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L’Europa che non ti aspetti

di Simone Olla - 08/10/2007

 
    

Esatto, è proprio così, io non me l’aspetto l’Europa, non riesco ad immaginarmela: come sarà? Sono troppe le variabili che condizionano il suo destino, sono troppi i fattori che dobbiamo tenere in considerazione per immaginare l’Europa che verrà.
Proveremo comunque ad indagare alcuni possibili scenari in campo politico e geopolitico. Ci soffermeremo nel di dentro dell’Europa, nel suo ventre, partendo da quei popoli senza stato che non accettano (e di più non comprendono) imposizioni dall’alto che vanno ad intaccare consuetudini sedimentate. E poi sposteremo lo sguardo altrove, fuori dall’Europa, per capire il ruolo della politica europea nel ventunesimo secolo.

Dentro l’Europa
L’Europa non può fare a meno dei suoi popoli, e questi devono essere sovrani nel loro territorio così da legittimare la classe politica che li governa. La Tav in Val di Susa, il Mose a Venezia, la base Dal Molin a Vicenza e la questione del Ponte sullo Stretto di Messina, passando – per quel che riguarda la Sardegna – attraverso le Scorie nucleari e il Parco del Gennargentu, sono tutti indicatori di un malessere diffuso. O se volete di un desiderio di partecipazione. O ancora la rottura delle vecchie categorie di rappresentanza politica. Le proteste popolari a cui abbiamo assistito in questi ultimi anni hanno la forza della trasversalità politica, che mette in crisi la desueta dicotomia destra/sinistra. Il cittadino scende in piazza, organizza presidi e comitati, occupazioni e cortei, senza voler essere strumentalizzato da alcun colore partitico.
Il movimento No Dal Molin, «per la sua stessa esistenza, apre delle contraddizioni ineludibili alla politica e alle sue forme di rappresentanza. Un movimento nato dal riscoperto interesse della comunità locale per la gestione della res pubblica, capace di bypassare i confini delle appartenenze, per mettere al centro il bene comune.» Questo recitava in data 15 febbraio 2007 il comunicato del Presidio permanente contro il Dal Molin. E per rendere più chiari i loro intenti chiedevano a gran voce alla classe politica di star loro lontani.
«Questo è un movimento maturo, con gli anticorpi per respingere l’incunearsi di virus dannosi. Quindi ribadiamo a tutti coloro che vorrebbero delegittimare o cavalcare questa comunità straordinaria che ci stiano lontani. Noi vogliamo continuare a lottare, a mobilitarci, a metterci pacificamente in gioco, perché farlo è legittimo; non accetteremo nessuna delegittimazione e criminalizzazione della partecipazione e della mobilitazione, delle lotte condivise e legittime di una comunità. […] Stateci lontani tutti! Il futuro è nelle nostre mani!»[1]
Le comunità locali quindi. E l’Europa. Europa che per farsi luogo di differenze, carnevale di lingue, colori e sapori, non può che partire dalle più piccole fra le comunità che nel vecchio continente vivono. È dalla vitalità degli abitanti di Vicenza (solo per fare un esempio) che dovremmo partire per costruire l’Europa politica. E la grande scommessa dell’Europa oggi è senza dubbio il territorio, ed il rapporto di quest’ultimo con gli abitanti. Un’Europa ancorata ai luoghi, un’Europa dei luoghi. Un’Europa ambientale, impegnata in prima linea per l’abbattimento delle emissioni di gas serra in atmosfera, l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili, le case passive, l’autoproduzione, il potenziamento dei mezzi di trasporto collettivo. Un’Europa ecologica quindi che a tutti i livelli preveda una partecipazione diffusa.
Il grande assente in questo scenario è il vecchio Stato nazionale: troppo piccolo per affrontare e condizionare le grandi questioni di politica estera e troppo grande per fornire risposte adeguate alle spinte popolari accennate in precedenza. Per costruire l’Europa politica occorre partire dal basso liberandoci dalla retorica nazionalista che indebolisce più che altro la visione dell’Europa come destino comune. L’Europa oggi è l’unico soggetto politico in grado di fronteggiare l’impero americano, l’unico soggetto in grado di liberarci prima di tutto dalla occupazione militare statunitense.
 
Fuori dall’Europa
Quando parliamo di Europa non possiamo non coinvolgere nella discussione anche gli Usa. E viceversa: per una analisi della politica americana non si può ignorare l’Europa, perlomeno come potenza economica e strategica. Quando nel 1997 è stato fondato il PNAC (Project for the New American Century) gli intenti erano chiari: rafforzare la pace americana nel mondo investendo sulla difesa militare, quindi l’assoggettamento politico, economico e militare (anche) dell’Europa ai destini/voleri degli Stati Uniti d’America. Fra gli intenti di questo Progetto per il Nuovo Secolo Americano si legge della necessità che le «forze armate [siano] adeguatamente forti e preparate per le sfide presenti e future». In questo contesto si muove «una politica estera che promuova largamente in modo coraggioso e propositivo i principi americani; ed una classe dirigente nazionale che accetti le responsabilità globali degli Stati Uniti.»
A dieci anni dalla nascita del PNAC possiamo affermare con certezza che gli Usa siano sulla strada giusta, aiutati in questo dal servilismo politico degli stati europei, incapaci di progettare un destino comune per l’Europa e contenti di essere la provincia più potente dell’Impero americano.
«Ovviamente, gli Stati Uniti devono essere prudenti nell’esercizio della loro potenza. Ma non possiamo separare in piena sicurezza le responsabilità di una leadership globale dai costi ad essa associati. L’America ha un ruolo vitale nel mantenimento della pace e della sicurezza in Europa, Asia e Medio Oriente. Se ci sottraiamo alle nostre responsabilità, diamo spazio a sfide ai nostri interessi fondamentali. La storia del 20° secolo dovrebbe averci insegnato che è importante dare forma alle circostanze prima che le crisi emergano, ed accettare le sfide prima che esse divengano terribili. La storia del secolo passato dovrebbe averci insegnato ad abbracciare la causa della leadership americana.»[2]
Nel progetto di sottomissione globale che gli Usa stanno portando avanti, l’Europa riveste un ruolo fondamentale ma pare non essersene accorta. Il motivo della distrazione può essere ricondotto alla atomizzazione politica del vecchio continente, che non riesce a parlare al mondo con una sola voce. In un documento del PNAC datato settembre 2000 vengono passate in rassegna le strategie politico-militari di dominio planetario degli Stati Uniti, con chiari intendimenti su quali debbano essere di destini dell’Europa in questo scenario.
«Riposizionare le forze armate Usa per far fronte alle realtà strategiche del XXI° secolo spostando forze basate in modo permanente nell’Europa sudorientale e nell’Asia sudoccidentale, e modificando i modelli di spiegamento delle forze navali in coerenza con i crescenti interessi strategici degli USA in Asia Orientale.»[3]
Tutto è mosso dagli interessi statunitensi. Le guerre in Afghanistan e Iraq hanno di fatto riposizionato le forze armate Usa nello scacchiere mediorientale, e il terrorismo internazionale è solamente un pretesto che ha mosso e legittima gli intenti di questo nuovo secolo americano. L’Europa sta a guardare, perché esiste. Quando non esisterà più non avrà nemmeno il privilegio di essere spettatrice.

NOTE
[1] Presidio permanente contro il Dal Molin, 15 Febbraio 2007. Fonte: www.girodivite.it
[2] I Principi fondamentali del progetto. Fonte: www.newamericancentury.org 
[3] A Report of The Project for the New American Century, Rebuilding America’s Defenses, Settembre 2000

[Fonte: Incursioni del Centro Studi Meridie]