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Paride o il futuro della guerra

di Stenio Solinas - 09/10/2007

Basil Henry Liddell

Hart aveva più del

dandy che del militare.

Era molto alto,

molto magro, abbastanza

miope, girava

in Rolls, giocava a

tennis, gli piacevano gli abiti di buon taglio e

la buona cucina, amava i Borgogna e i Bordeaux.

Rimase per tutta la vita Capitano, ma

non era mai stato un ufficiale di carriera,

bensì di complemento, volontario allo scoppio

della Grande guerra e poi congedato alla

fine degli anni Venti con un grado neppure

onorifico (in Inghilterra ci si può fregiare del

proprio passato militare a partire dal titolo di

Maggiore) e quindi inutile nella vita civile.

Studente a Cambridge, non si laureò, oratore

brillante e scrittore prolifico, nessuna università

ebbe mai il coraggio di dargli una cattedra

stabile. Fu nominato baronetto che aveva

già settant’anni, e questo gli permise di premettere

il Sir a quel doppio cognome che

non derivava da qualche nobiltà pregressa,

ma più semplicemente dall’accoppiata di

quello paterno, Hart, a quello materno, Liddell,

frutto di uno snobismo che andava di

pari passo con un’intelligenza acuta, una cultura

composita, uno stile mai arido. È stato il

più grande stratega militare del Novecento e

il più discusso, perché il suo non era mai un

pensiero chiuso, da accettare o da rifiutare in

toto, ma si nutriva delle suggestioni che le

esperienze pratiche e le letture via via gli

mettevano di fronte. Avendo partecipato alla

Prima guerra mondiale, ne trasse la convinzione

che i conflitti fossero cosa troppo

importante per lasciarli nelle mani dei generali,

e che la loro essenza non stesse nel cercare

la distruzione dell’esercito nemico, bensì

nell’individuarne il reale punto debole.

Negli anni fra le due guerre Liddell Hart predicò

una rivoluzione degli armamenti britannici,

che vedeva nei mezzi corazzati e nell’aviazione

la chiave di volta della modernità.

Contrario alla coscrizione di massa, ovvero

alla nazione in guerra, fu favorevole agli

accordi di Monaco perché conosceva l’impreparazione

militare del proprio Paese.

Intuì che il Giappone avrebbe attaccato gli

Stati Uniti, nella logica che “una nazione

piccola che abbia a che fare con uno Stato

più potente, e che preveda la sua posizione

possa peggiorare di anno in anno, se ritiene

la guerra inevitabile, coglie il momento in

cui la sua situazione sarà ancora lungi dall’essere

peggiore”. Allo stesso modo, previde

lo sbarco in Normandia, quando ancora

era nella sua fase embrionale di progetto, e

mise in guardia, inascoltato, sul bagno di

sangue che attendeva gli americani qualora

avessero scelto come approdo le spiagge fra

Caen e Cherbourg. Non essendo né un guerrafondaio,

né un militarista, il suo considerare

le sistemazioni difensive in Europa alla

vigilia del 1939, come inutili relitti del conflitto

precedente, gli valse l’accusa di disfattismo.

In una lettera allo storico e romanziere

Robert Graves, scritta a proposito del The

Defence of Britain che egli stesso aveva

pubblicato proprio in quell’anno, osservò:

“Il problema è come salvare il popolo britannico

dalla passata cecità e dalla presente

baldanzosa ostinazione sullo stile della carica

di Balaclava. Bisogna resuscitare il senso

di realismo facendogli vedere l’intero quadro

della situazione. La successiva e urgente

azione è quella di allertare gli Stati Uniti sul

pericolo che corrono se noi perdiamo e

mostrare loro la vitale importanza di un aiuto

il più presto possibile. Non abbiamo bisogno

soltanto di noi stessi, ma di essere salvati

da noi stessi”. Scambiarono le sue critiche

per vigliaccheria, l’idea che fosse necessario

l’intervento americano per un’offesa al

“coraggio inglese”, la sua allergia contro una

guerra a oltranza per abominevole, la sua

opposizione a Churchill per sacrilega, la sua

antipatia per i bombardamenti indiscriminati

e terroristici, per oltraggiosa. Furono gli anni

in cui, come per il Byron del primo Ottocento,

la definizione corrente di Liddell Hart

venne sintetizzata con gli aggettivi, pazzo,

cattivo e pericoloso. Quando la guerra finì, ci

si accorse che tutte le sue critiche erano fondate,

che tutti i suoi moniti avrebbero dovuto

essere ascoltati.

Di Liddell Hart la Libreria Editrice Goriziana

pubblica ora un testo giovanile, Paride o

il futuro della guerra (148 pagine, 18 euri),

che inaugura la collana “I maestri della guerra”

curata dal generale Fabio Mini. Di quest’ultimo

è anche la lunga introduzione, un

vero e proprio saggio, che ne ripercorre la

vita e le opere, ne pone in rilievo le intuizioni,

ne analizza il peso e il significato.

Scritto nel 1925, quando Hart non aveva

ancora trent’anni e alle spalle poco più di tre

mesi di fronte bellico effettivo, Paride è una

riflessione critica sulle devastazioni della

Prima guerra mondiale, sulla carneficina

umana e morale della stessa. Secondo l’autore,

finché l’obiettivo della guerra rimane la

distruzione delle forze avversarie, degli eserciti

nemici, di coloro che combattono e di

tutti quelli che vogliono e possono combattere,

ci saranno soltanto massacri e carneficine.

I problemi che causano le guerre non potranno

mai essere risolti da coloro che le

combattono e con gli strumenti impiegati per

combatterle. Bisogna dunque cercare di cambiare

la guerra stessa a partire dal suo obiettivo,

concentrarsi sulle menti, sulle volontà,

più che sugli strumenti. Bisogna cambiare i

Guerrieri: non servono schiavi delle armi e

delle tecnologie, ma menti libere che capiscano

la guerra e lascino libertà all’Intelligenza

e all’umanità propria del Nemico. “È

compito della Grande Strategia individuare,

e sfruttare, il tallone d’Achille di una nazione

nemica, colpendo non la sua fortificazione

più massiccia, bensì il suo punto più vulnerabile.

Fu in questo modo che nel primo

conflitto di cui la storia ci tramanda memoria,

Paride, figlio di Priamo re di Troia,

uccise il campione dei Greci. Dopo aver

distrutto milioni di vite in vani assalti contro

le forze del nemico, non farà male riflettere

sulla lezione di Paride che tremila anni or

sono prese di mira il tallone d’Achille”.

Fedele al detto di von Clausewitz, “in guerra

tutto è molto semplice, ma anche

la cosa più semplice è difficile”, ma

in qualche modo correggendolo con

l’aforisma del maresciallo Saxe, “la

guerra è un commercio per l’ignorante,

una scienza per gli uomini di

genio”, in Paride Liddell Hart utilizza

il passato per illuminare

meglio il presente. Così, degli

esempi della classicità gli permettono

di rafforzare il suo assioma di

base: “Lo scopo di un Paese in

guerra è piegare la volontà di resistenza

del nemico, subendo meno

perdite possibili in termini di vite

umane e di risorse economiche. Se

è questo il vero obiettivo ci accorgeremo

che la distruzione delle

forze armate del nemico è solo un

mezzo (e non necessariamente un

mezzo indispensabile o infallibile)”.

Scipione l’Africano, invece

di cercare la mossa risolutiva in

una madre patria dove Annibale

ha già troppo vinto, s’imbarca

per Cartagine, costringe quest’ultima

a richiamare il suo condottiero,

libera l’Italia e sposta i

termini della posta in gioco: non

già l’esercito nemico, ma l’essenza

del nemico stesso, l’obiettivo

morale rappresentato da

una nazione, il suo governo, la

sua popolazione.

In controluce, Paride dice molto

anche sulla guerriglia, le

occupazioni militari troppo

prolungate, l’errore di condizioni

di pace troppo dure, il

senso di dignità nazionale.

“Quanto più ampia è la ferita

inferta, tanto più profonde sono le piaghe

del corpo politico e la suppurazione creata

dalle tossine della vendetta”. Scrive Fabio

Mini che “non c’è scuola strategica che non

abbia attinto da Liddell Hart e purtroppo

una caratteristica negativa della scuola neoclausewitziana

che si è formata negli Stati

Uniti è di essersi arroccata a difesa delle

presunte tesi del Prussiano in maniera rigida

e sciupando molte energie nella confutazione

di singole parole e concetti di Liddell Hart,

così confermando ciò che quest’ultimo diceva

del meccanicismo, del dirigismo e del

determinismo cieco”. A una cattiva lettura di

von Clausewitz si deve l’attuale realtà irachena...

Non basta distruggere gli eserciti per

vincere le guerre.