Umanitarismo militare dilagante
di Roberto Zavaglia - 09/10/2007
C
on la firma, giovedì scorso, di undocumento che dichiara la penisola
“zona di pace”, i Presidenti delle
due Coree hanno avviato un processo
che dovrebbe portare alla fine di un conflitto
durato 57 anni. Al termine della
guerra, combattuta dal 1950 al 1953 in
conseguenza dell’invasione dell’esercito
del Sud, cui aveva fatto seguito l’intervento
statunitense in appoggio a Seul, fu
siglato solo un “cessate il fuoco” che ha
trasformato la cosiddetta “zona smilitarizzata”
del 38° parallelo nell’area forse più
militarizzata del pianeta. L’accordo fra
Kim Jong-il e Roh Moo-hyun apre la strada
a una conferenza - nella quale saranno
coinvolti anche gli Stati Uniti e la Cina,
“tutori” rispettivamente della Corea del
Sud e di quella del Nord - che dovrebbe
produrre un trattato di pace definitivo.
Il giorno prima dell’intesa, da Pechino era
giunta la notizia che la Corea del Nord
aveva accettato di disattivare l’impianto
nucleare di Yongbyon, abbandonando il
progetto di dotarsi di un arsenale
atomico. La rinuncia alla “bomba”da parte di Kim Jong-il è la felice
conclusione di un lungo lavoro diplomatico
che ha visto coinvolti, oltre
alle due Coree, anche USA, Cina,
Giappone e Russia. Con ogni probabilità
il regime comunista otterrà in
cambio la fine delle sanzioni economiche
e un piano di aiuti per rivitalizzare
la catatonica economia del
Paese. Occorrerà verificare se Kim
Jong-il terrà fede alle sue promesse,
poiché si tratta di un dittatore che
non teme di smentirsi, alternando i
gesti distensivi alle minacce, per ottenere,
al tavolo delle trattative, il massimo
per il suo regime.
Ci si deve dunque rallegrare che una
delle crisi internazionali più potenzialmente
dirompenti si stia chiudendo
senza alcun intervento militare?
Crediamo di sì, anche se l’accordo,
probabilmente, avrà l’effetto, nel breve
periodo, di stabilizzare un regime
francamente disgustoso. La Corea del
Nord è un reperto del peggiore passato
del socialismo reale, nel quale l’ideologia
comunista si mescola alla
“Juche”, una dottrina in cui il dogma
dello sviluppo autarchico convive
con il culto della personalità del
“caro leader”. I 23 milioni di abitanti
vivono in una condizione da incubo,
ridotti quasi alla fame, privi di ogni
anche minima libertà e impossibilitati
a conoscere ciò che accade nel resto
del mondo. Le dissennate scelte economiche
del regime, inoltre, hanno
provocato, nel passato, delle carestie
con centinaia di migliaia di morti. Se
c’è soddisfazione perché un nuovo
conflitto, più volte minacciato dagli
USA, è stato scongiurato, rimane l’amaro
in bocca per la sopravvivenza
di un tale regime.
La pace tra le due Coree e la fine del
progetto atomico di Pyongyang sono
il frutto di una politica tesa al raggiungimento
del male minore. Nelle
relazioni internazionali, il male
minore è la via maestra che la diplomazia
è costretta ad imboccare. L’alternativa,
di solito, è la guerra.
L’“utopismo internazionalista”, cioè
l’idea che la politica di uno o più Stati
debba indirizzarsi allo sradicamento
del male dal mondo - essendo il
male solo quello scorto negli avversari
- è seminatore di catastrofi, come
ben dimostrano i risultati prodotti
dall’odierna Amministrazione USA.
Non a caso, diversi ideologi neoconservatori,
che tanta influenza hanno
esercitato in questi anni sulla politica
statunitense, provengono dal trotzkismo,
cioè da una teoria della rivoluzione
mondiale permanente.
L’“umanitarismo militare”, figlio
legittimo dell’utopismo internazionale,
attecchisce senza difficoltà a
destra come a sinistra, portando in
dote i suoi frutti avvelenati. La carriera
dell’attuale ministro degli Esteri
francese è emblematica di come una
simile visione rimanga il nocciolo
duro dell’ideologia di un uomo che
pure ha abbracciato, nel corso della
sua vita, posizioni politiche apparentemente
distanti.
Bernard Kouchner si è fatto le ossa
nel libertario Sessantotto parigino,
prima di avvicinarsi al Partito Socialista.
L’afflato umanitario che l’ha
portato, “da militante”, a partecipare
alla fondazione di “Medici senza
frontiere” è lo stesso che gli ha consentito
di guadagnare poi importanti
incarichi istituzionali. Kouchner,
dopo l’aggressione alla Jugoslavia da
lui caldeggiata in nome dei diritti dell’uomo
dell’etnia albanese, divenne
capo dell’amministrazione ONU in
Kosovo, dove si è distinto per avere
creato una struttura burocratica pletorica,
senza ricadute positive sull’economia,
tuttora in mano alla mafia,
nonostante gli enormi finanziamenti
di cui ha goduto. Sarkozy l’ha chiamato
nel suo Governo per conferire
un’immagine di protagonismo alla
politica estera francese e il prescelto
lo sta ripagando abbondantemente.
L’ultima uscita del ministro francese
è la richiesta all’Unione Europea di
imporre nuove autonome sanzioni
all’Iran, senza aspettare le decisioni
dell’“inefficiente” ONU. Italia e Germania,
che sono i maggiori partner
commerciali di Teheran, hanno bocciato
la proposta. La decisione, pure
se influenzata da considerazioni economiche,
è giusta, anche perché la
missione ONU incaricata di indagare
sul nucleare iraniano è tuttora in corso
e, secondo il suo direttore,
Mohammad El Baradei, l’Iran non si
rifiuta di collaborare.
Eppure, l’intransigente Kouchner
non vuole perdere tempo e pare rifiutare
l’idea che con un Paese diverso
dai suoi criteri “morali” vi possano
essere trattative fruttifere.
Il medico francese è, però, la stessa
persona che, nel 2003, recatosi in
Birmania per difendere gli interessi
dell’azienda petrolifera Total e retribuito
dalla stessa con 25mila euro,
dichiarò, a proposito del regime militare
ora tristemente agli onori della
cronaca, che «non è più l’epoca di
embarghi e sanzioni, la cui efficacia è
limitata e provoca sofferenze fra i
poveri».
Le contraddizioni del ministro francese
si potrebbero addebitare solo
alla sua debolezza personale, ma non
ci sembra sufficiente. C’è qualcosa di
strutturale nell’ipocrisia dell’“interventismo
umanitario” che, decretando
la limitazione delle sovranità
nazionali, pretende di esercitare una
giurisdizione universale. Si tratta dell’astrattezza
con cui questa ideologia
giudica il mondo, valutandolo esclusivamente
sotto il profilo dei diritti
umani, senza tenere presenti i diversi
contesti e i rapporti di forza internazionali.
Se il massimo bene, per
un’umanità concepita come unità
morale priva di sostanziali differenze
culturali, sono il libero mercato e l’emancipazione
personale, la critica
colpirà, selettivamente, solo i Paesi
non in linea con gli standard richiesti.
Sul piano economico - nel quale rientrano
anche gli affari con regimi criminali
- l’utopista armato non è
inflessibile, perché l’apertura di un
Paese al mercato internazionale è pur
sempre un elemento positivo nella
sua visione storica che prevede un’evoluzione
lineare, identica a tutte le
latitudini. Chi fa affari con i massacratori
di monaci buddisti, insomma,
può coerentemente odiare i mullah
sciiti.