“1984” di Orwell: un romanzo attuale
di Mario Consoli - 20/12/2005
Fonte: Rinascita
Si è tornati a leggere su libri e giornali con crescente frequenza di George Orwell e del suo romanzo 1984.
Si tratta di un argomento di indubbia attualità: l’autore immagina infatti una tirannia basata sul controllo e la manipolazione dell’informazione e sulla più rigida e spietata repressione di ogni forma di libertà politica e intellettuale. Chi sgarra commette la colpa delle colpe, lo «psicoreato», che provoca una scomunica sociale con conseguenze tremende, definitive.
«Lo psicoreato non comporta la morte, esso è la morte».
Il personaggio della vicenda si chiama Winston Smith, «l’ultimo uomo in Europa», come Orwell in un primo momento voleva intitolare il libro. Smith lavora al Ministero della Verità, dove è incaricato di «riscrivere», secondo le esigenze del momento, le notizie che riguardano il passato, bruciare i documenti originali e sostituirli con quelli «rielaborati».
Smith sapeva, ma forse era l’unico rimasto ad avere una memoria storica e voglia di conoscere. «Libertà è la libertà di dire che due più due fa quattro», continuava a ripetersi. «Non era vero, come sostenevano le cronache, che il Partito aveva inventato gli aeroplani. Lui gli aeroplani se li ricordava fin dalla più remota infanzia, ma non si poteva dimostrare nulla. Non esistevano più le prove».
Si sentiva tragicamente solo. L’ultimo uomo ad avere qualche brandello di conoscenza e, soprattutto, qualche interesse a conservarla.
«Ma questa conoscenza, dove si trovava? Solo all’interno della sua coscienza, che in ogni caso sarebbe stata presto annientata. E se tutti quanti accettavano la menzogna imposta dal Partito, se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera. “Chi controlla il passato” diceva lo slogan del Partito “controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”».
Il Ministero della Verità si occupava anche di redigere la «neolingua», che consisteva in una progressiva semplificazione del linguaggio: un numero sempre più ridotto di vocaboli e una costruzione sempre più essenziale della fraseologia. Un lavoro incessante di forbici: vocabolari con sempre meno pagine. Più la neolingua si faceva scarna, più facilmente le comunicazioni – sia pubbliche che private – erano controllabili. E non solo: «Lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero. Alla fine renderemo lo psicoreato letteralmente impossibile, perché non ci saranno più parole con cui poterlo esprimere».
La popolazione era divisa in due. Da una parte la maggioranza, i «prolet», verso la quale non vi erano preoccupazioni di sorta: nessuno di loro si interessava alla politica o ambiva a carriere di potere; lavoravano, si distraevano con la pornografia che gli veniva ammannita in abbondanza, si divertivano, procreavano, si ubriacavano; una massa informe e spersonalizzata. I prolet non avrebbero mai potuto ribellarsi.
Poi c’era l’ampia classe dirigente che si occupava di tutto; una moltitudine di burocrati e funzionari estremamente inquadrata e controllata. Attraverso una capillare rete di televisori ricetrasmittenti ogni frase era intercettata, ogni movimento sorvegliato, mentre incessantemente erano divulgati i comunicati del Partito. Un indottrinamento continuativo e martellante.
Winston Smith, per scrivere qualche riga su un diario, era costretto a rannicchiarsi in un angolo dietro allo schermo: l’unico punto della casa dove l’occhio del Grande Fratello non arrivava.
Come Orwell, con sorprendente intuizione, abbia previsto il nostro tempo ce lo confermano l’uso di un vocabolario oggi sempre più scarno e internazionalizzato, le diffuse intercettazioni telefoniche, dei fax, delle e-mail, l’opportunità di utilizzare i computer come microfoni ambientali, e ancora la possibilità di individuare un cellulare, anche se spento, la facilità con la quale si possono ricostruire attività e spostamenti di un individuo attraverso il Bancomat, le carte di credito e il Telepass.
Oggi anche in Europa, come già da parecchi anni in America, è guardato con sospetto, quasi fosse un malvivente, chi si ostina a pagare in contanti. Evidentemente si subodora un eccessivo attaccamento alla riservatezza e una preoccupante insofferenza verso i controlli; un embrione di psicoreato.
In 1984 solo la scenografia, rispetto ad oggi, è sbagliata. Quando Orwell scrisse il romanzo si profilavano nel mondo due tirannie: quella sovietica e quella finanziario-capitalista; lo scrittore immaginò l’affermazione della prima e quindi inserì la sua storia nel grigiore di un regime sovietizzato.
Nella realtà ha poi vinto l’altra tirannia e, invece dei grigi abiti tutti uguali, c’è lo sgargiante abbigliamento consumista; invece dello scadente «gin Vittoria» ci sono gli spinelli, le pasticche e la cocaina. Per il resto tutto come previsto. Solo qualche discordanza di ordine estetico, assolutamente ininfluente.
Tutto come previsto: siamo alla tirannia del Grande Fratello, dell’informazione controllata e preconfezionata; siamo nel tempo dello psicoreato e della totale omologazione.
C’è un altro elemento di preveggenza nell’opera dello scrittore inglese. L’Oceania, il regno del Grande Fratello – la cui capitale è Londra – è in perenne stato di guerra. Per lo più una guerra lontana, tanto che spesso Smith si domanda se si tratti di un reale conflitto o solo di una artificiosa falsa informazione utile a conservare in soggezione la popolazione, chiederle sacrifici, farle vivere un solidale sentimento di odio.
Ma ci sono anche le bombe-razzo che cadono vicino e fanno danni e vittime, e che finiscono per fugare nella maggioranza ogni possibile dubbio sull’esistenza del nemico. Come oggi. Ma «le bombe-razzo che cadevano tutti i giorni su Londra erano probabilmente sganciate dallo stesso governo dell’Oce-ania, per mantenere la gente nella paura».
E, come oggi, ogni diritto viene sacrificato sull’altare della lotta al terrorismo.
Sicuramente nessuno poteva immaginare nel 1948, quando Eric Blair – vero nome dello scrittore da tutti conosciuto con lo pseudonimo di George Orwell – scriveva la sua opera di fantapolitica, che nel 2005 un altro Blair – Tony, primo ministro inglese – avrebbe affermato, sull’onda mediatica orchestrata sul terrorismo internazionale – come già fatto da Bush negli USA –, che occorre emendare la carta dei diritti umani; che i giudici possono ordinare arresti anche in assenza di prove; che vanno istituiti tribunali speciali e che questi devono essere tenuti segreti; che è opportuno limitare i diritti legali della difesa; che il termine della detenzione preventiva deve essere portato dagli attuali 14 giorni ai tre mesi. E altre cosucce del genere. Sembra proprio di ascoltare il Grande Fratello orwelliano e di vederne, sul teleschermo, gli occhi minacciosi e penetranti.
Un’ulteriore curiosa concidenza: il funzionario chiamato dal primo ministro inglese a realizzare tecnicamente questa sequela di provvedimenti liberticidi, si chiama anche lui Blair, Ian, attuale capo della polizia britannica.
Ma torniamo alla sostanza del libro: «La consapevolezza di essere in guerra, e quindi in pericolo, fa sì che la concentrazione di tutto il potere nelle mani di una piccola casta sembri l’unica e inevitabile condizione per poter sopravvivere». E ancora: «Non importa che la guerra sia combattuta per davvero e, poiché una vittoria definitiva è impossibile, non importa nemmeno se la guerra vada bene o male; serve solo che uno stato di belligeranza persista».
Sembra proprio di sentir parlare di Osama Bin Laden e del mullah Omar, i mitici e introvabili nemici del Grande Fratello democratico, delle fantomatiche armi di distruzione di massa di Saddam, dell’individuazione di sempre nuove Nazioni canaglia contro cui combattere.
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Sia nell’opera di Orwell che nel tempo in cui viviamo incombe dunque, denso di significati ed evocatore di tragiche conseguenze, lo psicoreato.
Psicoreato non è sinonimo di «reato di opinione». è parecchio di più e, soprattutto, è qualcosa di molto diverso. Il reato d’opinione è istituito per legge, nero su bianco, codificando quelli che sono i valori, i simboli, le colonne portanti di un regime politico, e stabilendo che il vilipendio pubblico di queste cose non è consentito. Si tratta di una partita a carte scoperte: da una parte il potere e le sue regole pubblicamente dichiarate, dall’altra i potenziali oppositori con le loro opinioni. Una partita spesso dura, fortemente limitativa della libertà e quindi difficile da approvare, ma che si gioca ancora nell’àmbito di un chiaro confronto politico. Prevedendo quel tipo di reato non si nega infatti la legittimità di condividere le idee proibite o di pensare liberamente, si vieta di farlo in pubblico, cioè di propagandarlo.
Tra reato d’opinione e psicoreato c’è insomma un grande salto concettuale: per il primo il soggetto è l’opinione individuale o di parte, e quindi la libertà come condizione politica contingente, per il secondo il soggetto è una verità che si vorrebbe assoluta e quindi la libertà come valore. Si passa cioè dal politico al religioso. E si tratta di una religione che procede solo per dogmi, che peraltro sono sempre mutevoli, a capriccio delle convenienze del potere. E si tratta, per di più, di una religione che non ha nulla di sacro.
Per comportarsi bene oggi occorre essere politically correct, ma cosa questo significhi con esattezza non è scritto da nessuna parte.