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Pagare per le foreste in piedi

di Marinella Correggia - 05/10/2007

 

 

Kevin Conrad è inviato speciale della missione di Papua Nuova Guinea presso l'Onu ed è incaricato di seguire le questioni dell'ambiente e dei cambiamenti climatici. In un'intervista all'agenzia stampa Inter Press Service ha parlato come direttore esecutivo della Coalition of Rainforest Nations (Crn), la coalizione dei paesi detentori di importanti foreste, bene comune dell'umanità, protettrici del clima e della biodiversità. Ecco la sua denuncia: «Il Protocollo di Kyoto non incentiva i nostri paesi a conservare le proprie foreste: anzi, con i loro incentivi «perversi» ci spingono a distruggerle. Legname, caffé, soia, zucchero, fiori e altri beni da esportazione possono essere prodotti in quantità nei paesi in via di sviluppo solo deforestando sistematicamente». Allora, la Crn chiede un approccio diverso nei negoziati verso un nuovo Protocollo sul cambiamento climatico, il post-Kyoto da avviarsi nel 2012. Se ne discuterà a Bali, il prossimo dicembre, alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
Come si sa, il Protocollo di Kyoto prevede un ben misero taglio alle emissioni di gas serra, pari al 5 per cento. Quasi il 20 per cento delle emissioni totali dipende dalla deforestazione. Fra il 1989 e il 1995, le emissioni globali di gas serra derivanti dalla deforestazione sono arrivate a 5.000 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Il Protocollo di Kyoto permette ai paesi industrializzati - che obbliga a ridurre le emissioni - di «alleggerirsi» investendo, nei paesi in via di sviluppo, in progetti sostenibili. Paradossalmente, le attività di conservazione delle foreste in piedi non rientrano in questo meccanismo. Eppure, includere le foreste nel patto sul clima - cioè inserire nel commercio globale del carbonio i tagli alle emissioni da parte delle aree forestali primarie significherebbe rendere «appetibili» per i paesi del Sud le attività di preservazione e conservazione delle foreste. Lo dicono gli scienziati dell'indonesiano Centre for International Forestry Research (Cifor). E fanno un calcolo astronomico: tenere in piedi il servizio climatico reso dalle dense paludi di torba tropicale del paese (20 milioni di ettari, il 60 per cento del totale mondiale) che sono naturali magazzini di carbonio, potrebbe fruttare all'Indonesia 900 miliardi di euro, se si calcolano 200 euro per tonnellata di carbonio, il prezzo che si paga ad esempio in Germania. Ma anche una cifra inferiore, basterebbe a evitare che queste paludi siano bruciate o drenate (con grande liberazione di carbonio) per trasformarle in piantagioni di palma da agrodiesel per l'export. Conrad del Crn spiega con semplicità: «Se riduciamo la deforestazione, dobbiamo ricevere una compensazione. Una tonnellata di carbonio è una tonnellata di carbonio è una tonnellata di carbonio».
Fra le cause della deforestazione nei paesi in via di sviluppo, oltre alla produzione di beni da esportazione, c'è il bisogno di fonti energetiche a basso costo, e di progetti infrastrutturali come strade, miniere e linee elettriche. Cause che ogni anno generano, nei soli Brasile e Indonesia, la perdita di almeno 5 milioni di ettari. Di recente, come ben sappiamo, in Indonesia e Africa si sono aggiunte le piantagioni di palma da agrodiesel.
Altri paesi tropicali come il Sudan, Myanmar e lo Zambia perdono oltre 400.000 ettari all'anno. Fra il 1990 e il 2000, secondo lo studio Global Forest Resources Assessment (Fra) della Fao, l'Africa ha visto ridursi la copertura forestale al ritmo di cinque milioni di ettari all'anno.
Ovviamente la perdita delle foreste pluviali, oltre all'impatto climatico devastante, ha altrettanto enormi ripercussioni locali: dal degrado della qualità delle acque di laghi e fiumi, al cambiamento del regime delle acque, alla decimazione della biodiversità, alla prevenzione di processi naturali fondamentali in agricoltura, come l'impollinazione. Invece pagare per le foreste in piedi, per il clima e il resto, darebbe anche risorse finanziarie per progetti contro la povertà rurale.