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Quella nuova trama di parole resistenti.Un'intervista con la scrittrice Arundhati Roy

di Daniela Bezzi - 07/10/2007

 


Un'intervista con la scrittrice Arundhati Roy.Dopo dieci anni passati a narrare l'India dal punto di vista dei movimenti sociali, il paese è ormai diventato una potenza economica. Un cambiamento che ha bisogno di una nuova messa a fuoco, senza ripercorrere il passato


Arundhati Roy è una scrittrice che non ha bisogno di molte presentazioni. Autrice di successo con Il dio delle piccole cose (Guanda), ha continuato a narrare l'India da una prospettiva molto diversa della letteratura. Ha scritto contro il fondamentalismo indù, la guerra in Afghanistan, in Iraq, gli «interventi di aggiustamento strutturale» del Fondo monetario internazionale in testi - Guida all'impero per la gente comune, L'impero e il vuoto, Guerra è pace, tutti pubblicati da Guanda - che costituiscono una sorta di storia di questi ultimo decennio dal punto di vista dei movimenti sociali. La scrittrice è in Italia per partecipare oggi - appuntamento alle 16,30, presso il Cinema Apollo - all'iniziativa oggi Internazionale a Ferrara, tre giorni di incontri con giornalisti e scrittori che la rivista Internazionale ha organizzato per il Comune di Ferrara.

Nei dieci anni dall'uscita dal primo romanzo, «Il dio delle piccole cose», hai scritto moltissimo, ma più come giornalista che come scrittrice...

Non mi considero una giornalista. Il lavoro del giornalista è coprire ogni giorno un certo numero di notizie. O al massimo indagare su determinati aspetti della realtà, quasi sempre già in parte noti. Credo che il mio lavoro possa definirsi narrativo anche quando metto la scrittura al servizio di un'inchiesta, nel senso che cerco di dare un filo (che per me è ricerca di senso, anche politico) a vicende e storie magari «note», che però sono così secondarie che non fanno Storia. Il mio è un lavoro di ricucitura. Rimessa a fuoco. Quadratura. Per restituire spessore a quel background di umori e corpi che il giornalismo non può rendere. Perchè c'è sempre meno tempo, perchè interessano altre notizie, perchè giornali e media cosiddetti mainstream devono vendere (e vendere sempre più pubblicità, non più solo notizie). Perchè anche i media hanno una loro politica, al servizio di precisi interessi.
A coloro che in questi dieci anni ti chiedevano «quando scriverai il prossimo libro?» hai sempre risposto «Quando ne sentirò il bisogno».

E tuttavia anche i tuoi saggi sono libri importanti per te...

Posso solo dire che ogni volta che mi sono posta il dilemma tra fiction e non fiction, ho sempre scelto per la seconda possibilità, perchè la fiction è totalizzante e assorbente: c'è un momento in cui ti senti preso dentro e non c'è modo di uscirne. Oltre al fatto che nel frattempo mi sono trovata completamente assorbita e sempre più dentro quella terrificante «narrazione» che è stata l'India di questi ultimi dieci anni.

Che cosa è successo in questi anni è abbastanza chiaro. Nel mio paese lo chiamiamo il «Grande furto». Nel frattempo, l'India si è affermata come nuova potenza economica, e a qualunque costo continuerà su questa strada. In che modo è possibile non dico opporsi, «resistere», ma anche solo «convivere» con quanto potrà ancora succedere in futuro è meno chiaro. E per dare forma a questo smarrimento, a questa perdita, è necessario un tipo di scrittura completamente diverso. Diverso non nel senso di: più o meno politico o più o meno narrativo. Diverso nel senso che tutti questi fatti e fili e note a piè di pagina che per dieci anni hanno nutrito la mia scrittura, devono trovare un nuovo modo di farsi trama.

Come sta andando questo tuo lavoro di rielaborazione?

A rilento. In parte per ragioni molto private. In parte perchè l'urgenza di intervenire su casi che mi stanno a cuore fa ormai parte di me, del mio modo di essere. Per esempio, è appena uscito sul settimanale Outlook un lungo articolo su un caso di abuso giudiziario per «disprezzo della Corte». Un «reato» che ha colpito anche me nel 2001 per aver osato criticare la Corte Suprema dell'India di collusione con determinati interessi economici in merito alla decisione di riprendere i lavori sulla diga Sardar Sarovar e contro una precedente ordinanza, che, se osservata, avrebbe salvato quanto allora rimaneva del fiume Narmada. Nel mio caso tutto finì con una ridicola sentenza (un giorno di prigione!) e un gran rumore sulla stampa solo perché ero un volto noto.

La vicenda al centro di questo mio ultimo scritto mette a fuoco l'usuale arroganza con cui il potere giudiziario in India può colpire qualsiasi «piccolo-grande» dissenso da parte di qualsiasi «piccolo-eroico» individuo o organo di informazione (in questo caso il quotidiano Mid Day di Delhi), ritenuto «colpevole» di aver osato denunciare interessi e collusioni del potere politico o giudiziario con il potere economico. Immagina la brutalità con cui una simile arroganza istituzionale può venire interpretata nelle più remote regioni dell'India contro chiunque tenti di opporsi agli «aggiustamenti strutturali» (questa è l'espressione usata per descrivere il sistematico smantellamento di quel minimo sistema di diritti di cui abbiamo goduto in India fino ai primi anni Novanta). Spostare fiumi e montagne, moltiplicare dighe o cancellare intere comunità, culture, economie agricole in nome dello sviluppo industriale, dello sfruttamento minerario, della vertiginosa crescita non è un problema, anche quando tutto questo crea ulteriore povertà e scontro sociale. Le nostre prigioni sono sempre più affollate, i diritti umani sempre più calpestati, ma guai dire male dei signori della Corte.
Hai accennato al movimento di resistenza di Narmada: un'adesione che ti rese forse ancora più famosa che come scrittrice. Al tempo stesso diede «visibilità» a questa resistenza che da anni si opponeva al colossale progetto di costruire dighe su quei mille chilometri di fiume.

Cosa ti resta di quell'esperienza?

C'è stato un momento in cui mi sono sentita come dentro una bolla e ho capito che dovevo uscire. Ancora una volta è un problema di autenticità. Nelle cose che fai come nelle parole che scrivi. Quando senti che l'autenticità non è più la stessa, devi cambiare. La cosa che purtroppo falsa tutto è il denaro. A rendermi famosa oltre al «libro» c'era la somma di denaro incassata come anticipo. E poi quella che vinsi con il Booker Prize. E anche dopo, per anni, quanti premi in denaro mi sono stati attribuiti. Tutto ciò ha complicato non poco il mio modo di sentirmi «parte» del Narmada Movement o di tante altre (ugualmente importanti per me) «cause». Il denaro può tante cose, ma soprattutto confonde e corrompe.

Nel tuo caso è però servito a dare voce a piccole organizzazioni attive in India sui più diversi fronti. È stato cioè, spesso silenziosamente, condiviso...

Certo, ma il fatto che io o altri siamo in grado di esprimere materialmente la nostra solidarietà non serve nulla. Non ha alcun effetto sulle cause dell'ingiustizia. Nel migliore dei casi è un palliativo. Quasi sempre crea disunità. Soprattutto nelle situazione di bisogno, il denaro può comprare qualsiasi cosa e quanto più ce n'è in circolazione, quanto più corrompe. E questo è uno degli aspetti più inquietanti del mio paese in questo momento. L'India è letteralmente invasa dalle Ong, di tutti i tipi, orientamenti, colori. Foraggiate da chiunque, in grado di foraggiare chiunque.

Guarda il caso della Vedanta, che dal niente imprenditoriale di un oscuro raccoglitore di metalli di Mumbai è ora tra i migliori cavalli in corsa sul mercato azionario di Londra. Fortuna? Cpacità gestionale? O il fatto che nel Consiglio di Amministrazione figurasse agli inizi (oltre a un ex Ambasciatore Inglese in India e a vari altri influenti «dignitari») l'attuale Ministro delle Finanze indiano, Chidambaram? Vedanta oggi finanzia molte organizzazioni non governative. Tutta la nuova shining India brilla in questo stesso indecente modo. Allo stesso tempo, un terzo del territorio indiano è off limits: nel senso che la forza pubblica non è più in grado di esserci fisicamente, perché il livello di militarizzazione (vuoi naxalita, o salwa judum, o altre simili fazioni a vario titolo «foraggiate» da questo o quel potere, industria, amministrazione locale) è tale che ci si fa «giustizia» da soli.

Per tornare a ciò che dicevamo: la fiction è solo un altro modo di rappresentare ciò che succede intorno a noi. Il rumore può a volte essere molto forte. E disorientare. Chiudere le finestre è impossibile e riprendere il filo sarà ogni volta faticoso. Ogni tanto puoi sentirti assalito dalla tentazione di ritirarti e tacere. Ma poi passa.