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Il conflitto del 1967

di Sandy Synge - 08/10/2007

 

LEZIONE I

Henry Laurens (Giugno 1967, All’origine delle crisi mediorientali, il Manifesto-Le Monde Diplomatique, giugno 2007) è del parere che l’aiuto militare statunitense fornito ad Israele all’epoca della crisi del Suez, ma anche «in seguito», venisse erogato «in funzione del rispetto dello status quo». Se quest’affermazione colpisce per la sua genericità (ad es. «in seguito»: fino a quando?), il ragionamento di fondo è lineare. Anzi, viene tracciato col righello: se nel 1956 gli Stati Uniti si erano comportati da «protettori attenti allo status quo», tale doveva essere, secondo Laurens, la sostanza della loro politica per il futuro. Senza limiti temporali. Ma Laurens compie anche uno strano salto logico: per gli americani, il «problema quindi non sta nella capacità dell’esercito [israeliano] di conquistare nuovi territori, ma in quella dello stato [israeliano] di conservarli» (sott. mia). Conservare cosa? Ogni eventuale «nuovo territorio», pare.

Se stabiliamo con precisione la durata del periodo della vigenza di tale asserita politica americana – di «rispetto dello status quo», e quindi (almeno sulla carta) di una politica lontana da ogni idea della conquista di «nuovi territori»! –, sarà possibile calcolare la durata del periodo in cui, per gli Stati Uniti, erano da considerarsi in qualche modo ancora valide le disposizioni della Tripartite Declaration del 1950. Queste disposizioni erano espressione di una politica di neutralità, almeno formale, nel conflitto arabo-israeliano nel suo complesso (con il rispetto dell’integrità territoriale di ciascuna nazione dell’area).

Sorprende che nell’articolo di Laurens manca ogni menzione dell’esistenza di quest’importante Declaration firmata dagli Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna (e ben presto violata, nel 1956, dalle ultime due nazioni). Questa dichiarazione forma il quadro diplomatico mondiale a cui è necessario riferirsi per comprendere pienamente i retroscena della politica aggressiva di espansione territoriale israeliana (tuttora vigente, e che anzi dobbiamo considerare da sempre il tratto latente e caratteristico dell’approccio internazionale e regionale adottato da Tel Aviv).

L’impronta ‘equidistante’ della Declaration ed il fatto stesso che venne ben presto violata da due degli stessi firmatari, Francia e Gran Bretagna, nel 1956, spiegheranno forse perché manca ogni menzione della stessa anche nelle voluminose opere storiche di Benny Morris (Vittime, Rizzoli, Milano, 2002) e di Martin Gilbert (Israel, a History, Black Swan, Londra, 1999), opere recenti e tra quelle più largamente diffuse sull’argomento Israele-Palestina presso il pubblico occidentale.

Queste note, oltre a chiarire alcuni antefatti, serviranno alla valutazione delle ragioni di fondo (‘culturali’, ‘storiografiche’, ‘politiche’ ecc.) che hanno indotto l’accettazione da parte de Le Monde Diplomatique – con la pubblicazione dell’articolo di Laurens – della tesi della neutralità americana nel 1967.

Notiamo en passant che, nel servizio de Le Monde Diplomatique, il 1967 viene inspiegabilmente collocato «all’origine (!) delle crisi mediorientali». Così sono rimossi interi decenni di storia.

Almeno fino al momento della morte di Kennedy, a nostro avviso, la questione della neutralità americana costituiva, per Tel Aviv, una spina nel fianco, ma, per Washington, una risorsa importante. Washington rinunciò definitivamente a questa risorsa durante la presidenza Johnson (e, da allora in poi, con l’appoggio americano incondizionato alle ragioni avanzate da Israele, diventa sostenibile la tesi della durevole assenza dalla scena mondiale degli Stati Uniti qua attore politico autonomo nel Medio Oriente).

Sir Martin Gilbert – biografo di Churchill e scrittore sionista tra i più attivi nel mondo anglosassone – sostiene che, prima ancora della presidenza di Johnson, le relazioni tra Israele e Kennedy fossero strettissime, dettate da un’unità d’intenti (op. cit., pag. 347-348). Laurens riprende questo ‘leitmotiv’, e rincara la dose: «avvicinamento militare israelo-americano» «Avviato sotto la presidenza di John Kennedy» (sott. mia). Sono tesi molto azzardate. Diverse evidenze indicano il contrario. Per Sheila Ryan, ad esempio, ci fu, sotto Kennedy, un periodo breve ed atipico di apertura americana nei confronti di Nasser: «brief respite» (Ryan, in Occupation, Israel over Palestine, a cura di Naseer Aruri, Zed Books, Londra, 1984, pag. 351).

Per meglio inquadrare questo punto, e la successiva svolta delle politiche americane ad esclusivo vantaggio d’Israele, dobbiamo considerare brevemente (e con un po’ di pazienza) alcune cifre concernenti la consistenza degli aiuti militari forniti dagli Stati Uniti ad Israele nel periodo considerato. All’epoca della Repubblica araba unita (1958-61) gli israeliani avrebbero ricevuto, secondo Laurens, «le loro prime (sic?), importanti forniture di materiale bellico americano». Guardiamo i dati per gli anni successivi:

Stephen Green (Taking Sides, America’s Secret Relations with Israel 1948/1967, Faber and Faber Limited, Londra-Boston, 1984, pp. 187s.) ci informa che gli aiuti complessivi forniti ad Israele per il 1964 (e decisi, dunque, da Kennedy) sono pari ai 40 milioni di dollari e che nel pacchetto gli aiuti militari sono «pressoché assenti» («virtually none»). Siamo, infatti, nel 1964, tre anni dopo – ricordiamolo – il tramonto dell’effimero raggruppamento (la RAU, Egitto, Siria, Yemen). Nel 1965, invece, gli aiuti totali americani (nell’epoca, dunque, post-kennediana) raggiungono nel complesso la cifra di 71 milioni di dollari (con gli aiuti militari piazzati al 20% del totale). Nel giro di un anno, per il 1966, la cifra complessiva sale a 130 milioni di dollari, con gli aiuti militari al 71% del pacchetto. Gli aiuti americani nel loro complesso si triplicano (325%), e quelli militari passano tra il 1964 ed il 1966 da «virtually none» a più di 90 milioni di dollari (per cui, nel 1966, gli aiuti di natura militare superano gli aiuti complessivi dell’anno precedente). Nel 1966, Israele riceve aiuti militari americani più consistenti del totale degli aiuti americani ricevuti da Israele dal 1948 fino a quel momento.

Sarà un ‘puro caso’, ma i pagamenti rateali da parte tedesca di riparazioni di guerra terminano nel 1965. Non sappiamo come Kennedy avrebbe voluto gestire la questione degli aiuti ad Israele dopo l’interruzione di questi pagamenti. Sappiamo, però, che Johnson ne aveva assunto il peso ‘in proprio’, superando immediatamente le specifiche quote erogate all’epoca dai tedeschi. Tuttavia, altri pagamenti paralleli vennero dalla Germania occidentale, legati non al passato nazista di quel paese ma alla sua più recente e, per dirla con Nathan Weinstock, «imperfetta» denazificazione (Storia del sionismo, dalle origini al movimento di liberazione palestinese, Samonà e Savelli, Roma, 1970, nuova edizione Massari editore, Bolsena 2006 Vol. 2, pag. 157).

I circa 80 milioni di dollari l’anno di riparazioni (1954-1965) furono seguiti, da parte americana, dai circa 100 milioni di dollari l’anno tra il 1965 ed il 1966 – e le cifre erano destinate all’aumento progressivo –) (cfr. l’articolo mio, La lobby israeliana: una storia recente? (www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Downloads&d_op=getit&lid=21 - )).

Infatti, a differenza di Laurens e Gilbert, Stephen Green (op. cit., pp. 181ss.) riporta dati documentali governativi americani che indicano che, sul piano militare, l’approccio di Kennedy (e, almeno in parte, dei suoi predecessori alla Casa Bianca) non prevedeva – in assenza di reali minacce esterne nei confronti d’Israele – alcun rapporto privilegiato tra lo stesso Israele e gli Stati Uniti. La tesi trova sostegno, ad esempio, nei dati sottolineati sopra relativi al 1966.

Anzi, le politiche adottate durante la presidenza di Kennedy non risulterebbero improntate nemmeno sulla prospettiva di un Israele alleato nella contesa URSS-USA. D’altronde, sono ben comprensibili le ragioni di una tale politica statunitense di ‘distanza’ o di ‘equi-distanza’. Ci basta ricordare i fatti del 1956, quando il trio, Israele, Francia e Gran Bretagna, agirono – all’insaputa (o apparentemente all’insaputa) degli Stati Uniti – nell’avventura del Suez, e in modo tale da creare un estremo imbarazzo per gli USA e da mettere a repentaglio ogni stabilità nei rapporti URSS-Occidente nel loro complesso (svolta krusceviana nella politica interna sovietica, intervento armato in Ungheria, Oriente ecc.). Per Green, l’atteggiamento che possiamo definire ‘realistico’ o ‘distaccato’ adottato da Kennedy – frutto anche del 1956 – era da considerarsi in qualche modo una «doctrine» o cristallizzazione delle politiche americane adottate in precedenza. Un Israele ostile ad ogni soluzione di pace si presentava come una pericolosa ‘palla al piede’ di Kennedy e degli Stati Uniti, un ‘bambino’ difficilmente ‘donabile’, per ovvi motivi, agli europei occidentali o ai sovietici.

Il punto è il seguente: se, sotto Kennedy, una vicinanza ci fu, non ci fu un «avvicinamento» (Laurens), nel senso di intensificazione di rapporti (semmai il contrario). Dunque, l’«avviamento» a cui si riferisce Laurens segue l’èra kennediana.

Tramontata nel 1961 l’originaria Repubblica Araba Unita (ovvero la minaccia militare più significativa per Israele), Tel Aviv poteva, secondo alcuni, sperare di riprendere con maggiore impunibilità l’iniziativa bellica contro i paesi limitrofi (ora nuovamente divisi) [il nome RAU, ricordiamolo en passant, sarà conservato dal solo Egitto, con riferimento al proprio territorio nazionale, fino al 1971].

Dunque, la ‘politica col contagocce’ adottata da Kennedy appare coerente ai fini della Tripartite Declaration del 1950: al declinare dell’intensità delle minacce effettive ad Israele si verifica, almeno per la Casa Bianca kennediana, un corrispondente calo di interesse concreto americano nei rapporti militari intrattenuti con Tel Aviv. Da Johnson in poi, come abbiamo visto, le proporzioni sembrano invertirsi: minori le minacce ad Israele, e maggiori diventano gli aiuti militari forniti.

Il principio di ‘equidistanza’ fu ribadito con forza, invece, da Kennedy sia sul piano diplomatico sia per mezzo della stampa. Per quanto riguarda la Declaration del 1950, per dirla con Green, essa «had nearly succumbed during the Suez War» (per poco non sopravvisse alla guerra del Suez), e morì poi all’ospedale Parkland di Dallas, Texas («died finally (…) at the Parkland Hospital in Dallas, Texas»).

Partendo invece dal presupposto dell’asserito forte sostegno offerto da Kennedy ad Israele, Laurens (debitore, evidentemente, di altre fonti) si spinge oltre nelle sue speculazioni quando afferma che la politica kennediana (sia beninteso, come Laurens l’intende…) avrebbe fatto «funzionare a meraviglia la retorica del discredito coinvolgente imperialismo, reazione e sionismo». Sul piano, appunto, retorico, Laurens si dimostra probabilmente più abile degli stessi ‘predicatori del discredito’ (vedi anche Lezione 8). Ma la destrezza, per quanto utile, non equivale alla forza. A rigore di logica la sua argomentazione risulta invece debole e trova scarso sostegno nei fatti.

In breve, secondo Laurens, Kennedy avrebbe creato, sia pure involontariamente, un terreno fertile per la diffusione tra i progressisti del mondo occidentale di una falsa interpretazione della situazione arabo-israeliana nel suo complesso. Si pensa, ad esempio, all’immagine ‘bidimensionale’ – caro al progressista (ed esperto di retorica) Noam Chomsky – di un Israele ‘bastone’, o ‘cane di guardia’ degli interessi dell’imperialismo americano in Medio Oriente.

La questione è, in un certo senso, ‘psico-sociologica’: in primis, i rapporti specifici tra gli Stati Uniti ed Israele potevano (e possono) essere caratterizzati da fattori diversi da quelli denunciati dalla deplorata «retorica del discredito» (‘cane di guardia’ ecc.) senza che l’ipotesi generale di uno stretto rapporto storico tra «imperialismo, reazione e sionismo» venga in sé intaccata. È bene considerare a questo proposito il concetto della complementarietà o della compresenza di vie o binari diversi tra loro, non solamente sul piano delle interpretazioni ma anche operativi (compresi i tempi d’attuazione). E che i rapporti tra tali vie o binari, ciascuno dotato delle proprie specificità, possano essere dinamici e, cioè, non sempre del tutto armonici (teoria dei giochi ecc.). Sia chiaro, l’ampia confusione presso l’opinione pubblica o di massa non può che facilitare la diffusione rapida e profonda di tesi storiche volutamente bidimensionali.

In ogni caso, le evidenze documentali (vedi sotto) indicano che il pensiero di Kennedy in tema di Medio Oriente non corrispondeva alla visione strategica attribuitagli da Laurens. In altre parole, non crediamo che il Kennedy-pensiero in tema di Medio Oriente abbia potuto far «funzionare a meraviglia» alcunché.

Come i dati numerici riportati sopra sembrano indicare, è più appropriato dunque ascrivere la creazione di un ‘terreno fertile’ per la «retorica del discredito» non tanto a Kennedy quanto alla figura (meno carismatica) di Johnson. Per Green, l’intento di Kennedy (ma anche dei predecessori, Truman e Eisenhower) era stato quello di ribadire, in parte o interamente, gli scopi ‘neutralistici’ della Tripartite Declaration del 1950. Ciò viene confermato con grande chiarezza nel memorandum of conversation, redatto da Phillips Talbot, Assistant Secretary of State for Near Eastern Affairs, dopo l’incontro tra Kennedy e Golda Meir di dicembre 1962 (vedi l’articolo mio, La lobby israeliana…).

Abbiamo notato che Benny Morris (Vittime, Rizzoli, Milano, 2002), Martin Gilbert (op. cit.) e lo stesso Laurens hanno omesso ogni menzione dell’esistenza della Tripartite Declaration del 1950. L’omissione (in sé, infatti, sbalorditiva) è attribuibile non soltanto al fallimento ma anche al contenuto ‘neutralistico’ della Declaration, che pone l’accento su possibili divergenze, del tutto comprensibili, tra le priorità israeliane e quelle delle maggiori potenze occidentali, e in particolare quelle degli Stati Uniti. Si ha l’impressione che, all’epoca, la neonata nazione fosse sì ‘tollerata’ da molti operatori americani, ma non ‘coccolata’. È verosimile che, dopo il rocambolesco riconoscimento del nuovo Stato nel 1948, diversi attori americani (ma, a distanza di tempo, non Johnson…) già si sentivano ‘sdebitati’ nei confronti della causa sionista.

Malgrado le proprie intenzioni, lo studioso italiano di cose mediorientali, Antonio Donno, traccia un quadro persuasivo di reciproca sfiducia (cfr. A. Donno, Gli Stati Uniti, il sionismo e Israele (1938-1956), Bonacci Editore, Roma, 1992, pag. 153-162): sfiducia che, col senno di poi (cioè, dopo il 1956), gli Stati Uniti, perlomeno, potevano giustificare pienamente, e non solamente per le motivazioni accennate sopra. Tale sfiducia (a volte apertamente espressa, ed a volte mormorata, ma ugualmente presente) costituisce il filo rosso dei periodi trattati sia da Stephen Green sia da Donno.

Breve: 1) l’accenno di Laurens ad un «avvicinamento militare israelo-americano» avviato «sotto la presidenza di John Kennedy» è inaccettabile perché il quadro era ben più complesso; 2) Laurens convogliando abusivamente alla propria causa la figura carismatica di Kennedy compie, naturalmente, l’ennesimo ‘doppio assassinio’ del giovane Presidente americano.

LEZIONE 2

Per Laurens le operazioni militari di Israele del 1964, incentrate sulla questione dell’acqua, erano da ascriversi essenzialmente ad esigenze di autodifesa. Abbiamo notato il calo nel tasso di pericolosità di una guerra regionale di tipo convenzionale determinatosi con la fine della RAU. Le attività militari di Fatah (scenario di tipo guerra partigiana) cominciarono non nel 1964 ma nel 1966. Da parte palestinese, le precedenti azioni militari (partigiane) – avvenute tra il 1948 e la nascita di Fatah – furono militarmente poco significative, sebbene di rilevanza politica. Erano state compiute, infatti, da gruppi «male organizzati» e «senza addestramento» (Xavier Baron, I Palestinesi, Genesi di una nazione, Baldini Castoldi, Dalai editore, Milano, 2002, pag. 82). I diversi momenti di tensione e di violenza del ventennio si erano verificati in gran parte per motivi fisiologici legati all’allontanamento violento dei palestinesi dalle proprie case, alle questioni personali (vendetta ecc.), alle attività criminose ecc. (vale a dire, ad uno scenario assimilabile per certi versi al tipo ‘ordine pubblico’):

Per Sir Martin Gilbert, tra il 1951 ed al 1956, avvennero 6.000 sconfinamenti in terra israeliana (border crossings), ufficialmente registrati, con l’uccisione di 400 israeliani. La cifra data da Gilbert non tiene conto né degli sconfinamenti in senso inverso, da parte israeliana, né della natura degli incidenti (sconfinamenti armati offensivi o di autodifesa, sconfinamenti compiuti con intento pacifico, sconfinamenti compiuti da gruppi o da singoli, e, non ultimo, l’esistenza o meno di frontiere ben definite, ecc.). Dai dati raccolti per la frontiera israelo-giordana dal Commander H. E. Hutchinson USNR (The Armed Truce, Devin-Adai Company, New York, 1956, pp. 90-92) emerge il seguente quadro: le statistiche riguardanti gli sconfinamenti armati dalla Giordania nel territorio israeliano, e viceversa, per il periodo tra giugno 1949 ed ottobre 1954 ci danno, grossomodo, il pareggio (con 65 condanne emesse nei confronti della Giordania e ben 95 nei confronti d’Israele: le condanne furono emesse dall’Israel-Jordan Mixed Armistice Commission). Le cifre relative alle perdite di vita umana denunciano una disparità interessante sotto il profilo comparativo (258 israeliani; 474 giordani) (questi dati sono riportati da Stephen Green, op. cit., pag. 84). I dati presentati da Benny Morris, relativi ai confini di Gaza e della Cisgiordania, non sono incompatibili: 10.000-15.000 incidenti l’anno tra il 1949 ed il 1954, seguiti da un calo significativo (in parte, fisiologico) tra il 1955 ed il 1956 (6.000-7.000). La maggior parte degli sconfinamenti riguardavano o la criminalità comune (furti ecc.) o questioni ed esigenze di natura personale (proprietà personale, vendetta ecc.), mentre il 10% degli sconfinamenti «mirava a colpire civili o a sabotare obiettivi israeliani» (le locuzioni adoperate da Morris, almeno in traduzione, sono poco chiare e quindi di scarsa utilità storica). Si noterà che gli scontri di quegli anni sono attribuiti da Morris, come nel caso di Gilbert, esclusivamente a violazioni da parte araba delle frontiere israeliane (Morris, op. cit., pp. 340ss.): in altre parole, le forze israeliane si sarebbero limitate, in essenza, secondo loro, a «rappresaglie». A giudicare dalle statistiche sulle condanne emesse dall’Israel-Jordan Mixed Armistice Commission, sebbene minori di numero, le «rappresaglie», sia in termini di gravosità sia in termini di scala (coinvolgimento di combattenti), sembrano più consistenti degli stessi incidenti che le avrebbero provocato. Compatibilmente con quanto detto, gli scontri tra armati, secondo Hutchinson, coinvolsero maggiormente le forze armate israeliane, mentre da parte giordana ci fu una ripartizione, in termini di coinvolgimento, tra gruppi armati e militari, e quindi la partecipazione di militari giordani risulterebbe pari alla metà di quella dei militari israeliani. L’uso dello stesso termine, «rappresaglie», confonde non poco il quadro nelle varie e divergenti rappresentazioni.

Come Morris, anche Ann Lesch attribuisce gli sconfinamenti arabi soprattutto dei primi anni, in gran parte, a questioni personali (ad es. la volontà di tornare a casa, di ritirare effetti personali, di lavorare i propri terreni passati sotto il controllo israeliano) (Aruri, op. cit., p. 53). Ciò è compatibile con la tesi della natura fisiologica di numerosi sconfinamenti. Per il giornalista e storico, Xavier Baron (basandosi forse anche su dati riportati da Nathan Weinstock) molti incidenti erano da ascriversi al fatto esistenziale, emotiva – davvero straziante – di vivere anche a contatto visivo quotidiano con la propria casa, inaccessibile perché sita a pochi metri oltre una linea di demarcazione (Baron, op. cit., pag. 82).

Nel 1955, Nasser sostenne alcune azioni armate palestinesi in territorio israeliano (che partirono da Gaza), allo scopo, però, secondo Gilbert, di destabilizzare il regime del re Hussein di Giordania. La tesi non sarà, immaginiamo, infondata, ma la giustificazione di questa chiave di lettura è piuttosto inconsistente. A distanza di cinquant’anni dai fatti, manca ancora il nome e cognome della fonte utilizzata, che per giunta non è né egiziana né palestinese («a senior Jordanian Cabinet Minister») (Gilbert, op. cit., pag. 299). Nasser affermò invece che si trattava in questo caso di una rappresaglia necessitata da un’incursione israeliana, sempre contro Gaza (Xavier Baron, op. cit., pp. 82ss.). Dopo un’altra incursione israeliana in territorio siriano, nel dicembre del 1955, anche Damasco ospiterà i feddayn.

Lo scenario, almeno prima del 1965-6, si caratterizza per la perdurante debolezza e frammentazione del movimento palestinese e, sul piano regionale, per l’adozione da parte degli stati confinanti di una politica di (intimorita) non-belligeranza. Portiamoci avanti al periodo successivo: 1964-66.

Le azioni militari israeliane del periodo 1964-66 – legate anche, o soprattutto, ai piani di dirottamento di acque siriane verso il territorio israeliano – erano percepite da molti osservatori come iniziative offensive, espansionistiche, ingiustificabili. Tuttavia, per Laurens, sarebbero state essenzialmente di natura difensiva, sia pure accompagnate dall’espediente «“tecnico”» (la parola è di Laurens) dello sconfinamento: «portare immediatamente la battaglia in territorio nemico». Se il territorio israeliano – ci spiega – «mal si presta a un’azione difensiva (…) Ne discende che in caso di conquista di territori arabi, non vi sarà restituzione senza una pace completa» (qui, la ‘voce’ sembra proprio quella di Dayan e di Ben Gurion!). Manca in questa sintesi di Laurens la parola ‘acqua’. Coloro che protestavano contro le azioni israeliane si facevano ingannare dalla macchina propagandistica araba? Come, ad esempio, precedentemente, il personale ONU responsabile per la zona smilitarizzata tra Israele e Siria? Già nei primi anni ’50, la questione delle acque catalizzò altri scontri armati. L’ONU e gli americani si facevano ingannare dalla macchina propagandistica araba anche allora? Per il nostro, la risposta sembra affermativa: insiste molto sulla tesi della natura difensiva delle azioni israeliane, additando, per gli sconfinamenti israeliani, il motivo «“tecnico”» di cui sopra.

La riproposizione nel 1964 della questione dell’acqua ci porterà direttamente alla Guerra dei Sei Giorni del 1967.

I regimi arabi erano molto interessati a creare canali politici per la causa palestinese. La nascita di un organo politico come l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (l’OLP) fu, pare, «in larghissima parte» opera dei regimi arabi (Xavier Baron, op. cit., pag. 112). Il parere di Ann Lesch è che «The Arab regimes tried to channel the Palestinian people’s discontent into a less militant form» (i regimi arabi cercavano di canalizzare lo scontento del popolo palestinese in una forma meno militante [l’OLP]) (Aruri, op. cit., p. 53).

Pare che la disponibilità di Siria a sostenere un gruppo armato come Fatah (1965) fosse stata decisa, anch’essa, in risposta alle incursioni israeliane verificatesi nel 1964.

Laurens ci suggerisce che le politiche israeliane all’epoca di Rabin capo di stato maggiore dell’esercito non fossero tese all’espansione ma invece a «riaffermare le conquiste israeliane nella zona smilitarizzata (sic) e a costringere Damasco a rinunciare al sostegno della lotta armata palestinese».

Pongo l’accento sul non-senso di una «riaffermazione» di «conquiste (…) nella zona smilitarizzata». Le conquiste nelle zone smilitarizzate si chiamano violazioni.

Alla fine del 1964, i conflitti tra Israele e Siria riguardavano essenzialmente il controllo delle acque siriane dei fiumi Hazbani e Banias.

Gilbert (op. cit., pag. 353) ci informa che il neoassunto Rabin frenava, in quel momento, i propositi più espansionistici avanzati da Moshe Dayan. Non c’è motivo per dubitare della verità di quanto afferma. Tuttavia, nel quadro globale, l’assenza di soluzioni di continuità tra gli scontri di fine 1964 e quelli successivi (incoronatisi nel 1967) non ammette interpretazioni univocali come quella fornita – in maniera decisamente ambigua e subdola – da Laurens: reazione essenzialmente difensiva israeliana di fronte alle attività di Fatah foraggiate da Damasco.

Nei primi mesi del 1964, Israele stava completando un importante progetto per il trasporto dell’acqua del lago di Tiberiade verso il deserto del Negev. Come notato sopra, Israele aveva in precedenza tentato unilateralmente di lanciare un analogo piano acque, ed a frenare quest’iniziativa s’impegnarono gli Stati Uniti con minacce economiche molto significative (Green, op. cit., pag. 80). Ora, con la presidenza Johnson, Israele poteva contare, presumibilmente, su pressioni americane meno forti (qualche brontolio, forse, ma nulla di più serio).

Nel marzo del 1965 la Siria iniziò un progetto di deviazione delle acque all’interno delle proprie frontiere. Rabin, la qui ‘moderazione’ è stata rimarcata sopra, si dimostrava ora meno propenso alla linea morbida: l’Israele attaccò la Siria immediatamente. Si trattava in parte anche di un riflesso degli sviluppi politici interni ad Israele (vedi sotto). Il progetto siriano era di modeste dimensioni: nel 1966, emergono dati tecnici di fonte israeliana che precisano che «i danni inflitti a Israele sarebbero stati relativamente trascurabili» (quantitativamente, il 5-6% in meno delle acque che Israele voleva trarre fiume Giordano) (N. Weinstock, op. cit., pag. 178).

Fu l’epoca anche di un cambiamento radicale nel mondo politico israeliano. Una scissione all’interno del partito politico israeliano Mapai (1965) portò alla formazione del partito falco, Rafi («lista operaia»), sostenuto da Peres, Ben Gurion e Dayan.

Scrivendo nel 1969, Nathan Weinstock dava pochi chance al partito Rafi di «spuntarla, attraverso la via parlamentare, sui mezzi enormi e le pressioni economiche della Histradut» (che, all’epoca, era insieme il sindacato, l’operatore industriale ed il fornitore parastatale di welfare più importante di Israele: l’unico sindacato al mondo, nota ironicamente un osservatore, dotato di ‘sezione sindacale’) (N. Weinstock, op. cit., Vol. 2, pag. 68, 70). L’informatissimo Weinstock sembra avere ragione nei presupposti ma non nelle previsioni concrete relative all’arena della contesa (il parlamento). Ci sono buoni motivi per credere che al partito Rafi interessava poco «la via parlamentare» e molto di più quella concertativa ‘dei corridoi’ e del ‘transatlantico’ (il regno, cioè, dello stesso Ben Gurion). In sintonia con l’imminente ondata liberale, la «lista operaia» prese, poi, seriamente di mira la Histradut, roccaforte del corporativismo più classico.

A distanza di anni dalla scissione del 1965, il Rafi si fuse con il vecchio Mapai, e così nacque una nuova alleanza laburista. Con la formazione nel 1977 del governo Begin, e con il travaso dell’oppositore Dayan (neo-Ministro degli Esteri) dal campo laburista al governo a guida Likud, la dottrina della guerra preventiva (già sperimentato dallo stesso Dayan, in qualità di neo-Ministro della Difesa, nel 1967) doveva finalmente consolidarsi come tratto inamovibile (cfr. Green, op. cit., pag. 191; Gilbert, op. cit., pag. 479). Tuttavia, la parola ‘spartiacque’ – scusatemi il doppio senso! – è troppo forte. In ogni caso, è probabile che, da allora in poi, tale dottrina non sia stata contestata seriamente da altri correnti politici israeliani. Si tratterrebbe, in un certo senso, dell’ufficializzazione dei comportamenti meno accomodanti e più violenti verificatisi nei decenni precedenti, e della volontà, per il futuro, di proseguire lungo questo stesso tracciato.

LEZIONE 3

Ritorniamo alle riflessioni sul 1967. Laurens afferma che «la prospettiva di un ampliamento territoriale [israeliano] non è all’ordine del giorno all’inizio del 1967». Altra tesi azzardata, avanzata senza l’apporto o sostegno di dati particolari.

Anzi, i dati forniti da lui stesso indicano il contrario.

Descrivendo la formazione del governo israeliano d’unione nazionale del 1 giugno 1967 – durante il periodo di piena crisi militare-diplomatica e con un anticipo di solo quattro giorni sulla decisione israeliana di entrata in guerra – Laurens informa il lettore più attento che «Oltre alla sopravvivenza, si tratta anche di portare a termine ciò che la guerra di indipendenza [del 1948 n.d.a.] non aveva potuto realizzare, in particolare la conquista della Cisgiordania» (sott. mia).

Laurens avanza due propositi che, sul piano del diritto internazionale, sono in stridente contrasto tra loro: guerra di «sopravvivenza» (difesa) e guerra di «conquista» (offesa). Anzi, in un certo senso, tre: guerra di «sopravvivenza», guerra di «conquista», e infine guerra difensiva che è «anche» guerra offensiva. Anzi, ancora, oscilla tra le tre opzioni. Almeno questa è l’impressione di chi scrive. Al lettore, la parola definitiva sulla questione. In ogni modo, data la scala dell’operazione, il moto espansionistico del 1967 non ha per nulla l’aria di una cosa improvvisata all’ultimo momento.

La «prospettiva di un ampliamento territoriale» non era per Laurens «all’ordine del giorno all’inizio del 1967». Lo diventerà improvvisamente? Tra gennaio e giugno? Tra il primo ed il quinto giorno del mese di giugno? O durante la stessa guerra? È difficile credere che un cambiamento così importante delle priorità possa essere improvvisato o che possa emergere come il frutto del momento. Se ammettiamo che sia invece verificato in questa maniera, bisogna sollevare il problema di ciò che N. Weinstock ha ipotizzato come colpo di stato «camuffatto» (in pratica, un colpo di stato blindato dalla crisi regionale e mai dichiarato) (op. cit., pag. 200). Weinstock si riferisce alla formazione del governo di unione nazionale del 1 giungo 1967. Più che colpo di stato, sia pure «camuffatto», è forse meglio considerarlo nei termini di un cambio della guardia. Tra i modelli di governo in gara, non sembra che nessuno di questi modelli possa dirsi democratico. Di fronte alle percezioni delle priorità del sionismo, si mostravano consenzienti, vale a dire ideologicamente aperti, all’idea dell’effettivo trasferimento del potere esecutivo nelle mani dello stato maggiore. Le eventuali resistenze saranno dettate dall’amor proprio dei vari protagonisti? Per il ceto degli ufficiali, la corsa al potere politico sembra passare per le vie della disubbidienza.

Il quadro tracciato da Laurens rispetto al rapporto militari-governo è piuttosto confuso, ma è rivelatore: 1) la strategia della tensione degli anni ’60 – la cui esistenza è riconosciuta – fu messa in atto, secondo Laurens, dai militari israeliani che avrebbero ricevuto, poi, un «appoggio più o meno esplicito» da parte del governo israeliano; 2) altrove, Laurens parla della «capacità dell’esercito di conquistare nuovi territori» (sott. mia) e della capacità «dello stato di conservarli» (sott. mia). Chi decide è chi prende l’iniziativa.

Laurens ammette l’esistenza di piani espansionistici (offensive) ai più alti livelli di comando israeliano. Ma va oltre. Include, come abbiamo visto, un sinistro riferimento a «ciò che la guerra di indipendenza non aveva potuto realizzare» (sott. mia). Dunque, ponendo che nel 1948 la presa della Cisgiordania non fosse stata «all’ordine del giorno», era, per Laurens, già un’idea latente, quantunque irrealizzabile in quel momento (qui sta il senso di quel «potuto»). Possiamo perciò concludere che per Laurens l’idea circolava al momento stesso della nascita di Israele (se non prima). La nostra impressione è che, nelle sue speculazioni, Laurens si sia ispirato qui al pensiero di Ariel Sharon, che, nel 2002, dichiarò appunto di voler portare a termine la «seconda metà di quella [guerra n.d.a.] del 1948» (Reinhart, Distruggere la Palestina – La politica israeliana dopo il 1948, Marco Tropea Editore, Gruppo Editoriale il Saggiatore S.p.A., Milano 2004, pag. 12).

LEZIONE 4

Laurens interpreta la mossa nasseriana della chiusura dello stretto di Tiran come espressione diretta della volontà dell’Egitto di «isolare la Giordania per costringerla a spostarsi dal campo saudita a quello egiziano», per la realizzazione di un piano («gioco politico arabo») teso infine all’isolamento dell’Iran, con le tappe intermediarie della «resa della Giordania» e del «allinearsi dell’Arabia saudita» (cfr. anche i fatti di guerriglia/terrorismo del 1955 descritti sopra). Non escludiamo per nulla che il governo egiziano abbia accarezzato progetti del genere. Ma, ci chiediamo, erano prioritari o contingenti? Erano di breve o di lungo termine? Le ‘galline’, invece di scannarsi a vicenda, non preferivano prendersela direttamente con il ‘gallo del cortile’?

Le affermazioni di Laurens (e Gilbert) riguardanti le mire nasseriane in campo arabo non assomigliano alle tesi complottistiche di cui ogni persona ragionevole ed obiettiva, come ci avverte lo stesso Laurens, dovrebbe fare a meno?

Infine, dopo l’ennesima incursione israeliana nei territori confinanti – questa volta massiccia e in terra giordana (avvenuta nel 1966) –, non è legittimo supporre che la «resa» giordana ‘voluta’ da Nasser sia stata opera invece dello stesso Israele? Avvenne nel 1967 con la stipula di un patto di reciproca difesa tra Nasser e ed il re giordano Hussein.

LEZIONE 5

Anche se a sparare il primo colpo furono le forze israeliane, per Laurens fu Nasser a provocare la guerra del 1967.

Israele era dunque innocente? Laurens non si spinge a tanto. Afferma che i militari israeliani di quegli anni applicavano, sì, una «strategia della tensione» ma – strano proposito! – non volevano la guerra («senza voler arrivare alla guerra»). Di nuovo ci troviamo al bivio irrisolto di prima. La Guerra dei Sei Giorni fu intrapresa da Israele per garantirsi la sopravvivenza, o allo scopo di espansione territoriale?

Come riporta Green (vedi il mio La lobby israeliana…) la tesi della politica espansionistica israeliana è illustrata a grandi lettere e in tempo reale dal giornalista israeliano Simha Flapham, che già nel 1963 denunciava la presenza di una politica israeliana di tensione, in attesa di momenti opportuni per infliggere un colpo decisivo. Questo atteggiamento minava sia le politiche difensive, nel senso tradizionale del termine, sia quelle tese all’ottenimento del riconoscimento formale d’Israele da parte degli Stati arabi. È da notare, inoltre, che queste riflessioni di Flapham precedono la campagna delle acque siriane del 1964.

La nostra impressione è che Laurens non abbia fornito dati veramente concreti a sostegno della tesi della non-volontà da parte israeliana di fare la guerra. Altrettanto poco documentata ci sembra la sua tesi sulle intenzioni egemonizzanti e bellicose dell’Egitto.

LEZIONE 6

Per Laurens, Nasser non agiva primariamente perché anti-israeliano. Voleva anzitutto consolidare o affermare la propria posizione egemonica all’interno del mondo arabo e islamico nel suo complesso, perlomeno in Medio Oriente (mi riferisco agli ‘allineamenti’ di cui sopra: Lezione 4). «Da parte araba – scrive Laurens –, il motore degli avvenimenti è stato più la guerra fredda che opponeva la Rau [essenzialmente, l’Egitto] all’Arabia saudita che non il conflitto arabo-israeliano (…)». La fonte di questo ragionamento si trova indubbiamente nei discorsi di Rabin, che trovarono ampio eco nella stampa israeliana («tenaglie», «il confronto che ha luogo attualmente nella regione non è quello che oppone Israele e arabi. È quello che oppone l’asse Egitto-Siria-Shukeiri [RAU-OLP] agli Stati filo-occidentali» (Israel Economist, agosto 1966). Nel 1967, Rabin asserì che «Finché gli ardenti rivoluzionari di Damasco non saranno stati rovesciati, nessun governo potrà sentirsi sicuro in Medio Oriente». Acuto, ci pare, Weinstock: «Rileggiamo la dichiarazione – scrive –: non si tratta più di opere di canalizzazione [la disputa sulle acque] o di atti di terrorismo [feddayin] ma di rivoluzionari [i baathisti al potere in Siria, l’organizzazione politica dei palestinesi] che compromettono la sicurezza della regione [l’incolumità dei regime filo-occidentali] (op. cit., pag. 186). È un discorso rivolto all’estero: ‘siamo tutti israeliani’. La versione di Laurens e de Le Monde Diplomatique concorda con Rabin. Laurens tira le somme: «È per salvare l’Arabia saudita che gli Stati uniti autorizzano tacitamente Israele a entrare in guerra».

Quest’ultima frase, molto concisa, parrebbe il semplice resoconto di un ragionamento interno americano. Ma è subdola. Si presume 1) che l’eventuale pericolo fosse imminente («salvare»); e 2) che toccasse esclusivamente ad Israele, agli USA ed ai sauditi, senza l’intermediazione dell’ONU, valutare la gravità degli eventuali problemi recati dalle iniziative nasseriane.

LEZIONE 7

Dal resoconto fornito da Laurens emerge che lo stretto di Tiran ed il golfo di Akaba fossero stati regolati da accordi internazionali (quelli del 1957) poco chiaramente congegnati («confusione giuridica») e tali da non permettere ad Israele, sul piano legale, di additare come casus belli la chiusura unilaterale da parte egiziana di queste acque navigabili nel maggio del 1967. A differenza di Parigi, «Londra e Washington considerano la chiusura (…) come un’aggressione» (N.B. per motivi legati alla configurazione geologica della zona, le navi che passavano per la stretta dovevano tutte penetrare le acque nazionali dell’Egitto).

Si può affermare che Nasser abbia agito legittimamente in base ai termini dell’accordo del 1957? Nel giro di poche settimane questo problema giuridico venne superato dai fatti, e forse non sarà mai risolto. Se, per Green (op. cit. pag. 195), Nasser aveva violato i patti del 1957, il blocco del golfo non era totale. Riguardava essenzialmente la consegna di materiali strategici ad Israele ed il passaggio di navi battenti bandiera israeliana; le trattative erano in corso fino all’ultimo momento, e gli altri porti israeliani (più importanti) erano garantiti dalla presenza locale della VI flotta statunitense (Weinstock, op. cit., pag. 196)

Risolta immediatamente, invece, fu la questione dei caschi blu (le forze di interposizione delle Nazioni Unite, di stanza dal 1956 nel Sinai). L’altra grande decisione ‘bellicosa’ egiziana, sempre del maggio 1967, riguardava l’espulsione dei caschi blu dal Sinai. Il segretario generale dell’ONU, U Thant (1961-1971) spiegò (a chi l’accusava di essersi piegato alle indebite pressioni egiziane) che era nel diritto dell’Egitto far allontanare le truppe ONU dal proprio territorio. In ogni caso, come specifica lo stesso Laurens – che ringraziamo per questo –, «senza il consenso del Cairo [le forze dell’ONU presenti nel Sinai] sarebbero diventate giuridicamente truppe di occupazione».

Benny Morris parla invece della «remissività» dell’ONU (op. cit., pag. 387). Gilbert (op. cit., pag. 367) usa toni non dissimili. Entrambi evitano di considerare la questione nel suo complesso. La suddetta «remissività» fu in gran parte determinata, come spiegò all’epoca lo stesso U Thant, dal fatto che questo diritto era stato riconosciuto dall’ONU parimenti ad entrambi le parti. Fu esercitato già da principio, nel 1956, da quella israeliana (dopo una guerra – aggiungiamo – in cui Israele fu riconosciuto, universalmente, come aggressore, insieme alla Francia ed alla Gran Bretagna).

Nonostante le insistenti preghiere di ben due Segretari Generali dell’ONU, gli israeliani avevano sempre rifiutato di ammettere sul proprio territorio la presenza di un contingente tampone (buffer) dei caschi blu (cfr. Green, op. cit., pag. 196).

Chiaramente, a questo punto, ogni pressante richiesta rivolta all’Egitto – di fronte all’esempio di un Israele, in questo senso, da sempre ‘latitante’ – avrebbe fortemente compromesso l’immagine di un’ONU super partes (qui si presenta l’impressionante parallelismo con il dramma odierno della ‘questione nucleare’ e l’Iran).

Questo in merito ad alcuni aspetti tecnici e legali della questione.

Laurens, invece, per i suddetti motivi, pone l’enfasi sulle interpretazioni politiche globali, legate a queste due mosse nasseriane. All’epoca, le ambizioni egemoniche regionali egiziane furono sottolineate anche da Walt Rostow (principale consigliere di Johnson per la politica estera).

In estrema sintesi – secondo Rostow – svanita ogni speranza di una svolta ‘moderata’ tra le masse e le nazioni arabe, e quindi di una pacifica collaborazione regionale, gli israeliani non avrebbero avuto altra scelta, di fronte alle sfrenate ambizioni di Nasser, se non quella di attaccare per primi il 5 giugno del 1967.

Questa visione, esposta nuovamente nel 1978 in pressoché gli stessi termini da Nadav Safran (Israel The Embattled Ally, Harvard University Press), era – secondo Sheila Ryan – egemonica tra gli amministratori americani nel 1967 (Aruri, op. cit., pag. 351).

Laurens, sia pur in termini più ambigui (ci stiamo abituando…), condivide l’essenza di questo schema: «Gli Stati Uniti non possono più incoraggiare Israele a ‘contenersi’, a fronte a quella che viene considerata la difesa di interessi vitali».

Colpisce vedere sulle pagine di giornali come il Manifesto e Le Monde Diplomatique – che si reputano grandi analisti ‘controcorrente’ di cose politiche –, la rispolverata di vetusti schemi storici ‘istituzionali’ ed ‘ufficiali’ israelo-americani. Il quadro è troppo semplice. Troppo manicheo. Come nel caso delle «tenaglie» e dell’«asse» anti-occidentale lamentati all’epoca da Rabin e dalla stampa israeliana, le tesi offerteci qui propendono tutte per la tattica diversiva e per la de-responsabilizzazione politica e morale di Israele per i tragici fatti del 1967.

LEZIONE 8

Dopo aver attribuito a Nasser le maggiori responsabilità per la Guerra dei Sei Giorni, è interessante notare come Laurens – trattando la questione della percezione degli avvenimenti presso le rispettive opinioni pubbliche arabe ed occidentali – abbia tracciato implicitamente, verso la fine del suo articolo, un disegno o quadro concettuale-interpretativo, simmetrico ed elegante, che merita nostra attenzione. Si tratta del leitmotiv di due ‘triadi’. Ad un’estremità abbiamo la già citata «retorica del discredito coinvolgente imperialismo, reazione e sionismo» – così diffusa (almeno fino a tempi recenti) presso i circoli dei ‘progressisti’ occidentali – e, all’altra, gli argomenti (del tutto paralleli) adottati dallo stesso Nasser. «In pubblico – scrive Laurens – [Nasser] mette sullo stesso piano Israele, l’imperialismo e la ‘reazione’» (e nella vita privata?… chissà che cosa pensava!?).

Insomma, i due campi – quello panarabista e quello occidentale e vagamente progressista – si rispecchiavano. E ciò, per Laurens, ha causato vari danni non soltanto alla ‘preziosa’ causa israeliana, non soltanto al mondo arabo (ingannato ed accecato da un odio teleguidato nei confronti del sionismo), ma anche a quegli sprovveduti occidentali che, avvicinandosi al movimento anti-imperialista ed antisionista di quegli anni, non immaginavano di essersi messi al servizio di un ambizioso neo-imperialista come Nasser.

Sul piano metodologico, il ragionamento di Laurens – la cui efficacia propagandistica non va negata – rientra pienamente nel canone demonizzante della politologia mainstream dei nostri giorni.

LEZIONE 9

Il Manifesto-Le Monde Diplomatique ha scelto di pubblicare acriticamente non soltanto pareri di dubbio valore ma anche alcuni dati concreti sugli sviluppi bellici del 1967 i quali – con la coraggiosa pubblicazione negli anni 80 di un’opera da parte di una casa editrice di primo piano (quale fu la Faber and Faber Limited, di Londra e New York) – sono stati da decenni autorevolmente contestati, ed in sostanza smentiti. L’opera fondamentale a cui ci facciamo riferimento – Taking Sides…, (schierarsi), sempre del noto storico, Stephen Green – viene tuttora ignorata dai più.

Si tratta dell’Operation IRAN. Ovvero del diretto coinvolgimento militare americano a fianco di Israele nella Guerra dei Sei Giorni, le cui dimensioni indicano la possibilità di una pianificazione congiunta israelo-americana, forse pluriennale, della stessa guerra del 1967 nel suo complesso (vedi l’articolo mio, La lobby israeliana…).

Anche Laurens nega l’esistenza di quest’operazione militare israelo-americana.

L’omissione della notizia da parte di storici del ‘calibro’ di Morris, Laurens o Gilbert (ma l’elenco si allunga all’infinito) potrebbe trovare qualche giustificazione ‘tecnica’ nel fatto che, nel 1984 (l’anno di pubblicazione), il metodo d’indagine disponibile a Green era quello soprattutto del colloquio immediato, verbale, con uno dei partecipanti nell’operazione, in qualità di testimone diretto dei fatti (la cui identità, per ovvi motivi, non venne fornita) (Green, op. cit., pp. 209-210)

Operazione IRAN era segreta. Ma, a quanto pare, gli storici ‘seri’ non riconoscono l’esistenza di strategie ed operazioni segrete, nonostante il clamoroso imbroglio americano dell’incidente del Golfo di Tonchino di quegli stessi anni (la cui consistenza ha filtrato molto gradualmente, e quindi solo parzialmente, nella conoscenza dell’opinione pubblica americana).

Prima di trattare Operazione IRAN, allora, consideriamo molto brevemente la reception history di Tonchino (1964):

Il 4 agosto, due navi americane comunicano di essere state attaccate dalle forze nordvietnamite (siluri) a distanza di 65 chilometri dalla costa del Vietnam del Nord nel Golfo di Tonchino. I nordvietnamiti affermano invece che le navi erano penetrati nelle loro acque territoriali. Gli americani negano tale circostanza e ribadiscono di essere stati attaccati. I nordvietnamiti, a loro volta, escludono che questo attacco sia avvenuto. Gli americani lanciano immediatamente una incursione aerea, colpendo alcune navi e postazioni locali nordvietnamiti.

Prima del 4 agosto, il Presidente americano, che già in precedenza voleva agire apertamente contro il Vietnam del Nord, aveva ottenuto pochi consensi a livello di opinione pubblico (il 42% secondo i sondaggi della Harris polls). Dopo l’asserito incidente di Tonchino, con il consenso del Congresso, il presidente ha carte blanche ed ordina l’attacco frontale. I consensi salgono nel frattempo al 72%.

Nel 1968, a distanza di quattro anni di questi fatti, durante un’udienza della commissione estere del Senato, il capitano della Maddox, una delle due navi ‘attaccate’, afferma che ciò che appariva al sistema radar come un insieme di siluri poteva essere ascritto invece ai fenomeni generati dalle vibrazioni delle eliche della nave stessa (questi dati sono tratti da The Eagle and the Lotus, J. F. Cairns, Melbourne, Australia, 1969, pp. 69ss.).

I dubbi, infatti, avevano circolato già dai primi tempi (cfr. AA.VV., The Politics of Escalation in Vietnam, Fawcett World Library, New York, 1966, pag. 40). Vengono confermati da Daniel Ellsberg, il notissimo autore di The Pentagon Papers, durante una testimonianza resa sempre davanti alla commissione estere del Senato (13 maggio 1970). Ellsberg affermerà più tardi, dopo la lettura, nel 1971, di The President’s War (trad. it.: Anthony Austin, La guerra del Presidente, Garzanti, 1972), di essere «quasi sicuro» che l’attacco nordvietnamita sia una finzione (Daniel Ellsberg, Vietnam, verità e menzogna, Garzanti, 1973, pag. 250).

Nel 1987, Ben Bradlee, ex-caporedattore(!) del Washington Post(!), si aggiunge al ‘coro’: dichiara di essersi ormai convinto che l’incidente di Tonchino fosse un falso completo. Gli anni passano: «It has really taken 20 years for the truth to emerge» (ci sono voluti davvero venti anni prima che la verità venisse a galla) (B. Bradlee, Deceit and Dishonesty – The first James Cameron Memorial Lecture, The Guardian, Londra, 20.4.1987). Bradlee giunge a questa conclusione dopo la lettura delle memorie di guerra dell’Ammiraglio Jim Stockdale (In Love and War, James Stockdale, Harper & Row, New York, 1984).

Stockdale è pilota (comandante di squadriglia) nei cieli di Tonchino quel 4 agosto 1964. Da lì a poco è catturato dai nordvietnamiti (seguono più di sette anni di prigionia nel Vietnam del Nord). Già ammiraglio, eroe di guerra pluridecorato, Stockdale concorre alla vicepresidenza degli Stati Uniti nel 1992.

Operazione IRAN risale allo stesso periodo della storia americana. Coinvolse direttamente piloti e tecnici americani in azioni di ausilio tecnico alle forze israeliane, in tempo di guerra. Si trattava di operazioni di rilevamento, la cui base era posta sul suolo israeliano, di dati sulle istallazioni militari (basi aeree) delle forze arabe schierate contro Israele.

Per la giustizia americana, gli elementi di spionaggio, alto tradimento e forse di impeachment, ci pare, sono tutti presenti.

Data la sua complessità e delicatezza, l’operazione fu indubbiamente pianificata con largo anticipo. Ben prima, ad esempio, della chiusura del canale di Tiran. Notiamo sia l’impiego delle tecnologie segrete più avanzate dell’epoca sia la scala dell’iniziativa (che, oltre agli Stati Uniti ed Israele, richiedeva il coinvolgimento dell’Inghilterra, della Germania e della Spagna, che fornirono, consapevolmente o no, basi logistiche per i vari mezzi aerei statunitensi coinvolti).

Precisamente perché l’andamento di questa guerra dipendeva – se non esclusivamente, in gran parte, a detta di tutti gli storici – dalla precisione con cui le forze aeree israeliane nelle prime ore dello scontro distrussero le forze aeree nemiche, è ragionevole supporre che sia l’Operazione IRAN in sé sia la guerra nel suo complesso fossero state pianificate insieme, organicamente come un’unica, singola operazione.

Approntato il tutto, di fronte alle notevoli dimensioni della missione, e anche per proteggere la segretezza della stessa, è verosimile che abbia avuto una sell-by date (data di scadenza), e cioè che ad un certo punto divenne necessario o abbandonare il piano o cogliere la prima opportunità per attivarlo, e quindi entrare in guerra. In presenza di un piano del genere è chiaramente di scarso peso l’eventuale circostanza che gli israeliani fossero stati colti «indubbiamente di sorpresa» (Morris, op. cit., pag. 387) dalla decisione egiziana di allontanare le forze ONU dal Sinai. Né è ragionevole ipotizzare, all’epoca, uno stato di impreparazione militare israeliana (per questo e per mille altri motivi!). E se la ‘scintilla’ non si presentava, provocarla non sarebbe stato difficile. Da parecchi anni, il terreno regionale era fittamente cosparso di casus belli.

Evidenze di censura:

1) L’opera di Stephen Green – anche per le documentazioni che riporta – è indubbiamente conosciuta nella sua interezza da ogni vero esperto delle vicende belliche del Medio Oriente del XX secolo. Green (con altra opera) viene nominato da Gilbert tra le fonti bibliografiche, ma non da Morris;

2) Per Morris, la vittoria aerea del 1967 sulle forze arabe, schiacciante ed immediata, era dovuta essenzialmente «all’abilità del personale di terra». Dal testo risulta chiaro che il personale di terra a cui Morris si riferisce era di nazionalità israeliana (op. cit., pag. 402).

Pur citando le parole espresse a guerra finita dal re di Giordania, Hussein («I loro piloti conoscevano a menadito quello che avevano di fronte… disponevano di elenchi completi dei più minuti particolari di ciascuna delle 32 basi aeree arabe, sapevano dove colpire, cosa e come») (op. cit., pag. 400), Morris evita ogni riferimento allo studio compiuto da Green sull’Operazione IRAN. Lo scopo dell’operazione (conseguito con successo) consisteva nell’assicurare ad Israele precisamente quella vittoria aerea, così eloquentemente descritta dal re Hussein. Morris era intellettualmente obbligato a menzionare l’operazione (pur contestando, nell’eventualità, la versione dei fatti offerta da Green), sia per la testimonianza fornita, sia, semplicemente, per il fatto che, per Green, detta operazione fu allestita precisamente per acquisire quegli «elenchi completi» e «minuti particolari» descritti da Hussein, e di cui Morris scrive, tra l’altro, con enfasi ed evidente soddisfazione!

Morris ha tradito la propria missione qua storico? La risposta è affermativa:

a) per l’imprescindibile natura dell’opera nel suo complesso. Green ha svolto ricerche basate in parte su documentazioni ufficiali americane che, oggi, con ogni probabilità – come ci ricorda lo stesso Green (op. cit., pp. 9ss.) – non sono più a disposizione degli studiosi (riforma reaganiana del Freedom of Information Act);

b) per gli specifici contenuti esposti ‘in esclusiva’ sempre da Green, strettamente pertinenti agli sviluppi della guerra aerea descritti da Morris;

c) per l’importanza dell’argomento che, come nel caso del suddetto ‘incidente’ di Tonchino, è, in sé, di primissimo ordine storico.

3) Laurens, professore al Collegio di Francia e autore di diverse opere dedicate al conflitto arabo-israeliano, si accoda alla versione ufficiale dei fatti. Con caratteristica nonchalance Laurens ‘rincara’ la ‘dose’: Nasser «non comprende – scrive – che Israele ha solo bisogno dell’appoggio politico (e non della partecipazione militare) degli Stati uniti e del Regno unito» (sott. mia). Aggiunge: «Un intervento militare, anche simbolico, delle due potenze anglosassoni, farebbe gioco soprattutto ai sovietici» (sott. mia).

Ha violato i propri doveri da intellettuale e storico per motivi identici a quelli che abbiamo attribuito a Morris: il riferimento di Laurens al valore «simbolico» di un intervento militare esterno costituisce l’ingiustificata ed aprioristica esclusione di ogni ipotesi di un intervento militare diretto da parte degli Stati Uniti in quel teatro di guerra. Tra l’altro, il riferimento alle «due potenze anglosassoni» è interessante. Trattasi di colpo diversivo o di altro?

Rimane un quesito importante. Che valore avrebbe avuto/ha avuto Operation IRAN? Quali ne sarebbero stati/sono stati i benefici per gli Stati Uniti?

Può darsi che, per vincere la guerra, Israele non abbia avuto, strettamente parlando, bisogno della partecipazione militare degli Stati Uniti. Ma in tal caso, le due domande – ‘Che valore avrebbe avuto Operation IRAN?’ e ‘Quali ne sarebbero stati i benefici per gli Stati Uniti?’ – diventano doppiamente pertinenti.

L’operazione mirava verosimilmente all’accorciamento della guerra, per compensare le deficienze economiche della macchina israeliana (gli israeliani erano indubbiamente molto ben attrezzati, ma per le guerre di breve durata: cfr. Weinstock, op. cit., pp. 196-197). Questo spiega in parte, ma non giustifica, la brutalità del loro intervento durante i giorni di classica guerra internazionale, ma non spiega per nulla la brutalità che ha caratterizzato le operazioni successive di pulizia etnica nei territori da loro occupati. Di fronte ai benefici tratti sia dagli israeliani sia dagli stessi Stati Uniti, i rischi corsi dagli americani ci paiono sproporzionatamente grandi (soprattutto sul fronte diplomatico).

Siamo in epoca di guerra fredda e della guerra del Vietnam. Se l’operazione divenisse di dominio pubblico, come avrebbero potuto reagire (posto che ne fossero state tenute all’oscuro) la Germania, la Spagna e la Gran Bretagna? Spostandosi in blocco verso il campo ‘anti-yankee’ di Charles de Gaulle? Nel caso di una vittoria israeliana conseguita invece dopo una guerra eccessivamente lunga, la vittoria si sarebbe ‘diluita’ (una vittoria puramente difensiva, ad esempio, senza la conquista della Cisgiordania)? Che dire poi delle azioni israeliane in Siria proseguite in violazione del cessate il fuoco? L’aiuto esterno assicurò ad Israele la vittoria in sé? O forse non la vittoria in sé ma quella vittoria territoriale schiacciante che ci fu, ad ampissimo raggio, comprese le violazioni del cessate il fuoco? In assenza dell’aiuto americano, tali conquiste territoriali erano oltre le capacità delle sole forze israeliane? Le percezioni della recente campagna libanese confermerebbero un quadro del genere, anche oggi.

Le risposte continuano a sfuggirci, ma all’elenco delle domande bisogna aggiungerne un’altra, importante. L’operazione poteva avere una valenza, invece, del tutto politica? Ha costituito essenzialmente un’arma di ricatto internazionale allestita ai danni del potente ma compromesso ‘alleato’ americano, o dello stesso Presidente?

A proposito della vittoria lampo, Green riporta il seguente dato curioso. Nel maggio del 1967, Johnson chiese alla CIA una stima delle capacità militari israeliane. La CIA – con agghiacciante precisione – previde una guerra della durata di circa una settimana, con Israele vincente. In sé, ciò confermerebbe che il Presidente e la CIA fossero entrambi a conoscenza di Operazione IRAN. Nel 1968, il vicesegretario di stato americano, Nicholas Katzenbach, riferì che «The intelligence was absolutely flat on the fact that the Israelis would in essence do just what they did. That is, that they could mop up the Arabs in no time at all» (era del tutto pacifico per l’intelligence che gli israeliani avrebbero fatto essenzialmente quel che hanno fatto. Cioè che avrebbero potuto sistemare gli arabi definitivamente in un batter d’occhio) (Green, op. cit., pag. 200).

Pare, anche, che il governo americano si fosse addirittura dimenticato di stilare un piano ‘B’ (o contingency plan) per affrontare lo scenario dopo un’eventuale sconfitta israeliana!

Ma, in fase di preparazione, per essere sicurissimi della vittoria israeliana, il governo fece di più. Il 23 maggio 1967, violò addirittura l’embargo che esso stesso aveva imposto al mondo intero sugli armamenti diretti in Medio Oriente (Green, op. cit., pag. 201). Lo fece anche la Francia (Weinstock, op. cit., pag. 207).

I rischi legati all’Operation IRAN furono enormi. Tra questi si può ipotizzare anche quello dello scontro militare con l’URSS. L’avanzata in territorio siriano delle forze israeliane ebbe luogo dopo l’accettazione del cessate il fuoco da parte di Nasser (ratificata anche a nome della Siria). La violazione israeliana del cessate il fuoco è stata confermata sia dalle comunicazioni urgenti avvenute in quelle ore tra Mosca e Washington sia dalle manovre della Sesta Flotta nel Mediterraneo (Green, op. cit., pp. 200-201).

Quindi, ulteriori domande sorgono in merito ai rischi corsi dagli USA: 1) la violazione israeliana del cessate il fuoco (contro Siria) era prevista negli accordi presi con gli americani?; 2) se lo era, perché gli americani dovevano addossarsi questo ulteriore rischio?; 3) se viceversa la violazione non era prevista, quale giudizio dovevano dare gli americani del comportamento di un alleato così ambiguo, ingrato ed imprevedibile?

NOTA CONCLUSIVA

Tra le premesse di questo scritto abbiamo tracciato l’ipotesi della perdurante assenza, nonostante le apparenze, degli Stati Uniti quale attore politico autonomo nel Medio Oriente. Al di là di altre osservazioni, ci chiediamo se la stampa, il mondo accademico, i politici abbiano agito costantemente negli ultimi decenni per tenerci all’oscuro di ogni versione dei fatti che possa surrogare questa ‘tesi dell’assenza’. Mi sembra appropriato, quindi, segnalare in chiusura i recenti approfondimenti svolti negli Stati Uniti da John Mearsheimer e Stephen Walt precisamente s