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Birmania

di Federico Rampini - 06/10/2007

Federico Rampini ricostruisce la storia della Birmania nel corso degli ultimi secoli. Innanzitutto viene esaminato il ruolo svolto da questo paese come veicolo di elementi culturali, religiosi e commerciali in tutta la regione indocinese. L’autore ricorda poi le numerose invasioni subite dalla Birmania da parte sia delle popolazioni confinanti sia delle potenze coloniali.
L’articolo ripercorre le fasi cruciali della storia birmana negli ultimi cinquant’anni: dall’indipendenza dalla Gran Bretagna, ottenuta nel 1948, passando per la nascita del regime dittatoriale instaurato nel 1962 dal generale golpista Ne Win, fino ai tentativi di svolta democratica del 1988 e del 1990, che videro la brutale repressione da parte dei militari al potere.


C’è voluto un feroce spargimento di sangue documentato in diretta su Internet, perché il mondo si ricordasse che esiste la Birmania (Myanmar come l’hanno ribattezzata i militari). È il destino antico di questo paese: oggetto del desiderio delle grandi potenze, può sprofondare in periodi di oblìo e di isolamento. Anello di congiunzione tra l’India, la Cina, la penisola indocinese e i mari del Sud-est asiatico, la Birmania da millenni è stata un canale per la circolazione di influenze culturali, religiose, economiche. Attraverso di lei sono passate carovane che venivano dalle provincie orientali dell’impero romano per trafficare coi mercanti cinesi; ha visto sbarcare pirati portoghesi, principi persiani e samurai. Ha avuto frequentatori illustri nella letteratura, da George Orwell a Somerset Maugham e Amitav Ghosh.
La Cina l’ha invasa più volte nei millenni, l’Inghilterra ha combattuto tre guerre per annetterla al Raj indiano, i giapponesi l’hanno occupata nella Seconda guerra mondiale infliggendole atrocità, Mao Zedong l’ha invasa nei primi anni Cinquanta. Se si aggiunge la guerriglia delle minoranze etniche che popolano i suoi confini con la Thailandia, l’India e la Cina, è difficile trovare un’epoca in cui la Birmania ha conosciuto la pace. Questo spiega perché la tradizione militarista è forte quanto la spiritualità religiosa. Hanno dimensioni pressoché uguali i due eserciti che si sono fronteggiati nei giorni scorsi: il mezzo milione di monaci e monache disarmati e non violenti; i 400.000 soldati che hanno aperto il fuoco sulle tuniche rosse e rosa.
È il 4 gennaio 1948 quando l’ultimo governatore britannico Sir Hubert Rance abbandona Rangoon. Cinque mesi dopo l’India anche la sua “provincia birmana” acquista la sua libertà. Ma l’autonomia è già macchiata di sangue. Il leader dell’indipendenza, il generale Aung San, è stato assassinato nel 1947 in un complotto di palazzo. Quando muore l’eroe dell’anticolonialismo sua figlia Aung San Suu Kyi ha appena due anni, crescerà all’estero con la madre fino all’età matura. Sotto il colonialismo inglese, poi l’occupazione giapponese e la lotta per l’indipendenza è cresciuto l’attuale capo della giunta militare, il 74enne Than Shwe, che non ha mai abbandonato la retorica “anti-imperialista” e la denuncia di “complotti occidentali”. La formazione di Than Shwe avviene negli anni Cinquanta nel Dipartimento Operazioni Psicologiche dell’esercito, un termine orwelliano per definire l’indottrinamento e il lavaggio del cervello. Than Shwe è nella squadra del generale golpista Ne Win che nel 1962 soffoca la giovane democrazia e impone la prima dittatura militare. A quell’epoca la Birmania è uno dei paesi più prosperi del sud-est asiatico, ha una produzione agricola superiore alla Thailandia ed esporta riso ai suoi vicini. La sua classe dirigente formata sotto l’influenza britannica è cosmopolita e rispettata, al punto da esprimere un segretario generale dell’Onu negli anni Sessanta, U Thant. Pochi decenni di “socialismo militare” bastano a ridurre la nazione in miseria. Oggi negli indici mondiali sulla corruzione è il peggiore paese insieme alla Somalia.
Aung San Suu Kyi assisteva al dramma della sua patria da Oxford, dove aveva sposato uno studioso inglese di letteratura tibetana, Michael Aris. È per ragioni familiari – sua madre colpita da un ictus – che rientrò a Rangoon nel 1988, proprio mentre le piazze erano invase da cortei di protesta per la crisi economica. Per lealtà verso la figura del padre scomparso Suu Kyi s’impegnò nella “primavera democratica”. Venne plebiscitata come una leader naturale del movimento. [...] Ne Win venne deposto dai suoi complici. I militari usarono il pugno di ferro contro le piazze – la repressione fece tremila morti, nell’indifferenza del mondo intero – e al tempo stesso concessero le elezioni nel maggio 1990. Erano certi di poterle manipolare. Trionfò invece la Lega per la democrazia guidata da Suu Kyi: 60% dei suffragi, 392 seggi sui 492 del Parlamento. Suu Kyi seppe della sua vittoria da detenuta: era agli arresti domiciliari dal 20 luglio 1989.
Da allora si sono alternati sprazzi di speranza, regolarmente delusi. A metà degli anni Novanta ci fu un allentamento della repressione. A Suu Kyi, che nel 1991 aveva ricevuto il Nobel della pace, fu concessa nel 1995 una libertà vigilata e qualche possibilità di dialogo con i suoi seguaci. [...] Ma nel 2003 Than Shwe ruppe il dialogo con i democratici, che era sostenuto discretamente dalle Nazioni Unite. Nel 2004 uno scontro di potere nella giunta militare si è concluso con il siluramento del generale Khin Nyunt, capo dei servizi segreti e numero tre del regime. Quel “golpe nel golpe” ha creato tensione col più potente alleato della giunta, il regime cinese. Khin Nyunt era l’uomo di Pechino, su cui la Cina contava per agevolare una transizione di Myanmar verso un’economia di mercato e una dittatura un po’ più soft. Nel 2005 la paranoia da assedio – oltre alla superstizione e ai consigli degli astrologi – ha indotto Than Shwe a dissanguare le casse dello Stato per spostare la capitale da Rangoon a Naypyidaw. Queste follie non hanno impedito la crescita dei legami economici e militari con la Cina. La Birmania esporta due miliardi di euro di gas naturale, è ricca di foreste, ha miniere di diamanti, è in una posizione-chiave per controllare gli accessi terrestri verso l’India e le rotte marittime che dalla Baia del Bengala finiscono in Medio Oriente. Questi sono i vantaggi strategici per la Cina. Una parte delle foreste birmane sono già state saccheggiate da imprese cinesi. Un progetto ancora più importante per Pechino è il gasdotto di 2.400 chilometri che trasporterà energia dalla costa di Arakan fino alla provincia dello Yunnan. La cooperazione militare include forniture di tecnologia bellica cinese per 1,5 miliardi di dollari. Alla giunta birmana le armi servono nella sua guerra continua contro le minoranze etniche (Karen, Cha, Wa) e adesso per schiacciare nel sangue la rivolta democratica. Alla Cina interessa trasformare Myanmar in una base operativa per sorvegliare tutto il traffico navale nell’Oceano indiano. Questo spiega il corteggiamento dei golpisti birmani a cui si dedica anche il governo dell’India. [...]