito per schierarsi accanto al fascismo: al crollo del regime del generale Antonescu e al sopraggiungere dell’Armata Rossa, il 1° settembre 1944 egli sceglie di darsi volontariamente la morte. Il caso di Rebreanu ci ricorda che non tutti gli scrittori che hanno a che fare con  la rivista Semanatorul si possono considerare dei veri e propri seminatoristi. I criteri di arruolamento, se così li vogliam chiamare, sono molto elastici e, a parte la pregiudiziale antisocialista e antimarxista, non li impegnano più di tanto sul terreno letterario. Quando appare Ion, che molti critici hanno paragonato, e giustamente, a I contadini dello scrittore polacco Wladyslaw Reymont (premio Nobel per la letteratura nel 1924) - uno dei capolavori del Novecento europeo - dura è la reazione di Nicolae Iorga. Il padre del seminatorismo respinge il romanzo di Rebreanu senza appello: troppo impietosa la rappresentazione del mondo contadino in esso contenuta, al punto da giudicarla immorale. Il fatto è che il seminatorismo, pur con tutto il suo paternalismo di marca filantropica, non ama troppo il realismo, poiché contrasta con una sua visione idealizzata del mondo contadino. La critica successiva sarà più equanime verso questo grande romanzo e finirà per considerarlo il più importante della letteratura romena e uno dei maggiori di quella universale.

Seminatorismo e poporanismo sono i due movimenti maggiori, che si danno battaglia sino agli anni della prima guerra mondiale. La loro influenza scema visibilmernte dopo il 1914, quando entrambi vengono soppiantati dall’influenza preponderante del modernismo, che ispira in tutta Europa i più svariati movimenti d'avanguardia. In un certo senso, il precursore del modernismo in Romania è il gruppo che si raccoglie intorno alla quarta rivista importante di cui vogliamo parlare: Viata noua (La vita nuova). Essa viene fondata e diretta, nel 1905, dal critico e filologo Ovid Densusianu (1873-1938), che a sua volta si rifà alla lezione del poeta Alexandru Macedonski (1854-1920). Esule volontario in Francia, a Parigi, dal 1884 al 1912 (per motivi d’incompatibilità personale e culturale più che politici), anarcoide per temperamento, grande ammiratore di Baudelaire, Rimbaud e Verlaine, Macedonski aveva scritto alcune opere addirittura in francese (tra cui La mort de Dante) e aveva fondato a Bucarest una rivista, Literatorul, uscita dal 1880 al 1885, che aveva contribuito molto a diffondere la poetica simbolista.

Ora Densusianu, attraverso Viata noua, vuole propagare il verbo modernista che coincide, in quel momento storico, col simbolismo; non si occupa affatto di questioni sociali e dà un impulso notevole alla produzione letteraria “pura”, creando le premesse per l’”esplosione” modernista dopo la prima guerra mondiale. Egli, personalmente, non è uno scrittore notevole; professore di letteratura latina all’Università di Iasi, non compone che dei versi di scarso valore. In compenso è un infaticabile operatore culturale, che cerca di promuovere un profondo rinnovamento nel panorama letterario romeno. Innamorato della latinità, pensa che solo a quella fonte, per la mediazione francese e italiana, la cultura romena debba ispirarsi; è chiaro il sottinteso polemico verso le simpatie che una parte dei suoi compatrioti hanno sempre mostrato per il mondo germanico e, in forma più o meno esplicita, per quello russo e slavo in generale. Rispetto al mondo contadino, così importante per poporanisti e seminatoristi, c’è invece un certo distacco, poiché il simbolismo è soprattutto un fenomeno d’importazione, almeno all’origine, e per di più un fenomeno eminentemente cittadino: parte dalla Parigi di Rimbaud, Verlaine e Mallarmé e giunge direttamente a Bucarest, sorvolando, per così dire, il mondo rurale con le sue problematiche ancora patriarcali, con i suoi modi di vita in gran parte pre-industriali. E anche questo è un segnale che qualcosa, nella struttura sociale ed economica della “vecchia” Romania, incomincia a cambiare.

Possiamo distinguere i poeti influenzati dalle idee di Viata noua in tre gruppi principali: i simbolisti “puri”, come Ion Minulescu (1881-1944) e Gheorghe Bacovia (pseudonimo di Gheorghe Vasiliu (1881-1944); i modernisti propriamente detti (meno legati a modelli stranieri, cioè, in questo caso, francesi), come Adrian Maniu (1891-1969), Aron Cotrus (1891-1961) e soprattutto il geniale Lucian Blaga, assai noto anche come filosofo (1895-1961); e infine ermetici come Ion Barbu (pseudonimo di Barbilian Dan, 1895-1961) e integralisti come Ilarie Voronca (pseudonimo di Eduard Marcus, 1903-1946). Una posizione del tutto autonoma e, in un certo senso, proteiforme è infine quella del grande, tumultuoso Tudor Arghezi (pseudonimo di Ion Teodorescu, 1880-1967), forse il più notevole poeta romeno di tutto il Novecento, cui faremmo troppo grave torto (come lo faremmo a Lucian Blaga, o come lo avremmo fatto ad Eminescu) se pretendessimo di sintetizzare qui, in poche battute, la sua straordinaria voce poetica, fra le più alte del suo tempo a livello europeo.

Per quel che riguarda i prosatori, il movimento modernista annovera Hortensia Papadat-Bengescu (1878-1955); Camil Petrescu (1894-1957: un autore importante, che non ha alcun rapporto di parentela col Nostro); e Mircea Eliade (1907-1986), che diverrà un grande storico delle religioni, emigrerà in Francia e scriverà anche romanzi di notevole valore, ma in lingua francese (scelta analoga a quelle di Tristan Tzara, Eugéne Ionesco ed  Èmile Cioran).

A questi si possono aggiungere il grande innamorato del mare, Jean Bart (pseudonimo di Eugen P. Botez, 1874-1933), quasi un Joseph Conrad romeno, ed il prete ortodosso Gala Galaction (pseudonimo di Grigore Pisculescu, 1879-1961) in una posizione particolare, tra gli epigoni di entrambi i movimenti, poporanista e seminatorista, ma più vicina  al modernismo che al tradizionalismo, di cui ora diremo. Alcuni storici della letteratura, lo notiamo per inciso, accostano a questi ultimi due anche Agirbiceanu e lo stesso Rebreanu. In realtà, non è sempre agevole inserire un determinato autore entro schemi ben precisi, poiché vi sono autori che hanno attraversato, nellaloro vita, esperienze letterarie anche assai diverse (è il caso del camaleontico Tudor Arghezi) e, d’altra parte, alcuni movimenti tendono a sfumare l’uno nell’altro. Si tratta di un fenomeno molto comune in tutta la letteratura del Novecento e non specifico della Romania, specie per quanto riguarda la poesia; ma in Romania è forse più pronunciato perché nella cultura di questa nazione, come abbiamo detto, le riviste letterarie hanno svolto un ruolo fondamentale, per certi aspetti superiore a quello da esse rappresentato nei paesi dell’Europa occidentale.

La quinta rivista importante su cui vogliamo brevemente soffermarci è Gandirea (Il pensiero), il cui primo numero appare nel 1921 e l’ultimo nel 1944. Il suo fondatore è un giovane scrittore e giornalista di ventotto anni che si sta mettendo in luce in questo periodo e che è destinato a comporre una produzione copiosissima (oltre quaranta volumi di romanzi e racconti, senza contare la produzione giornalistica): Cezar Petrescu. Ma poichè è proprio di lui che vogliamo parlare in questa sede, rimandiamo il discorso su Gandirea ancora per un poco.

 

LA VITA E IL PERCORSO LETTERARIO.-

 

Cezar Petrescu è un moldavo, come Sadoveanu, come Ionel Teodoreanu, di cui fra poco diremo qualcosa, come Nicolae Iorga e tanti altri. La sua terra natale è nella Moldavia settentrionale, a Cotnari, non lontano da Iasi, dove nasce il 14 dicembre 1892.

Giovanissimo, inizia la sua attività letteraria come giornalista e come scrittore, collocandosi d’istinto fra i cosiddetti neoseminatoristi, verso i quali lo attrae l’amore per la terra e, al tempo stesso, la preoccupazione per la difesa della sua identità minacciata da modelli di vita estranei, urbani e internazionali. Spirito conservatore, contemplativo, pessimista, ideale prosecutore della strada tracciata dal suo grande conterraneo, Mihail Sadoveanu, e tuttavia pervaso da un’inquietudine spirituale autenticamente sentita e da un’ansia di rigore e di pulizia morale mai smentita nella sua lunga carriera, Petrescu assomiglia un po’ a tanti personaggi dei suoi romanzi e racconti. E’ il classico provinciale ingenuo e sognatore, pieno di illusioni sulla bontà degli uomini e sulla funzione quasi apostolica dell’intellettuale, che si trasferisce nella grande città occidentalizzata, Bucarest, per dare la scalata al successo letterario.

Osservatore attento e penetrante della realtà, buon conoscitore d’uomini cui lo predispone una innata capacità d’intuizione psicologica, odia l’ipocrisia borghese, la furbizia dei filistei, le piccole meschine manovre di chi non ha talento, ma è abbastanza cinico e sfrontato per farsi comunque avanti; e percepisce emozioni e atmosfere grazie a una sensibilità estremamente acuta, quasi dolorosa.

In lui c’è un contrasto, un intimo dissidio che è poi quello della Romania di quegli anni decisivi: dal padre valacco ha ereditato uno spirito eminentemente pratico, dinamico, vigoroso e intraprendente; dalla madre moldava l’attitudine al ripiegamento interiore, al bisogno di solitudine e di silenzio, all’anelito di evasione dalla grigia e piatta atmosfera della realtà quotidiana, nei regni bellissimi del sogno e della fantasia. Vive in un’epoca di trapasso e, sensibile come tutti i veri artisti, è egli stesso un uomo di trapasso: cioè un uomo diviso fra opposte esigenze spirituali, allarmato e spaventato dal fosco avvenire che avanza col cosiddetto “progresso”, e tuttavia in qualche modo cosciente dell’impossibilità di un puro e semplice ritorno al passato, cui pure il suo cuore desideroso di pace anela incessantemente. Come il Petrarca del Secretum, che come lui visse in un’epoca di faticosa transizione tra un passato che non vuol morire e un futuro che stenta ad affermarsi, potrebbe dire di sé stesso: “Quel doppio uomo che è in me.”

Infatti la sua vita movimentata, i frequenti spostamenti, i bruschi passaggi dalla povertà alla ricchezza e viceversa, le metropoli occidentali, i porti del Vicino Oriente, le stesse apparentemente opposte esigenze del suo estro letterario: un realismo disadorno e antiromantico e,  contemporaneamente, un’attrazione invincibile per l’ignoto e il mistero: tutto questo ne fa lo scrittore romeno la cui vita più ricorda quella di Jack London, e non solo per il dato biografico esteriore ma anche per quella consapevole fragilità dissimulata dietro una facciata di energico e infaticabile volontarismo. E a Jack London somiglia anche per l’amaro pessimismo, mitigato solo dal senso rasserenatore della madre natura; mentre la donna, in Petrescu (come in London) non è e non può essere elemento rasserenatore, poiché non sa mantenere le promesse seducenti del suo fascino misterioso e si rivela anch’essa, anzi, parte della dolorosa disillusione, del drammatico disinganno che la vita implacabilmente riserva anche a coloro che si erano illusi di dominarla a piacere.

E dopo Jack London, Honoré de Balzac. Con Balzac esiste una sintonia quasi perfetta sia nell’atteggiamento realistico di chi vuol cogliere tutta la realtà senza infingimenti; sia nell’ambizione di poterla abbracciare, analizzare e descrivere in ogni sua manifestazione, in ogni classe sociale e in ogni tipo umano; sia, infine, nell’identificazione col giovane ingenuo di belle speranze che la dura realtà del mondo, e particolarmente della grande città smaliziata e corrotta, riporta bruscamente dalla poesia alla prosa più arida e meschina della vita umana: come il protagonista di Illusioni perdute del grande romanziere francese. In lui c’è una curiosità spontanea verso il dato umano, verso il meccanismo, per così dire, delle passioni, dell’ambizione, della brama di vivere da cui, schopenhauerianamente, d’istinto, si ritrae pieno di angoscia, scoraggiamento e delusione. Sente che il male è lì, in quell’ardente desiderio di vita, in quell’attaccamento irrazionale alle cose, in quella volontà di successo e di godimento che si trasforma in un meccanismo feroce, spietato e che lancia gli uomini gli uni contro gli altri, per superarsi e sopraffarsi a vicenda. Intuisce tutta la bruttezza di un modo di essere puramente egoistico e utilitaristico, di una ricerca illimitata di felcità che si traduce, inevitabilmente, in uno scacco bruciante e traumatico. “I want to be happy”, risuonano le note della canzone americana nell’ edificio di Calea Victoriei; e questa umanità che si affanna disperatamente in una ricerca del piacere senza fine e senza pace,  suscita in lui una reazione di pena profonda, di rammarico impotente, ma anche, si direbbe, di ripulsa e di disgusto, come davanti a uno spettacolo di pagliacci mal riuscito, chiassoso e volgare.

 Certo, vi è anche una buona dose di filosofia leopardiana in tutto ciò: il male non è solo nel fatto di desiderare incessantemente, di bramare senza limiti una felicità che per sua stessa natura non può che essere indefinita e illimitata, dunque irraggiungibile; il male è a monte e sta proprio nel fatto di esistere, di esserci. Per dirla con Heidegger, siamo esseri-per-la-morte ed il nostro dramma sta nel Da-sein, nella colpa originaria di esserci.

E un altro accostamento ci sembra indispensabile per capire la dimensione letteraria di Cezar Petrescu: quello con Lucrezio. Come il grande poeta latino del De rerum natura, egli cerca istintivamente un sollievo alla pena di vivere nel ritorno confidente al grembo della natura amica, spoglio (rousseianamente) di amibizioni e malizie proprie dell’”uomo civile”, cioè dell’uomo infelice perché lontano dalle proprie radici; ma al tempo stesso, sente che la natura non è fatta per l’uomo, che persegue un suo disegno imperscrutabile di cui noi siamo solo miseri strumenti. Anche per questo, forse, nell’opera narrativa di Petrescu non vi è mai l’incontro gioioso e costruttivo fra l’uomo e la donna; i sessi combattono anch’essi una battaglia spietata e incessante per il piacere e per la supremazia, un darwiniano bellum omnium contra omnes. Le braccia della donna sembrano accogliere l’uomo innamorato e fornire un sollievo alla sua arsura interiore, al suo divorante desiderio di felicità che è, in fondo, inconscio terrore della morte e inconscio desiderio di immortalità; ma in essa non si cela che l’ennesimo inganno, l’ennesima amara delusione, forse la più bruciante di tutte: e di nuovo il pensiero torna al Martin Eden di London. Sembra piuttosto che la natura si serva dei nostri desiderii, delle nostre atroci illusioni, della nostra divorante ricerca della voluttà per qualche suo fine nascosto, forse per la pura e semplice perpetuazione della specie.

 È, ancora una volta, la schopenhaueriana volontà che spinge gli esseri a protendersi, ad affannarsi verso la vita, la radice di tutti gli inganni e di tutte le sofferenze. Per dirla con le parole di Enea al padre Anchise nei Campi Elisi (Virgilio, Eneide, VI, 721). Quae lucis miseris tam dira cupido? (“Infelici, cos’è mai questa brama funesta del giorno?”). Possibile che gli uomini abbiano una tal smisurata e scomposta brama di vivere, dopo che la vita ha loro rivelato tutta la sua crudele insensatezza?

Ancora, questo particolare atteggiamento nichilistico, non solo di pessimismo antropologico, ma di pessimismo (ancora con Leopardi) cosmico, è senza dubbio alla radice di un altro aspetto caratteristico della produzione letteraria di Petrescu: l’interesse per l’infanzia, per il mondo puro ed ingenuo dei bambini. Questo interesse lo ha spinto a scrivere per loro alcuni dei suoi libri più belli, pieni di poesia e di struggente malinconia, come il celebre Fram, ursul polar. Ma avremo occasione di riparlarne.

L’evento decisivo nel percorso umano e letterario di questo Autore non è un evento privato, ma una grande, irreparabile tragedia collettiva: la prima guerra mondiale, al rombo dei cui cannoni tutta la patriarcale vita romena viene scossa dalle fondamenta, e un’intera generazione viene assassinata spiritualmente: sarà il tema della sua opera forse più famosa: Intunecare. Quando il governo Bratianu, dopo lunghe e tormentose incertezze, dichiara guerra all’Austria-Ungheria ed invade la Transilvania, nell’agosto 1916 (trascinato sia dalla conquista italiana di Gorizia, sia dagli effimeri successi dell’offensiva Brusilov in Galizia e Bucovina), Cezar Petrescu è un giovane di ventiquattro anni che, come tanti suoi coetanei, viene arruolato e spedito al fronte. Grande è l’entusiasmo della borghesia nazionalista, ma scarso quello dei contadini, assillati (proprio come era accaduto in Italia l’anno prima) dalla preoccupazione di dover lasciare i campi abbandonati nel pieno del ciclo agricolo, e troppo poveri, sfruttati e analfabeti per comprendere le rivendicazioni territoriali, che vanno molto al di là della Transilvania poiché comprendono le contee esteriori di Szatmàr (Satu Mare), Bihor e Arad, o Piccolo Alföld, sin nei pressi di Szeged, il Maramures e l’intero Banato. E solo nove anni prima quei contadini si erano ribellati alla loro intollerabile condizione di servaggio, e avevano visto i fucili dell’esercito rivolgersi e sparare contro di loro!

Le illusioni di una facile e rapida vittoria s’incrinano e vanno in pezzi nel giro di poche settimane. Dopo una serie di battaglie disperate per impadronirsi dei passi carpatici prima che la neve li blocchi, le truppe austro-tedesche del generale von Mackensen riescono a sboccare nella pianura valacca e il 6 dicembre entrano a Bucarest, sgombrata in fretta e furia sotto un tempo piovoso e inclemente. Il dispositivo militare romeno è stato spazzato via in poco più di tre mesi. La nazione, però, non si arrende: nell’ora della catastrofe (come l’Italia un anno dopo, a Caporetto) ritrova orgoglio e unità e decide di proseguire la lotta, nonostante il naufragio di tante speranze. Il governo si trasferisce a Iasi, il fronte si stabilizza dietro il Siret e l’esercito si riorganizza, durante l’inverno, nella Moldavia.

Nell’estate del 1917 gli Austro-Tedeschi muovono nuovamente all’attacco: ma questa volta non hanno di fronte le truppe impreparate e mal dirette dell’anno prima, bensì un esercito rinnovato nello spirito, nelle armi e nei rifornimenti. Operando per linee interne e, questa volta, ben diretto a livello di comandi, l’esercito romeno compie il piccolo miracolo di vincere una serie di gloriose battaglie difensive, mandando a vuoto gli ambiziosi piani del nemico. Ma dopo le rivoluzioni russe del 1917, e specialmente dopo quella di Ottobre, il venir meno della copertura sul fianco destro rende impossibile sfruttare il successo e costringe il governo a chiedere l’armistizio nel dicembre e a firmare l’onerosa pace di Bucarest, il 7 maggio 1918. Ma non è finita: in autunno si annuncia il crollo degli Imperi Centrali, preceduto dalla resa di Turchia e Bulgaria; il 9 novembre l’esercito romeno riprende la lotta e il 28, ad Alba Iulia, i consigli nazionali delle terre “irredente” proclamano l’unione con la Romania. Essa viene poi ratificata nel trattao di pace di Saint-Germain-en-Laye del 10 settembre 1919, che accoglie gran parte delle rivendicazioni romene.

Cezar Petrescu vive in prima persona gli avvenimenti della prima guerra mondiale: le illusioni dell’estate 1916, la disfatta dell’autunno-inverno, la fervida ripresa del 1917, l’armistizio e poi, di nuovo, la conclusione vittoriosa del conflitto. Nonostante l’aspetto solido, il suo fisico cova la malattia da cui, allora, solitamente non si guarisce: la tubercolosi. Con questa sentenza di morte scritta nelle sue cartelle cliniche, viene ritirato dal fronte e relegato nell’amministrazione di una zona delle retrovie. Lì dovrebbe attendere la morte; invece guarisce: la vita lo ha graziato, quella vita che in giovinezza ha amato con trasporto, con voluttà, abbeverandosi – come scrive Agnesina Silvestri-Giorgi, sua traduttrice - a tutte le fonti, mordendo golosamente a tutti i frutti.

Il ritorno a casa, al tempo di pace, contrariamente a tutte le aspettative non è quell’evento gioioso che a lungo i giovani soldati hanno aspettato. Qualcosa, dentro quella generazione, si è spezzato: ne parlerà nel suo romanzo Intunecare, delineando un’analisi lucidissima e sconsolata non solo e non tanto dei suoi casi personali, ma di una intera generazione “perduta”. Petrescu, come tanti suoi commilitoni e non solo romeni, ma di tutto il mondo, ha creduto che i sacrifici durissimi, le sofferenze spirituali e materiali della spaventosa carneficina sarebbero almeno stati compensati e moralmente riscattati, se non giustificati, da un’èra nuova di pace, comprensione e autentico progresso: cioè non solo da un maggior benessere economico (che peraltro, nella Romania e in gran parte dell’Europa del primo dopoguerra, tardava ad arrivare), ma altresì da una più ampia e comprensiva coscienza etica, da una nuova – si direbbe oggi – “qualità della vita”. Ora tutto ciò si rivela una misera illusione: tutta una classe di nuovi ricchi, di profittatori di guerra, di affaristi senza scrupoli, di donne sfrontate si fa avanti; tutto un mondo verminoso di pescecani che arraffano a man  bassa e si fanno strada brutalmente, sfruttando lo smarrimento morale, il tragico disorientamento di quanti hanno fatto davvero la guerra, e vi hanno trovato soltanto la tomba dei loro ideali e della loro giovinezza. Per essi, come per Radu Comscia, il protagonista (velatamente autobiografico) di Intunecare, la fine della guerra non porta altro che una sveviana “senilità” che non è cronologica – sono appena dei trentenni -, ma psicologica e coincide con una specie di disgusto esistenziale, di precoce avvizzimento dell’anima.

Abbiamo detto che Petrescu, insieme a Gib Mihaescu (che, malato di tisi, a differenza di lui muore ancor giovane, nel 1935, a soli quarantun anni) fonda nel 1921 la rivista Gandirea. Abbiamo anche visto che tutte queste riviste letterarie, nella Romania dell’epoca, non esprimono solo le tendenze estetiche di questo o quel movimento letterario, ma sono anche, quasi sempre, le ispiratrici, o le portavoce, di altrettante vere e proprie ideologie sociali. Stando così le cose, come si colloca Gandirea nel panorama culturale del primo dopoguerra, e a quali posizioni politico-sociali si ricollega?

Diciamo subito che, come sul piano artistico Gandirea vuole essere il punto di riferimento dei valori della tradizione (quindi, ancora una volta, del mondo rurale, ma in una fase storica in cui esso è minacciato dall’avanzata chiassosa e disgregatrice della società affaristica e industriale di stampo americaneggiante), sul piano culturale e, indirettamente, sociale essa promuove un esperimento veramente notevole: l’alleanza dell’elemento nazionale, che in genere tende a divenire nazionalistico, con l’elemento religioso bizantino-ortodosso. È chiaro che i tradizionalisti (d’ora in poi li chiameremo così) avvertono tutta la crisi di valori, tutto l’abisso spaventoso di relativismo nichilista che si è aperto come conseguenza della prima guerra mondiale; essi percepiscono chiaramente che l’Europa, ferita a morte e confusa, sta rischiando di perdere la propria anima, e che un paese come la Romania, retto ancora da strutture sociali di tipo patriarcale, subirà in modo anche più brusco e traumatico il passaggio verso i tempi nuovi, dominati dall’ossessione edonistica e dalla frenesia produttivista.

Il pericolo, dal punto di vista politico-sociale, è che il rifiuto della “modernità” e della “occidentalizzazione forzata” (per usare due espressioni recentissime e dunque anacronistiche, ma ugualmente efficaci) finisca per sospingere gli intellettuali tradizionalisti verso esiti politici chiaramente reazionari, come avviene, di fatto, per Nichifor Cràinic (pseudonimo di Ion Dobre), che nel 1926 prende in mano il movimento e gli dà un indirizzo più spirituale che letterario (come osserva Gino Lupi), il cosiddetto gandirismo.  Crainic finisce per aderire al fascismo, come del resto Rebreanu  - lo abbiamo già visto; in lui c’è una vena di misticismo esaltato e piuttosto nebuloso che lo accomuna, effettivamente, alla sensibilità della “mistica” della Guardia di Ferro, o almeno dei suoi massimi teorici, Corneliu Codreanu e Ion Mota. Crainic, che da giovane ha studiato in seminario e poi ha insegnato teologia a Cernauti,  sostiene che la cultura romena deve ritrovare le proprie autentiche radici nella Chiesa bizantino-orientale in nome di un “senso teologico del bello”, in opere come Puncte cardinale in haos (Punti cardinali nel caos), del 1936; Nostalgia paradisului (Nostalgia del paradiso) e Ortodoxie si etnocràtie  (Ortodossia ed etnocrazia), entrambe del 1940. Nella Romania degli anni trenta egli svolge una funzione culturale (e indirettamente politica) per certi aspetti non dissimile da quella di Guénon in Francia e di Evola in Italia: indica nella secolarizzazione il male principale del mondo moderno e, nel ritorno al sacro, l’unica possibile via d’uscita dal naufragio morale ormai prossimo.

Non sarebbe assolutamente giusto, tuttavia, bollare come reazionario tutto il movimento tradizionalista, nel quale, in realtà, convergono più anime e ispirazioni diverse. Il comun denominatore è la lotta contro il modernismo e contro gli eccessivi influssi stranieri, specie francesi, che dopo il 1918 si fanno ancor più forti, anche per il particolare quadro politico dell’Europa post-bellica, in cui la “Piccola Intesa” formata da Cecoslovacchia, Iugoslavia e Romania si contrappone al revisionismo ungherese e diviene, di fatto, lo strumento politico-militare della Francia nell'area danubiana e balcanica (come la Polonia di Pilsudski lo è, in funzione antitedesca e antisovietica, nell’area baltica). A parte questo, c’è posto per tutti coloro che non sono disposti ad assistere con le mani in mano alla dissoluzione dei vecchi valori, né a rinunziare alla volontà di riscatto civile delle masse contadine, secondo il vecchio spirito del seminatorismo.

Poiché sono decine gli scrittori che si riconoscono, più o meno esplicitamente, nel tradizionalismo, ricorderemo solo pochissime figure di spicco: i poeti Ion Pillat (1891-1946) e Vasile Voiculescu (1884-1963); il drammaturgo di origine macedo-romena Victor Eftimiu; e, tra i romanzieri, oltre naturalmente a Cezar Petrescu, il già citato Gib Mihaescu; Matei Ion Caragiale, nipote di ion Luca (1885-1936); George Mihail Zamfirescu (1898-1939); e infine Ionel Teodoreanu (1897-1954), delicatissimo interprete del mondo dell’infanzia, specialmente nella trilogia La Medeleni (A Medeleni, 1925-27), soffusa di un impareggiabile alone di poesia che ricorda, nella grande capacità di penetrazione psicologica, certe atmosfere del miglior Pascoli.

Dicevamo che le idee politico-sociali, all’interno del movimento tradizionalista, sono abbastanza variegate e non coincidono necessariamente con una scelta di campo di estrema destra, come quella di Nichifor Crainic (che pagherà per essa, trovando la morte in carcere). Il caso di Cezar Petrescu ricorda, anche in questo, quello del suo maestro ideale, Mihail Sadoveanu, che, insieme alla stragrande maggioranza degli intellettuali romeni, decide di rimanere nella Repubblica popolare sorta nel 1947. Ma, come scrittore, egli ha concluso la sua fase veramente creativa tra la fine degli anni Trenta e la metà degli anni Quaranta; l’ultimo libro importante è Tapirul, del 1946. Egli ha solo cinquantaquattro anni, ma l’intensa attività letteraria lo ha come precocemente logorato. Muore a Bucarest il 9 marzo del 1961.

Coerente con le sue idee, fin dal 1937 lo scrittore aveva disertato l’atmosfera convulsa e moralmente disordinata della capitale per ritirarsi