Il diritto alla differenza non può essere negato
di Alain de Benoist - 07/10/2007
I. È sempre difficile parlare dell’identità, poiché si tratta di un concetto
intrinsecamenteproblematico. Più che una risposta o un’affermazione, l’identità contiene innanzitutto un
quesito: essa si enuncia in maniera interrogativa. La problematica dell’identità compare infatti
nella sua pienezza solo quando diventa concepibile una domanda come: «chi sono?»,
domanda che, contrariamente a quanto si potrebbe credere, non è sempre stata presente. Non
è quindi esagerato affermare, con Zygmunt Bauman, che la problematica dell’identità nasce
prima di tutto come interrogazione, cioè come enunciazione di un problema: «In nessun
momento l’identità è “diventata” un problema – poteva esistere solo in quanto
problema, fuun “problema” fin dalla sua nascita –; essa è nata
problema». Ogni riflessione sull’identitàimplica pertanto un’inchiesta sulle condizioni dell’emergere di questa interrogazione, sul
processo che ha consentito alla questione dell’identità di porsi e di essere posta.
Situata all’intersezione fra la psicologia, la sociologia e l’antropologia sociale, la questione
dell’identità è in effetti una questione tipicamente moderna. Nelle società tradizionale, non si
pone e semplicemente non può porsi. L’identità individuale, in particolare, in società di quel
tipo non è un oggetto di pensiero concettualizzato in quanto tale, dal momento che
l’individuo ha difficoltà a pensarsi al di fuori del gruppo e non può essere considerato una
fonte sufficiente di determinazione dell’Io. Scrive Charles Taylor: «Lo stesso termine
“identità” è anacronistico per le culture premoderne, il che non vuol dire che il bisogno di un
orientamento morale o spirituale fosse meno assoluto in precedenza, ma soltanto che il
problema non poteva porsi in termini riflessivi, relativi alla persona, così come si pone per
noi».
Nelle società premoderne, quella che noi chiamiamo identità (ma che nessuno in quel caso
chiama in questo modo) è essenzialmente un’identità di filiazione, sia nello spazio privato
che nello spazio pubblico. L’identità si deduce dal posto attribuito esteriormente a ciascuno
dalla nascita, dal lignaggio o dall’appartenenza. In Grecia, ad esempio, ciascun individuo
possiede una doppia identità, una personale che si esprime in un nome spesso seguito da un
patronimico, l’altra comunitaria, comparsa con la città, che rinvia all’appartenenza familiare,
sociale o politica, per il tramite di un gentilizio, di un demotico, di un filetico o di un etnico.
Ma questi due tipi di identità non sono posti su un piede di eguaglianza. «Nell’Antichità, la
prima identità, concepita per distinguere l’individuo, è a lungo stata relegata molto indietro
rispetto all’identità comunitaria e ha lasciato solo poche tracce storiche: l’identità individuale
è diventata davvero personale solo tardivamente». La singolarità individuale non viene
negata, ma solamente stabilita
a partire dall’appartenenza comunitaria. L’identità soggettivasi organizza allora attorno a un sentimento dell’essere che si esprime nel linguaggio del mito
di origine. Per i Greci andare a teatro significa in un certo senso assistere a una
ripresentazionedi ciò che li rende propriamente specifici. La realizzazione di sé consiste perciò
nel ricercare l’eccellenza nella conformità all’ordine delle cose. Quanto all’identità degli altri,
essa discende semplicemente dalla descrizione delle abitudini e dei costumi che il viaggiatore
incontra lontano da casa. Ogni popolo sa che esistono popoli diversi.
Le cose stanno così ancora nel Medioevo. La questione dell’identità si pone soltanto in modo
molto vago in una società di ordini e di stati, perché quegli orizzonti sono fissi. Dati come
fatti oggettivi, essi determinano nell’essenziale la struttura sociale. Il riconoscimento legale
dell’individuo, cioè l’affermazione del suo status in quanto membro del corpo sociale che
gode di un certo numero di libertà o di capacità garantite avviene sulla base di questi stati
fissi. Nella società medievale, inoltre, il valore che prevale è la lealtà. Il problema quindi non
è capire chi si è, ma verso chi si deve essere leali, cioè a chi si devono esprimere dedizione e
sottomissione. L’identità personale discende direttamente da tale dedizione. La società è a
quel tempo frammentata, costituita di segmenti che si incastrano l’uno nell’altro ma restano
nel contempo fondamentalmente distinti gli uni dagli altri. Questa separazione limita l’ostilità
tra le caste e gli stati, ostilità che si scatenerà quando lo Stato nazionale comincerà a
costituirsi, tentando di omogeneizzare tutta quella diversità.
Si capisce quindi immediatamente che la crescita degli interrogativi sull’identità avviene, da
un lato, per reazione alla dissoluzione dei legami sociali e allo sradicamento dei punti di
riferimento indotti dalla modernità, e dall’altro in diretta relazione con lo sviluppo del
concetto di persona in Occidente. Nel XVIII secolo come ai nostri giorni, dire di qualcuno
che è una «persona» vuol dire infatti che possiede una libertà individuale, e dunque che può
a buon diritto essere preso in considerazione indipendentemente dalle sue appartenenze.
Esiste, in conseguenza di ciò, un rapporto fra il problema dell’identità personale e lo
sviluppo dell’individualismo, dovendo quest’ultimo essere inteso in due sensi diversi: il
valore che si attribuisce all’individuo in rapporto al gruppo e l’intensità dei rapporti da sé a
sé. Il concetto di identità rivela, nello stesso momento, di essere un concetto in larga misura
occidentale.
II. A partire dal XVII e soprattutto dal XVIII secolo, il concetto di libertà si confonde con
l’idea di indipendenza del soggetto, ormai libero di assegnarsi da solo i propri obiettivi. Si
ritiene che ogni individuo determini liberamente ciò che per lui è bene grazie al solo effetto
della volontà e della ragione. Questo emergere dell’individuo avviene nel quadro di un
duplice orizzonte: la svalutazione delle appartenenze situate a monte del soggetto e l’ascesa
dell’ideologia del Medesimo.
La modernità nascente ha incessantemente combattuto le comunità organiche, regolarmente
squalificate come strutture che, essendo assoggettate al peso delle tradizioni e del passato,
impedirebbero l’emancipazione umana. In questa ottica, l’ideale di “autonomia”,
frettolosamente convertito in ideale di indipendenza, implica la ripulsa di ogni radice, ma
anche di ogni legame sociale ereditato. «A partire dall’Illuminismo», scrive Zygmunt
Bauman, «si è considerato come una verità di buonsenso il fatto che l’emancipazione
dell’uomo, la liberazione del vero potenziale umano, esigano la rottura dei legami delle
comunità e che gli individui siano affrancati dalle circostanze della loro nascita». La
modernità si costruisce allora sulla svalutazione radicale del passato in nome di una visione
ottimistica di un futuro che si ritiene rappresenti una rottura radicale con ciò che l’ha
preceduto (ideologia del progresso). Il modello dominante è quello di un uomo che deve
emanciparsi dalle sue appartenenze, non soltanto perché esse ne limitano pericolosamente la
“libertà”, ma anche e soprattutto perché vengono considerate estranee alla costituzione del
suo Io.
Questo stesso individuo, tuttavia, estratto in tal modo dal contesto di appartenenza, viene
anche giudicato fondamentalmente simile a tutti gli altri, il che costituisce una delle
condizioni del suo pieno inserimento in un mercato in via di formazione. Dal momento che
si ritiene che il progresso provochi la scomparsa delle comunità, l’emancipazione umana non
passa per il riconoscimento delle singole identità ma attraverso l’assimilazione di tutti a un
modello dominante. Lo Stato nazionale, infine, si arroga sempre più il monopolio della
produzione del legame sociale. Come scrive Patrick Savidan, nella visione moderna del
mondo «l’altro è prima di tutto considerato identico. Ciò significa che l’altro è, esattamente
come me, una persona, un soggetto, e che noi dobbiamo dunque, a tale titolo, essere dotati
dei medesimi diritti. Siamo, in altre parole, uguali; vale a dire che l’essere umano, in quanto
umano, mi appare come un mio simile. In questa prospettiva, si verificano una sorta di
riduzione della differenza e una promozione della rassomiglianza».
La dinamica liberale moderna strappa dunque l’uomo ai suoi legami naturali o comunitari,
astraendosi dal suo inserimento in un’umanità particolare. Essa veicola una nuova
antropologia, nella quale spetta all’uomo, per acquisire la propria libertà, sottrarsi ai costumi
ancestrali e ai legami organici, e questo distacco dalla “natura” viene visto come caratteristico
di ciò che è specificamente umano. L’ideale non è più, come nel pensiero classico,
conformarsi all’ordine naturale; risiede viceversa nella capacità di affrancarsene. La
prospettiva liberale moderna si fonda perciò su una concezione atomistica della società, intesa
come una sommatoria di individui fondamentalmente liberi e razionali, che si presume
agiscano come esseri liberi da condizionamenti, esenti da qualsiasi determinazione a priori e
capaci di scegliere liberamente gli obiettivi e i valori che guidano le loro azioni. «Quali che
siano le loro divergenze», scrive Justine Lacroix, «tutte le teorie liberali condividono un
postulato universalista, nel senso che tendono a fare astrazione da ogni elemento empirico
per innalzarsi alle condizioni trascendentali di possibilità di una società giusta, valide per
qualunque comunità ragionevole».
In questo nuovo panorama idelogico, l’identità corrisponde all’individualità liberale e
borghese. Nel frattempo, la modernità disgiunge identità singola e identità collettiva, per
collocare quest’ultima in uno spazio indistinto. «È stato il riconoscimento di un’indistinzione
di diritti a rendere possibile nella storia il riconoscimento di questa differenza fondamentale
tra l’identità singola, peraltro fondata sulla filiazione e sull’origine, e l’identità collettiva
indistinta, peraltro fondata sull’appartenenza e sulle forme di rappresentazione della
socievolezza», constata Bernard Lamizet, aggiungendo: «In questo senso, l’universalità del
diritto rappresenta una messa in discussione radicale della problematica dell’identità». La
filiazione viene allora fatta ripiegare sulla sfera privata: «A partire dal momento in cui il
modello istituzionale si fonda sul riconoscimento dell’indistinzione, la filiazione cessa di
avere un senso nella strutturazione delle identità politiche che strutturano lo spazio
pubblico».
Attaccando da subito le tradizioni e le credenze, che nel migliore dei casi secolarizza, la
modernità strappa la questione identitaria ad ogni “naturalità”, per collocarla da allora in poi
nell’ambito sociale e istituzionale di prassi politiche ed economiche che ormai strutturano in
modo diverso lo spazio pubblico. Essa separa fondamentalmente l’ordine biologico
dell’esistenza dall’ordine istituzionale. Lo spazio pubblico moderno si costituisce come uno
spazio di indistinzione, cioè come uno spazio nel quale le distinzioni naturali dovute
all’appartenenza e alla filiazione vengono considerate insignificanti. Nello spazio pubblico,
non esistiamo come persone, ma come cittadini dalle capacità politiche intercambiabili.
Questo spazio pubblico è guidato dalla legge. Conformarsi alla legge significa assumere la
parte socialmente indistinta della nostra identità. (Va comunque notato che questa in
distinzione è ancora relativa, giacché si limita alle frontiere all’interno delle quali si esercita la
cittadinanza. Distinguendo una politia da un’altra, la vita politica opera anche una distinzione
tra gli spazi di appartenenza e di socievolezza).
Dal momento che lo spazio pubblico è uno spazio governato dall’indistinzione, l’identità non
può rivestirvi che un carattere simbolico. Constata ancora Bernard Lamizet: «Se ci si colloca
nel campo della storia, della politica e dei fatti sociali, l’identità non può essere che simbolica,
dato che le individualità vi si confondono nell’indistinzione […] Mentre nello spazio privato
mettiamo in rappresentazione soltanto le forme e le prassi costitutive della nostra filiazione,
nello spazio pubblico facciamo apparire le forme e le rappresentazioni della nostra
appartenenza e della nostra socievolezza che, di conseguenza, acquisiscono una consistenza
simbolica e un significato […] Dato che si colloca in una dimensione simbolica, l’identità,
nello spazio pubblico, si fonda come mediazione: non fonda la singolarità del soggetto ma la
sua consistenza dialettica di soggetto di appartenenza e di socievolezza».
La modernità non si caratterizza dunque soltanto per il fatto di mettere in secondo piano le
relazioni organiche e i valori gerarchici, con il corollario della sostituzione dell’onore con la
dignità. Né si limita a screditare l’appartenenza alle comunità tradizionali, che considera
vestigia arcaiche o rigurgiti irrazionali, o a relegare le differenze nella sfera privata, dove non
possono manifestarsi pienamente dal momento che il luogo del riconoscimento è la sfera
pubblica. Essa si costruisce anche sulla base dell’esclusione del terzo e della riduzione della
diversità. Soppressione delle caste e degli stati con la Rivoluzione, omogeneizzazione delle
regole di linguaggio e di diritto, sradicamento progressivo dei modi di vita specifici legati al
contesto, al mestiere, all’ambiente sociale o alla fede, in distinzione crescente dei ruoli sociali
femminili e maschili: l’intera storia della modernità può essere letta come la storia di un
continuo dispiegarsi dell’ideologia del Medesimo. In tutti i campi, compreso (in epoca
recente) lo spazio della filiazione, si assiste ad un’ascesa dell’indistinzione, processo che
raggiungerà l’apogeo con la globalizzazione. Dappertutto, la modernità ha fatto scomparire i
modi di vivere differenziati. Gli antichi legami organici si sono dissolti. La differenza tra i
generi è stata attenuata. Anche i ruoli in seno alla famiglia sono stati sconvolti. Rimangono
unicamente alcune disuguaglianze qualitative – di potere d’acquisto – relative alla possibilità
di accedere al modo di vita dominante. Il risultato è quello che ha descritto Marcel Gauchet:
«l’appartenenza collettiva […] tende a divenire impensabile per gli individui, nella loro
volontà di essere individui, sebbene essi ne dipendano più che mai». Chi sono io? Chi siamo
noi? Ecco delle domande fondamentali, che la modernità ha costantemente oscurato o di cui
ha reso più difficile la risposta.
Naturalmente, però, questo progredire dell’indistinzione ha anche comportato alcune
reazioni. Dato che la differenziazione dei soggetti e degli oggetti struttura inevitabilmente lo
spazio della percezione, la società
indistinta suscita disagio, poiché viene sentita comequalcosa di caotico e privo di senso. Per questo motivo, così come la globalizzazione
omogeneizza le culture ma nel contempo provoca inedite frammentazioni, l’ascesa
dell’ideologia del Medesimo ha portato alla luce un interrogativo sull’identità che poi ha di
continuo stimolato. Nel corso degli ultimi due secoli, questo interrogativo si è presentato in
forme differenti. Il romanticismo, ad esempio, è stato prima di tutto una rivoluzione
“espressivista” che ha dato vita a una ricerca di “autenticità”. Occorre inoltre richiamare il
modo in cui le appartenenze sociali e nazionali moderne hanno potuto rispondere a questo
quesito.
La valorizzazione del lavoro, sostenuta in origine dalla borghesia in reazione ad una nobiltà
che veniva criticata perché considerata acquisita ai valori della gratuità e dunque
“improduttiva”, fornisce un primo sostituto di identità. La realizzazione individuale nel
quadro di una divisione industrialmente organizzata del lavoro sarà in effetti oggetto di un
desiderio di riconoscimento, fondato in particolare sul possesso di un impiego e sulla fierezza
del «lavoro ben fatto». La nuova divisione sociale trasformerà però anche la classe sociale in
un surrogato di identità collettiva. Nel XIX secolo, la lotta di classe svolge un ruolo di
creazione delle identità che è stato sottovalutato. L’appartenenza di classe serve da
status(essendo lo status l’identità del soggetto quale risultato di un’istituzione) e le classi si dotano
di una cultura specifica. La lotta di classe consente a nuove identità di cristallizzarsi, nella
misura in cui la classe non si definisce solamente attraverso un’attività socio-economica ma
anche tramite un riferimento antropologico alle basi naturali della società. «L’esistenza delle
classi», afferma Bernard Lamizet, «porta a constatare il carattere conflittuale e dialettico della
differenza tra le appartenenze all’interno dello spazio pubblico».
Innestata o no nella lotta di classe, la vita politica permette inoltre agli individui di acquisire,
questa volta in quanto cittadini, un’identità di ricambio. Anche le identità politiche,
perlomeno in un primo tempo, faranno nascere culture specifiche, tenute in vita all’interno di
alcune famiglie sociologiche. L’istituzione del suffragio universale risponderà a sua volta a
una richiesta identitaria: «Poter votare non è altro che poter dare una consistenza all’identità
politica di cui si è portatori». Quanto alle lotte e ai conflitti politici, essi hanno una
dimensione chiaramente identitaria, «poiché mettono l’identità degli attori sociali alla prova
dello spazio pubblico».
Le identità di classe, così come le identità politiche e ideologiche, sono tuttavia soltanto
identità settoriali, in concorrenza fra loro. Accanto e al di sopra di esse si costituiranno
identità collettive più inglobanti: le identità nazionali. Constatando che l’evoluzione del
capitalismo ha comportato una massificazione che ha a sua volta provocato una «crisi
dell’identità collettiva», Jean-Pierre Chevènement riteneva trent’anni fa che «l’essere sociale
ha bisogno di incarnarsi così come la persona ha bisogno di un corpo». Nel XIX secolo,
questo bisogno di “incarnazione” farà nascere il movimento delle nazionalità e tutte le forme
moderne di nazionalismo, fondate sull’idea che «l’unità politica e l’unità nazionale devono
essere congruenti» (Ernest Gellner).
Il nazionalismo si mostra, perciò, come uno dei frutti tipici della modernità, ma non è un
fenomeno esclusivamente politico: si nutre di un immaginario in cui si mescolano la storia, la
cultura, la religione, le leggende popolari e così via. Tutti questi fattori vengono rivisitati,
idealizzati, trasfigurati per sfociare in una narrazione coerente e legittimante. Come scrive
Chantal Delsol, «ogni popolo si identifica nella storia in valori o modelli caratteristici. Se quei
valori o quei modelli crollano, l’identità stessa si vede minacciata». Valori e modelli
svolgeranno pertanto un ruolo di dispensatori d’identità, parallelamente ai “grandi racconti”
che abbiamo visto diffondersi nell’epoca di quelle che Michel Foucault ha denominato le
«società disciplinari»: racconto dello Stato nazionale, racconto dell’emancipazione del
popolo lavoratore, racconto della religione del progresso e via dicendo.
La distinzione classica tra «nazioni civiche» e «nazioni etniche» – o, per riprendere i termini
utilizzati da Friedrich Meinecke, tra nazioni «politiche» e nazioni «culturali» – appare a
questo proposito relativamente fittizia, non solo perché la maggior parte delle società
nazionali mescolano i due principi in proporzioni variabili, ma anche perché lo Stato
concerne in prima battuta la società e tutte le società umane sono società di cultura. Quali che
abbiano potuto essere per altri versi le sue caratteristiche specifiche, nessuna nazionalità ha
mai fatto a meno di ricorrere a miti nazionali. Ai tempi della monarchia, i francesi si sono
successivamente voluti (o creduti) eredi dei Troiani, dei Franchi e dei Galli. Dopo la
Rivoluzione, quando la nazione si è definita in termini puramente politici, ignorando ogni
aspetto prepolitico, precedente il contratto civico, le credenze fondatrici dell’identità
nazionale hanno conservato tutta la loro potenza. Nell’era della secolarizzazione, esse hanno
costituito una compensazione per l’indebolimento delle credenze puramente religiose, dando
talvolta vita a vere e proprie religioni secolari. Il “nazionalismo” contemporaneo può anche
fondarsi sull’ideale politico dello Stato e della cittadinanza, ma sarebbe un errore credere che
dei valori politici astratti siano sufficienti a formare un’identità comune e, soprattutto, che
siano sufficienti per esigere dai membri di una società i sacrifici ai quali essi devono talvolta
acconsentire. Esigenze di questo genere possono essere espresse soltanto se i legami di
cittadinanza sono sentiti come un vero “bene immediatamente comune”, sulla base di
un’identificazione con una comunità storica a sua volta fondata su certi valori. I miti, le
leggende, le epopee, i racconti fondatori svolgono sempre il medesimo ruolo: costituiscono
altrettante mediazioni simboliche che fondano la socievolezza sulla trasmissione di un
“sapere” comune o di una credenza condivisa.
Questo “sapere comune” comprende, beninteso, una larga parte di fantasia. Nella maggior
parte dei casi, innesta su realtà storiche incontestabili interpretazioni cariche di giudizi di
valore, proiezioni idealizzanti assolutamente arbitrarie. L’ossessione più forte è l’ossessione
dell’origine, che è anche un’ossessione di purezza: in origine tutto era chiaro e semplice, non
ancora appesantito dalla pesante complessità della storia effettivamente verificatasi.
Ossessione dell’età dell’oro. La stessa ermeneutica trasfigura in modo analogo gli eventi o gli
eroi considerati fondatori. Arminio e Vercingetorige, Carlo Martello, Clodoveo o Giovanna
d’Arco, per citarne solo alcuni, evidentemente non hanno mai svolto nella realtà il ruolo
centrale o avuto la decisiva importanza che l’immaginario moderno ha loro attribuito.
Neppure le battaglie di Poitiers, di Bouvins o di Valmy sono mai state grandi battaglie che
hanno cambiato il corso della storia; il che non ha impedito che le si sia considerate
“fondatrici”.
In questa situazione, i critici dell’identità nazionale hanno ovviamente gioco facile quando
pretendono di “ristabilire la verità storica”. Il loro errore consiste nel non accorgersi che,
anche se l’identità nazionale è assai spesso scaturita dall’immaginazione, questa
immaginazione è indispensabile alla vita del gruppo. E nel credere che il sentimento
d’identità si spegnerà mostrando la parte fantastica che include. Il “fantasma” in questione
andrebbe semmai comparato al
mito. Il mito agisce non benché sia un mito, ma proprioperché è tale. La credenza può ben essere falsa per quanto concerne il suo oggetto,
nondimeno diventa “vera” attraverso quello che suscita nell’individuo o nel gruppo, o
tramite ciò che gli procura. In questo errore incorre Marcel Detienne quando si fa beffe della
pretesa di autoctonia in un libro che, pur EGRATIGNANT Fernand Braudel, si sforza di
presentare gli antichi Greci come se fossero discepoli
ante litteram di Barrés. Detienne non fafatica a mostrare come i Greci, con miti complessi e storie scabrose, si inventassero una
ancestralità immaginaria; ma sbaglia quando crede di aver dimostrato qualcosa. Perché se è
vero che nessuno può essere considerato autoctono, a condizione che si risalga abbastanza
lontano nel tempo, sta comunque di fatto che la convinzione di essere o non essere autoctono
può strutturare le coscienze e regolare i comportamenti. Come fa notare Leszek Kolakowski,
«se i Greci, gli Italiani, gli Indiani, i Copti o i Cinesi di oggi hanno la sensazione di
appartenere alla stessa comunità etnica dei loro antenati più lontani, non li si può convincere
che le cose stanno diversamente».
III. Hegel è stato il primo, nel 1807, a sottolineare l’importanza del concetto di
riconoscimento: la piena coscienza di sé richiama, e passa attraverso, il riconoscimento
dell’altro. Il concetto di
riconoscimento è in effetti essenziale dal punto di vista dell’identità, alivello sia personale sia collettivo. «Che si tratti della costituzione della propria identità in
occasione dell’esperienza del riconoscimento di sé nello specchio oppure del riconoscimento
dell’altro nell’esperienza della comunicazione», precisa Bernard Lamizet, «è il processo di
riconoscimento ciò che fonda la dimensione simbolica dell’identità». Questa esigenza è
sempre esistita, ma è stata ancor più acuita dall’avvento della modernità, giacché l’identità
che non si basa più su una posizione gerarchica dipende ancor più dal riconoscimento degli
altri. L’identità non si confonde con il riconoscimento, dato che vi sono identità non
riconosciute, ma l’una è strettamente legata all’altro. Come scrive assai giustamente Patrick
Savidan, seguendo su questo punto il pensiero di Hegel, non bisogna credere «che vi è prima
un’identità e che poi si pone il problema del riconoscimento o meno di questa identità, ma
che il riconoscimento interviene nella definizione stessa di questa identità, nel senso in cui
essa “realizza” questa identità». Il riconoscimento completa così l’identità. Ne è il naturale
correlato: non esiste piena identità se non quando essa viene riconosciuta. Per questo Charles
Taylor definisce il riconoscimento come la «condizione dell’identità riuscita».
Riconoscere l’altro implica non solo riconoscerlo in quanto altro, ma anche ammettere che,
se siamo simili, è prima di tutto perché siamo diversi. Non si tratta quindi di concepire il
riconoscimento alla maniera di un Lévinas – per il quale riconoscere l’altro significa
sottrargli la sua differenza e assimilarlo a quel Medesimo di cui entrambi siamo parte –, bensì
nel senso dell’
alterità riconosciuta. L’eguaglianza dei diritti, in questa prospettiva, non èriduzione dell’altro al medesimo. Essa include, al contrario, il diritto alla differenza.
Restituisce all’uguale la sua differenza, il che vuol dire che non concepisce l’eguaglianza nel
senso della assoluta coincidenza. Concepisce l’universale non come ciò che resta una volta
che si sono soppresse le differenze (perché in questo caso non resta niente), ma come ciò che
si nutre delle differenze e delle particolarità. Peraltro, dato che la natura umana si lascia
sempre cogliere in modi molteplici di manifestazione, l’identità umana non è mai unitaria,
ma sempre differenziata. La traduzione giuridica e politica di questo dato elementare porta a
sostituire un regime rispettoso delle differenze a un regime di somiglianza. Già Émile
Durkheim aveva richiamato una solidarietà che esisterebbe in virtù delle nostre differenze
piuttosto che grazie alle nostre somiglianze. Quell’affermazione può essere trasposta, in
termini più contemporanei, nell’idea che il riconoscimento delle nostre differenze sia per
l’appunto quello che può meglio unirci.
Il problema del riconoscimento delle identità è proprio uno di quelli che oggi risorgono con
maggior forza a causa della crisi dello Stato nazionale occidentale. Nella postmodernità, il
grande progetto moderno di uno spazio unificato, controllato e costruito dall’altro si trova ad
essere messo radicalmente in discussione. Zygmunt Bauman constata che «Le grandi identità
che gli Stati nazionali avevano minuziosamente costruito crollano. […] La costruzione
dell’identità, ed ancor più il mantenimento dell’identità, è diventata in queste circostanze una
questione di
bricolage, senza officine e capifabbrica manifesti. Si potrebbe dire che laproduzione di identità, sulla scia del resto dell’industria, è stata deregolamentata e
privatizzata». In un contesto generale di cancellazione dei punti di riferimento, lo Stato
nazionale non riesce più ad integrare i gruppi né a (ri)produrre il legame sociale. Non
fornisce più ai membri della società un sentimento di unità, una ragione per vivere e per
morire, vale a dire una ragione per sacrificare il proprio interesse personale e talvolta la
propria vita a qualche realtà o concetto che vada oltre la loro specifica individualità. Sembra
una struttura astratta, burocratica, lontana dalla vita reale. Questa evoluzione libera
affermazioni particolaristiche di ogni sorta. I bisogni identitari «hanno oggi tendenza a farsi
sempre più vivi (e più disgiuntivi che in passato) a seguito del fallimento sempre più evidente
degli Stati nazionali nel loro ruolo di produttori e fornitori di identità». Le identità nazionali
si disgregano, ma ciò avviene a profitto di altre forme di identità. Più la “comunità
nazionale” si indebolisce, più le società vanno alla ricerca di comunità identificanti di
ricambio.
Ma soprattutto il problema dell’identità si pone ormai in termini politici. Dal momento che
l’esigenza di riconoscimento punta a farsi riconoscere da tutti per quello che è, il luogo
deputato di questa esigenza non può che essere la sfera pubblica. L’identità diventa così
l’insieme delle pratiche e degli atti attraverso i quali il nostro posto può essere
politicamentericonosciuto nello spazio pubblico. Proprio per questo motivo la difesa delle identità
(culturali, linguistiche, religiose, sessuali, ecc.) – quello che Irving Fleitscher ha chiamato «il
diritto di restare se stessi» – svolge un ruolo essenziale negli attuali conflitti politici e sociali.
La rivendicazione del riconoscimento mira a far uscire da una situazione in cui la differenza,
essendo relegata nella sfera privata, si ritrovava per ciò stesso ad essere inevitabilmente
dominata dai poteri pubblici. Essa traduce il desiderio di far collocare nello spazio della
comunicazione e della socievolezza un’identità che sino ad allora si era vista negare le
capacità e i poteri di un’entità politica. «L’identità ha una pertinenza e, di conseguenza, una
validità istituzionale solo a partire dal momento in cui è oggetto di un riconoscimento, di un
accreditamento nello spazio pubblico; ha un valore istituzionale solo in quanto ha l’autorità
di un significante», scrive Bernard Lamizet. È dunque proprio la definizione dello spazio
pubblico come spazio dell’indistinzione ad essere messa in discussione dalle rivendicazioni
identitarie. A uno spazio pubblico “neutro”, che non riconosce alcuna appartenenza
specifica, la rivendicazione identitaria propone di sostituire un nuovo spazio pubblico che sia
viceversa strutturato da tali appartenenze. Un’esigenza di questo tipo, nel contempo, svela
che l’egualitarismo ostile alle differenze è portatore di una visione uniformante del mondo,
che a sua volta non è altro che un principio culturale travestito da principio universale.
La rivendicazione identitaria, in altri termini, non si accontenta più di un universalismo
morale e politico che troppo spesso è stato la maschera di prassi inconfessate di dominio. Una
vera politica di riconoscimento delle differenze deve essere incorporata nell’organizzazione
della società, perché il riconoscimento è alla base del legame sociale. La giustizia sociale non
passa solamente per la redistribuzione, ma anche per il riconoscimento. Essa richiede una
politica del riconoscimento
da parte dei pubblici poteri.Una politica di questo genere può tuttavia essere concepita soltanto nella prospettiva di un
riconoscimento reciproco. Colui di cui si riconosce la differenza deve riconoscere chi lo ha
riconosciuto. Ogni riconoscimento implica la reciprocità: è un punto evidentemente
essenziale. Peraltro, una politica del riconoscimento non va intesa come l’alibi del
relativismo. Rispettare il diritto alla differenza non significa rifiutare qualunque possibilità di
giudizio morale su tale differenza – stabilire che tutti i valori sono uguali significa dire che
niente vale –, ma solo proibirsi di universalizzare arbitrariamente questo giudizio ed imporsi
la prudenza necessaria per emanare norme in proposito dal punto di vista del diritto.
NOTE
Zygmunt Bauman,
La vie en miettes. Expérience postmoderne et moralité, Le Rouergue/Chambon,Rodez 2003, pag. 34.
Charles Taylor,
Les sources du moi. La formation de l’identité moderne, Seuil, Paris 1998, pag. 65;ed. it.
Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1999.Christel Müller e Francio Prost (a cura di),
Identités et cultures dans le monde méditerranéen antique,Publications de la Sorbonne, Paris 2002, pag. 9. Questa concezione si è conservata sino ai nostri giorni
nella maggior parte delle società tradizionali. In Nuova Caledonia, per non citare che un esempio, i nomi
che gli individui portano sono anche titoli relativi ai clan di proprietà terriera.
Zygmunt Bauman, in
Modernité et holocauste, La Fabrique, Paris 2002, pagg. 72-77, ed. it. Modernitàe olocausto
, Il Mulino, Bologna 1999, ha efficacemente dimostrato che gli ebrei furono tra le primevittime di questa tendenza all’omogeneizzazione, nella misura in cui la modernità non poteva più
ammettere un particolarismo di cui, invece, era paradossalmente soddisfatta una società medievale che non
era altro che un’addizione di particolarismi. La modernità, in altri termini, ha abolito un insieme di
distanze che, essendo poste come insuperabili, erano anche indirettamente protettive. Per dirlo ancora in un
altro modo, nel Medioevo l’alterità non vietava l’integrazione.
Cfr. Hubertus G. Hubbeling,
Some Remarks on the Concept of Person in Western Philosophy, inHans G. Kippenberg, Yme B. Kuiper e Andy F. Sanders (a cura di),
Concepts of Person in Religion andThought
, Walter de Gruyter, Berlin 1990, pagg. 9-24.Zygmunt Bauman,
La vie en miettes, cit., pag. 372.Patrick Savidan,
La reconnaissance des identités culturelles comme enjeu démocratique, in Ronan LeCoadic (a cura di),
Identités et démocratie. Diversité culturelle et mondialisation: repenser ladémocratie
, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2003, pag. 234. Axel Honneth osserva a sua volta(
La reconnaissance: une piste pour la théorie sociale contemporaine, ibidem, pagg. 216-217) che«l’intreccio fra il riconoscimento legale e l’ordine gerarchico di valore – che corrisponde più o meno al
fondamento morale di tutte le società tradizionali – si è sfaldato con l’avvento del capitalismo borghese e
con la trasformazione normativa delle relazioni legali sotto la pressione di mercati in estensione e del
simultaneo impatto di modalità post-tradizionali di pensiero».
Cfr. Robert Legros,
L’idée d’humanité. Introduction à la phénomenologie, Grasset, Paris 1990.Justine Lacroix,
Communautarisme versus libéralisme. Quel modèle d’intégration politique?,Éditions de l’Université de Bruxelles, Bruxelles 2003, pag. 79.
Bernard Lamizet,
Politique et identité, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 2002, pagg. 302-304.Ibidem
, pag. 109.Ibidem
, pagg. 11-12.Marcel Gauchet,
La démocratie contre elle-même, Gallimard-Tel, Paris 2002, pag. XXI; trad. it. Lademocrazia contro se stessa
, Città Aperta, Troina 2005.«Il principio individualistico del compimento è in effetti l’unica risorsa normativa che la società borghese
e capitalista possiede allo scopo di giustificare moralmente la ripartizione estremamente disuguale delle
prospettive di vita e dei beni. Poiché il fatto di appartenere a un certo stato non regola più la misura della
stima sociale di cui si gode e la portata dei privilegi legali ed economici di cui si beneficia, la
valorizzazione etico-religiosa concomitante del lavoro e della creazione di un mercato capitalistico
suggeriscono la dipendenza di tale stima dalla realizzazione individuale» (Axel Honneth,
op. cit., pag. 220.Bernard Lamizet,
op. cit., pag. 13.Ibidem
, pag. 205.Ibidem
, pag. 192.Jean-Pierre Chevènement,
Le vieux, la crise, le neuf, Flammarion, Paris 1974, pag. 210. Il futuroministro della Difesa francese aggiungeva a quell’epoca che «lo Stato nazionale in Francia si è costituito
nel corso dei secoli tramite un susseguirsi di genocidi culturali di cui soltanto oggi comprendiamo le
dimensioni» e che «le rivendicazioni nazionalitarie, lungi dal dover essere considerate “passatiste”, sono
eminentemente popolari» (
ivi), posizione piuttosto diversa da quelle che avrebbe assunto in seguito…Cfr. Ernest Gellner,
Nations and Nationalism, Cornell University Press, Ithaca 1983; trad. It. Nazioni enazionalismo
, Editori Riuniti, Roma 1997.Chantal Delsol,
La République. Une question française, Presses Universitaires de France, Paris 2002,pag. 98.
Cfr. Alain Dieckhoff,
La nation dans tous ses États. Les identités nationales en mouvement,Flammarion, Paris 2000, pagg. 41-43.
Su questo argomento, cfr. Anthony D. Smith,
Chosen Peoples. Sacred Sources of National Identity,Oxford University Press, Oxford 2003.
Cfr. Wayne Norman,
Les paradoxes du nationalisme civique, in Guy Laforest e Philippe de Lara (acura di),
Charles Taylor et l’interprétation de l’identité moderne, Cerf, Paris 1998, pagg. 155-170. Cfr.Anche Claude Nicolet,
La fabrique d’une nation. La France entre Rome et les Germains, Perrin, Paris2003.
Cfr. in particolare Benedict Anderson,
Imagined Communities. Reflections on the Origin and Spreadof Nationalism
, Verso, London 1983, tr. it. Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma 2000 eWolfgang Bialas (a cura di),
Die nationale Identität der Deutschen. Philosophische Imaginationenund historischen Mentalitäten
, Peter Lang, Bern-Frankfurt am Main 2002.Marcel Detienne,
Comment être autoctone. Du pur Athénien au Français raciné, Seuil, Paris 2003.Leszek Kolakowski,
On Collective Identity, in «Partisan Review», inverno 2002-2003, pag. 10.Bernard Lamizet,
op. cit., pag. 20.Patrick Savidan,
op. cit., pag. 233.Zygmunt Bauman,
La vie en miettes, cit., pagg. 216-217.Ibidem
, pag. 259.Irving Fetscher,
Arbeit und Spiel. Essays zur Kulturkritik und Sozialphilosophie, Reclam, Stuttgart1983, pagg. 145-165.
Bernard Lamizet,
op. cit., pag. 58.Su questo punto, cfr. Axel Honneth,
Recognition or Redistribution? Changing Perspectives on theMoral Order of Society
, in Scott Lash e Mike Featherstone, Recognition and Difference, Sage, London2002, pagg. 43-55.
Cfr. Amy Gutman (a cura di),
Multiulturalism and the «Politics of Recognition», Princeton UniversityPress, Princeton 1992; Charles Taylor,
The Politics of Recognition, in Amy Gutman (a cura di),Multiculturalism. Examining the Politics of Recognition
, Princeton University Press, Princeton 1994;Axel Honneth,
The Struggle for Recognition. The Moral Grammar of Social Conflicts, Polity Press,Cambridge 1995.