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Sulla povertà. Alcune riflessioni.

di Carlo Gambescia - 05/10/2007

 

“Nel 2006 le famiglie che vivono in situazioni di povertà relativa sono 2 milioni 623 mila e rappresentano l’11,1% delle famiglie residenti; si tratta di 7 milioni 537 mila individui poveri, pari al 12,9% dell’intera popolazione. La stima dell’incidenza della povertà relativa (la percentuale di famiglie e di persone povere sul totale delle famiglie e delle persone residenti) viene calcolata sulla base di una soglia convenzionale (linea di povertà) che individua il valore di spesa per consumi al di sotto del quale una famiglia viene definita povera in termini relativi. La spesa media mensile per persona rappresenta la soglia di povertà per una famiglia di due componenti che, nel 2006, è risultata pari a 970,34 euro (+3,6% rispetto alla linea del 2005)” […].Tenendo conto di quanto detto, nel 2006 la stima dell’incidenza di povertà relativa è risultata pari all’11,1%, valore che, con una probabilità del 95%, oscilla tra il 10,5% e l’11,7% sull’intera popolazione”
(Fonte: Istat - 4-10 -2007).


Ci sono vari modi di percepire la povertà. E quello della povertà relativa è uno di questi. Ora, su tali basi, che ad esempio escludono i poveri “assoluti” e gli immigrati, con i quali giungeremmo, grosso modo, almeno a 12, e per alcuni a 15 milioni di individui, la povertà viene presentata come un dato stabile e tutto sommato gestibile, attraverso interventi di welfare, eccetera.
In realtà, sul piano socioculturale, le cose stanno diversamente, come gli addetti ai lavori sanno perfettamente. Dare per scontata e gestibile la presenza di sette-dieci-dodici milioni di poveri, significa ammettere ( e accettare) che in alcune aree sociali continui a prevalare una avvilente e "paralizzante" cultura della povertà.
Che cos’è la cultura della povertà? E’ un forma di secessione socioculturale: il povero accetta di comportarsi da povero, introiettando la sua condizione di esclusione sociale. Alcuni di essi la imputeranno alla società, altri alla propria incapacità, altri ancora a un destino individuale avverso, mentre per alcuni (pochi per la verità), la povertà sarà addirittura giudicata una scelta di vita.
In buona sostanza, il “culturalmente” povero ( o quasi povero) non programma la propria vita e non riesce a sviluppare relazioni sociali e culturali adeguate a una positiva integrazione sociale, se non all’interno della sua stessa cerchia. E spesso, il "culturalmente" povero giudica inutile qualsiasi tentativo di ascendere socialmente per sé e per la sua cerchia familiare e sociale.
Ora, pensare di risolvere a livello politico il problema della povertà con il solo aumento dei trasferimenti finanziari (cosa, tra l'altro, oggi difficilmente realizzabile nel quadro di politiche neoliberiste), è a dir poco ingenuo. Dal momento che la povertà può essere combattuta solo puntando sulla progressiva scomparsa, o comunque forte riduzione in termini di incidenza, della “ cultura della povertà”. Ma come?
Ad esempio, la presenza di periferie-ghetto non giova assolutamente alla mobilità sociale e professionale, e dunque allo sviluppo di aspettative. Una società “bloccata”, come quella italiana, dove, grosso modo, il 60 % dei figli svolge la stessa professione paterna o materna, o comunque rimane all’interno della stesso segmento sociale, soprattutto se di condizione inferiore, certamente non favorisce lo sviluppo dei processi di mobilità sociale. Infine, la pessima qualità della scuola e dell’università (tra l’altro sempre più costosa e a numero chiuso), completano, purtroppo, un quadro sociale di crescente immobilità.
Parliamo, ovviamente di una società come quella italiana, di tipo occidentale, dove esistono un ceto medio diffuso e un livello di vita, che in termini di consumi e di strutturazione, anche fisica, della vita urbana, tendono a occultare le sacche di povertà.
Diciamo, concludendo, che la società italiana, sembra aver rinunciato a combattere concretamente la diffusione, o comunque il consolidamento di una cultura della povertà. Perché è lì il vero problema: la povertà, ripetiamo, oltre a essere una condizione economica è soprattutto un fatto socioculturale.