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Caporetto, fine della Leggenda Nera

di Dario Fertilio - 06/10/2007

In occasione del novantesimo anniversario della battaglia di Caporetto, combattuta il 23 ottobre 1917 fra l’esercito italiano e quello austro-tedesco, lo storico Paolo Gaspari analizza più dettagliatamente i fatti che contribuirono a creare “la leggenda nera” della disfatta.
Attraverso l’analisi e il confronto dei memoriali dei circa diciottomila ufficiali italiani fatti prigionieri durante la Prima guerra mondiale, Gaspari propone come causa decisiva della sconfitta l’inferiorità italiana rispetto ad armamenti, addestramento e tattica di combattimento.
L’articolo offre sia un’introduzione alle diverse concezioni tattiche della Prima guerra mondiale sia una riflessione sulle esigenze e sulle strategie ideologiche del giovane Stato italiano.


Ma allora, a Caporetto le cose non andarono come ci avevano raccontato? Catastrofe fu, per gli italiani, sotto il fuoco congiunto degli austro-tedeschi; non scandalo però, né vergogna nazionale. E tutta la serie di libri, film, canzoni eccetera che hanno illustrato per decenni l’insipienza dei generali, lo sfacelo dell’esercito, l’inadeguatezza dei comandanti, la stanchezza delle truppe? [...] Ebbene, fu soltanto una leggenda nera. Una specie di sacra rappresentazione, con la discesa agli inferi seguita necessariamente dalla rinascita patriottica, mentre il Piave mormorava.
Peccato che ora, nel novantesimo anniversario dell’epica battaglia conclusa il 23 ottobre 1917 con lo sfondamento del fronte italiano, una massa imponente di testimonianze inedite cambi completamente i connotati al ritratto cui eravamo abituati. Merito dello storico Paolo Gaspari, che le ha scoperte e interpretate nel suo I nemici di Rommel, un libro che sarà al centro dei dibattiti durante le manifestazioni internazionali su Caporetto previste in ottobre. Ma anche, e soprattutto, omaggio a coloro che combatterono al meglio delle loro possibilità, lasciandosi alle spalle una fama ingloriosa quanto assolutamente immeritata.
Il compito di rappresentare tutti i «ragazzi di Caporetto» rimasti senza voce è riservato, nel libro di Paolo Gaspari, a ben diciottomila ufficiali italiani fatti prigionieri nel corso della guerra (i quattro quinti durante i quindici giorni della battaglia). È attraverso i loro memoriali, conservati nell’archivio dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, che è trapelata infine la verità. Cioè che la sconfitta, con successiva damnatio memoriae, non fu la conseguenza di una presunta inferiorità morale, o debolezza di carattere, della ancor giovane nazione italiana; piuttosto, l’esito scontato di un’inferiorità tattica, di addestramento e di armamento. La differenza la fecero le mitragliatrici leggere 08/15 capaci di sparare 550 colpi al minuto, trasportabili a spalla e in grado di annientare in pochi istanti un intero plotone. E, oltre ad esse, un sistema di comunicazioni fra i comandi e i reparti attraverso razzi, segnali ottici e radio; per non parlare del dominio dei cieli che consentiva alle truppe germaniche di sfruttare l’esatta conoscenza della posizione e della quantità di truppe che avevano di fronte. E, ancor più di tutte queste cose assieme, un’efficacissima tattica d’infiltrazione e attacco alle spalle per mezzo di minuscoli reparti — una dozzina di uomini comandati da un graduato e composti da uno o due mitraglieri protetti da sette fucilieri armati di bombe a mano. Agguati, aggiramenti, brevi scontri seguiti inevitabilmente, data l’esiguità delle squadre austro-tedesche, da rapide ritirate: qualcosa che potrebbe evocare alle generazioni d’oggi una guerriglia vietcong, non fosse per lo scenario alpino.
L’effetto di questa tattica fu micidiale sia per le perdite elevatissime provocate dalle mitragliatrici, ma forse soprattutto per la sorpresa e la paura conseguente delle truppe italiane: i racconti degli ufficiali concordano sul fatto che il nemico fosse quasi sempre dietro a una mitragliatrice, attaccando alle spalle o di fianco, mai davanti, a meno che non volesse soltanto distrarre l’attenzione dal vero punto di aggressione. Difficile immaginare un contrasto più grande — e un esito differente dei combattimenti — di quello che avvenne tra quei reparti mobili e micidiali che colpivano e fuggivano, e gli italiani addestrati alla guerra di trincea: fermi a difesa, con attenzione maniacale ad avere i collegamenti ai fianchi, mitragliatrici fisse, appoggio e protezione dell’artiglieria, camminamenti e gallerie per mettersi al riparo, e naturalmente la prospettiva del classico assalto finale alla baionetta.
I racconti dei diciottomila ufficiali, dopo essere rimasti a dormire negli archivi per quasi un secolo, ci raccontano dunque questa verità: i loro rapporti, scritti al ritorno dalla prigionia nel dicembre 1918, dovevano servire come memoria difensiva davanti a una commissione che era stata istituita per descrivere minuziosamente gli eventi di Caporetto e i motivi che avevano spinto tanti soldati a cedere le armi. Se anche molti di loro «ritoccarono » la realtà, dalla lettura risultano chiare le cause autentiche della disfatta. Tutte le altre ricostruzioni erano fortemente propagandistiche, cominciando dalle rappresentazioni interessate che vennero diffuse dagli storici austriaci e tedeschi: la resistenza fiacca degli italiani, lo sventolio di drappi bianchi, le capitolazioni di massa, le fughe precipitose eccetera. Particolari veri, ma non determinanti: fu così — anche grazie alle omissioni di parte italiana — che si formò la leggenda nera.
Già, ma perché questa reticenza a spiegare razionalmente una disfatta militare, che non aveva niente di metafisico? [...]
Il fatto è che il giovane Stato italiano, anziché costruire una sua versione dei fatti realistica, preferì rimuovere: non poteva tollerare, probabilmente, che il percorso verso l’unità nazionale apparisse costellato di sconfitte militari. Un volume di Adriano Alberti, già pronto in bozze nel 1923, avrebbe potuto rivelare, attingendo ai diari degli ufficiali, ciò che solo adesso viene pubblicato. Ma non vide mai la luce, e così proliferarono le distorsioni, le ricostruzioni parziali dei vincitori (soprattutto di Krafft von Dellmensingen, Schoerner e Rommel, che verrà celebrato qualche anno più tardi come «volpe del deserto»). Stranamente, benché si presenti invece come un magnifico giallo storico, non è mai stata fatta menzione invece del caso Ludendorff: il generale tedesco concepì la sua tattica vincente «mordi e fuggi» leggendo l’opuscolo di un capitano francese, André Laffargue, raccolto in una trincea francese. Quella tattica — come racconta lo stesso Ludendorff— consentì poi ai germanici di suonarle sode ai francesi fino alla Marna e agli inglesi in Piccardia. Non solo gli italiani, dunque, pagarono un caro prezzo. Novant’anni dopo, è tempo di considerare la tragedia della Grande Guerra con occhi più rispettosi e disincantati. Può darsi che la celebrazione dell’epos italico sia mancata a Caporetto, ma è quanto meno dubbio che ci fosse realmente bisogno — come sembra proporre Paolo Gaspari nel suo libro — di una «identità italiana in senso martirologico». [...]

Paolo Gaspari, I nemici di Rommel. I combattimenti sul Kolovrat il 24-25 ottobre 1917 nel racconto degli ufficiali italiani, Gaspari Paolo Editore, Udine 2007, pp. 281, € 18.