Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Di chi è la mia vita?

Di chi è la mia vita?

di Francesco Lamendola - 10/10/2007

 

«Di chi è la mia vita?».

Domanda provocatoria, evidentemente. Se parliamo della «mia» vita, di chi altri dovrebbe essere? La mia vita è mia, la tua è tua, la sua è sua; tutto chiaro, no?

Ahimé, non è affatto chiaro come certi radical-chic dalla droga facile e dall'eutanasia facile, e che sempre si riempiono la bocca di diritti ma non parlano mai di doveri, vorrebbero farci credere.

Innanzitutto, un equivoco linguistico. Quando dico: la mia camicia, indico senz'altro qualche cosa che mi appartiene; ma quando dico: la mia città, dico già un qualche cosa di profondamente diverso; perché la camicia mi appartiene in senso strettamente materiale (e anche giuridico), mentre la città mi appartiene solo come vissuto della mia coscienza, della mia affettività, della mia relazionalità: ossia in senso spirituale (e, in questo caso, biografico: ma la "mia" città potrebbe anche essere tale per elezione e non quella in cui sono nato). Se poi dico: "mia moglie", non intendo altro che quella persona con cui ho sottoscritto un patto (religioso o civile che sia), giuridico e morale al tempo stesso; ma quella persona non mi appartiene affatto se non nella misura, che sarà oggetto di una dialettica quotidiana, in cui ella liberamente sceglierà di appartenermi, di darmisi, di essere parte di me e del mio progetto esistenziale.

In conclusione, possiamo dire "nostre" solo quelle cosa che siamo liberi di prendere e di lasciare. La vita possiamo, eventualmente, decidere di lasciarla (mediante il suicidio), ma non di prenderla. In questo senso, nemmeno la mia coscienza è veramente mia: non sono stato io ad assumerla; l contrario, è essa che delinea l'orizzonte del mio vissuto e definisce l'ambito della mia attività. Tra parentesi, questa definizione di ciò che è mio, strettamente empirica, dischiude un notevole cambiamento di prospettiva rispetto alle nostre certezze istintive, perché suggerisce che sono molte, in realtà, le cose che credevamo "nostre", mentre invece non lo sono; ma su ciò torneremo altra volta e, comunque, non vogliamo dilatare ulteriormente la sfera, già molto ampia, della presente riflessione.

Se dunque la "mia" vita non è mia nel senso pieno e rigoroso del termine, sorge spontanea la domanda di chi o di che cosa sia, a chi o a che cosa essa appartenga. La religione e la filosofia hanno tentato di dare delle risposte il cui limite, spesso, è che si tratta di risposte univoche e non universali, tali cioè da creare un pensiero oppositivo piuttosto che unitivo. Per quanto milioni o miliardi di persone possano, cioè, riconoscervisi, resta sempre una parte di umanità che non sarà mai disposta ad accettarle, poiché le premesse da cui muovono e lo stesso orizzonte generale entro il quale si situano (la Weltanschauung dei Tedeschi) sono, più ancora dei contenuti specifici, per essi totalmente inaccettabili. Ora, il nostro presente sforzo vorrebbe essere appunto questo: delineare un percorso di riflessione che sia il più possibile unitivo e che non escluda a priori una parte dei possibili interlocutori. Per dividersi, poi, c'è sempre tempo; ed è giusto che sia così; ma tutti gli uomini di buona volontà dovrebbero innanzitutto cercare una base comune di dialogo, mediante la quale tentar di individuare alcuni principi fondamentali sui quali fondare un progetto di società accogliente, solidale e al tempo stesso  rispettosa delle differenze.

Un punto di partenza potrebbe essere non domandarci, appunto, di chi o di che cosa sia la "mia" vita, da chi o da che cosa sia stata portata all'essere; ma, semplicemente, se essa possa considerarsi, da un punto di vista prettamente empirico, autosufficiente rispetto al contesto nel quale si attua, oppure no. Al che ci renderemo facilmente conto che essa non è in alcun modo autosufficiente, perché - dalla levatrice che ci ha aiutati a uscire dall'utero materno, fino al calzolaio che ci risuola le scarpe consumate - essa dipende continuamente dalla relazione collaborativa con innumerevoli altri esseri umani (e anche non umani: ma di ciò parleremo un'altra volta). Si badi che nello scenario di relazioni collaborative entrano non soltanto coloro con i quali stabiliamo un rapporto diretto, come nel caso della levatrice o del calzolaio, ma anche coloro con i quali esiste un rapporto indiretto, come nel caso dell'operaio che ha confezionato i miei pantaloni o dello scrittore, vissuto magari duemila anni fa, che mi parla e mi influenza attraverso le pagine di un libro.

A rigor di termini, anzi, una breve riflessione ci porterà facilmente alla conclusione che l'intero universo è chiamato in causa dalla relazionalità della mia vita, perché la mia vita mi precede, in quanto disponibilità ad accoglierla da parte dei miei genitori, nonni e antenati; e mi segue, in quanto mia discendenza, materiale o spirituale, e in quanto effetto futuro delle mie azioni presenti (come nel caso di una grande anima che spinge alla conversione qualcuno che viene al mondo molto tempo dopo che essa ha lasciato questo mondo; o come in quello della mina antiuomo che scoppia e fa del male a qualcuno, anche dopo che colui l'ha posta ha cessato di vivere). Sia in senso longitudinale (passato e futuro), sia in senso trasversale (gli esseri umani con i quali, direttamente o indirettamente, corrispondo nel senso più ampio del termine), la mia vita non è che una fittissima trama di relazioni che chiama in causa il più piccolo filo d'erba e la più lontana galassia.

Dunque la nostra vita non è autosufficiente né in senso materiale (perché non ce la siamo data da noi e perché non potremmo conservarla con le nostre sole forze), né in senso spirituale (perché non possiamo concepire una vita che non sia ricerca di affetti da dare e da ricevere), né in senso morale (perché coinvolge altre vite, che di noi hanno bisogno o che da noi attendono un elemento essenziale del loro realizzarsi, a cominciare dalla nostra disponibilità ad accogliere ancora vita, mettendo al mondo dei figli), né in senso giuridico (perché non possiamo sottrarla a una trama di impegni condivisi a livello sociale, sui quali si basa la pura e semplice possibilità di un'esistenza collettiva, quale che essa sia).

E tuttavia - questo lo sentiamo con forza, a qualunque fede o credenza apparteniamo - essa costituisce un valore. Per alcuni, che partono da una visione laica e immanentistica, è un valore relativo; per altri, che partono da una prospettiva religiosa o, comunque, trascendente, un valore assoluto. E già qui parrebbe profilarsi il rischio di una assoluta incomunicabilità fra le due concezioni, come le monadi leibniziane "senza porte e senza finestre". In realtà non è così, o almeno non è necessariamente così, solo che si rifletta che anche per la concezione trascendente della vita essa non è davvero un valore assoluto, nel senso che esistono delle condizioni e dei valori alla luce dei quali, eccezionalmente, la vita stessa può essere subordinata. Il genitore che sacrifica la propria vita per proteggere quella del figlio, il missionario che sacrifica la propria vita per diffondere valori religiosi che ritiene fondanti, sono esempi di questa affermazione. Gesù Cristo non considerava la vita umana un valore assoluto, altrimenti non avrebbe affrontato la morte per diffondere il suo messaggio; e la stessa cosa pensano i fedeli islamici, ebrei, buddhisti (come i recenti avvenimenti della Birmania hanno mostrato, coi monaci che sfidavano la persecuzione e la morte per testimoniare valori più alti della vita stessa).

Allora, diciamo che la vita umana è un valore; un valore molto importante; ma non il valore supremo. Un valore è, evidentemente, qualche cosa che vale per qualcuno, un qualcosa che è apprezzato in se stesso e che è percepito come un bene. I valori non sono mai del tutto oggettivi o del tutto soggettivi. Non sono del tutto oggettivi, perché noi, dall'esterno, non possiamo capire sino in fondo le ragioni per cui qualcuno decide di offrire la propria vita per realizzare un valore ritenuto più grande di essa; possiamo intuirlo, ammirarlo, rispettarlo, ma non comprenderlo al cento per cento. Eppure i valori non sono neanche del tutto soggettivi perché, nonostante quello che abbiamo appena detto, gli esseri umani sentono che un valore, per essere veramente tale, deve potersi riconoscere come un bene non solo per un determinato individuo, ma come un bene (magari potenziale, o futuro) per qualunque altro individuo. La rinuncia volontaria e ponderata alla propria vita è coinvolta in un simile ordine di ragionamenti. Un dolore privato che spinge Mario Rossi a gettarsi da un ponte alto duecento metri può suscitare compassione e rispetto, ma il gesto del suicidio non viene percepito come un valore; invece i trecento Spartani di re Leonida che, alle Termopili, si fecero uccidere fino all'ultimo per proteggere la patria in pericolo, suscitano ammirazione e il riconoscimento che essi si sono sacrificati per un valore più grande della stessa vita: la libertà.

Dunque arriviamo alla conclusione che la vita non è un valore, ma ha un valore gradissimo, perché da essa traggono origine e alimento i valori più alti, quelli non negoziabili e dai quali la vita stessa riceve splendore, dignità e autonomia. Se è così, allora la vita dei singoli individui non è veramente "loro", ma appartiene a quei valori supremi o, quanto meno, trova in essi la sua giustificazione, la sua fondazione ontologica e la sua intima pregnanza. Non si vive soltanto per sé stessi, ma per offrire disponibilità e apertura a quei valori; e lo stesso dicasi della morte: non si muore soltanto per sé, ma per affermare e testimoniare l'importanza e l'efficacia di quei valori. Non staremo a farne un elenco; ne abbiamo ricordati alcuni: la difesa della vita altrui, il messaggio dell'amore universale, del perdono e della riconciliazione; la libertà. Altri ne potremmo ricordare, ma crediamo che siano le concrete circostanze della vita a presentarci, volta per volta, il contesto spirituale e l'orizzonte di senso che possono spingerci ad affermare un determinato valore come prioritario rispetto alla nostra stessa vita.

Un interrogativo particolarmente arduo, ma appunto perciò adatto a lumeggiare sino in fondo la portata delle precedenti affermazioni, è quello del valore da attribuirsi alla vita umana quando essa sia stata gravemente menomata, fisicamente o anche psichicamente, ad esempio in seguito a un grave incidente o a una malattia degenerativa. Senza pretendere di possedere il segreto miracoloso di individuare la giusta strategia negli svariati casi concreti che si possono presentare, ci sentiamo però di enunciare una indicazione di massima: che il valore intrinseco della vita non si può misurare in base a criteri oggettivi di qualità della stessa. Infatti la qualità della vita dipende in larga misura da parametri soggettivi: per qualcuno essa può essere elevata pur in presenza di gravi menomazioni e di sofferenze continue, se però sia illuminata da una determinata fede (non necessariamente di tipo trascendente); mentre può essere percepita come inadeguata da altri che, secondo le apparenze, non avrebbero motivo di lamentarsi troppo. Cade perciò la pretesa di sostenere che una vita perde la sua dignità e diventa un dis-valore in base a una misurazione oggettivistica della sua qualità.

Ancora più spinoso è il problema che si pone allorché ci si trova davanti a una vita che abbia perduto il bene dell'autocoscienza, una vita ridotta al puro stato vegetativo. Come la si deve considerare; quali strategie mediche si devono adottare; quale è il suo vero bene, a giudizio dei medici e dei parenti: prolungarsi o finire? Si tratta di un mistero abissale, di quelli - direbbe Dante - che fanno tremar le vene e i polsi. Anche qui, non pretendiamo certo di avere la formula magica per rispondere sempre e comunque; possediamo però un orientamento di massima: nessun accanimento  terapeutico, quando l'evidenza mostra che la vita non è e non sarà mai più in grado di svolgersi autonomamente sul piano biologico e quando non vi sia alcuna speranza di ritorno alla coscienza; ma, al tempo stesso, nessuna somministrazione volontaria della morte se non, forse, in pochissimi casi assolutamente eccezionali, quando il grado di sofferenza sia intollerabile e la prospettiva di ripristino delle funzioni biologiche essenziali sia nulla, e inoltre vi sia una esplicita richiesta in tal senso dell'interessato o, almeno, dei suoi parenti stretti. Anch'essa, però, dovrebbe essere attuata come rinuncia all'accanimento terapeutico e non come pratica intenzionale della morte: ossia come sospensione di terapie ormai inutili e tali da prolungare solo il dolore del paziente, assecondando cioè un processo naturale.

Le ragioni per questo atteggiamento di estrema cautela, di pensoso rispetto e di riconoscimento di un limite alla nostra capacità di comprendere e di agire, comunque, non derivano solo dalla soggettività della percezione della qualità della vita, di cui abbiamo già detto; ma anche dal fatto che, se la vita di ciascuno è strettamente correlata a una rete di relazioni universale, ne consegue che il suo valore non può essere misurato solo osservandola come un fenomeno del corpo. La "nostra" vita, proprio perché non è nostra, non si riduce alle funzioni del nostro organismo e neanche a quelle del nostro sistema nervoso centrale. Essa è una parola rivolta a tutti gli altri esseri e, pertanto, quel che ha da dire trascende l'ambito circoscritto del suo corpo, del suo letto d'ospedale, della sua situazione biografica e contingente. In altre parole, essa ha, sempre e comunque, una portata universale che significa qualcosa per tutti gli altri esseri viventi, alla luce di quei valori supremi di cui prima si è detto.

Per esempio, se ammettiamo che l'amore sia un valore superiore alla vita stessa, non si dovrebbe pensare solo all'eutanasia come gesto di amore verso una vita mutilata e sofferente; forse, in realtà, non si tratta tanto di amore quanto di pietà; ma quella vita, pur così mutilata e sofferente, forse ci sta dicendo qualcosa, e quel qualcosa è amore. Amore che ci sfida, che c'interroga, che ci provoca, che ci sconvolge: il mistero dell'amore che segue strade tutte sue per giungere alla nostra coscienza e che non parla il linguaggio auto-evidente della salute, del benessere, della felicità. Si dirà che, in ogni caso, la decisione se conservare una vita gravemente e irrimediabilmente compromessa sfugge alla decisione del diretto interessato e che la "sua" vita, a quel punto, è chiaramente nelle mani di altri. Il punto essenziale, però, non è questo; già avevamo chiarito che la "nostra" vita non è mai veramente nostra, anche quando siamo perfettamente sani e autocoscienti. Il punto essenziale è cercar di capire quali responsabilità derivino all'essere umano dal fatto di vivere, avendo ricevuto la propria vita e non essendosela data da sé.

Limitandoci, in questa sede, all'aspetto della questione che ci eravamo posti, una responsabilità che deriva dal fatto di esistere è quella di non interrompere il discorso che parla attraverso di noi, di non lasciare al buio coloro ai quali la nostra vita dona, magari inconsapevolmente, luce e calore. A volte qualcuno ci ringrazia per quello che abbiamo fatto per lui, e noi gli domandiamo: «Ma quando ti abbiamo aiutato?»; e invece è proprio così, noi lo avevamo aiutato, ma non intenzionalmente, col solo fatto di esserci e di essere in quel certo modo. La nostra vita, nel bene e nel male, coinvolge l'altro assai più di quanto immaginiamo e certamente più di quanto possiamo intenzionalmente programmare. A questo punto si domanderà che cosa può aver da dire agli altri lo spettacolo di una vita mutilata e magari, sciagura suprema, privata del bene dell'autocoscienza; e, soprattutto, perché una persona ridotta in tali condizioni dovrebbe ancora sentirsi vincolata da doveri nei confronti della rete della vita stessa. Alla prima domanda risponderemo che essa può aver molto da dire, perché - come diceva Platone - noi cominciamo a vedere veramente le cose solo quando gli occhi del corpo rimangono al buio. Alla seconda si può rispondere che l'impegno da noi preso nei confronti della vita, già per il solo fatto di essere al mondo, è vincolante e irrevocabile, né dipende dalle aspettative che possiamo avere, o non avere, nei confronti di quelli che saranno gli eventi specifici del nostro vissuto. Per fare un esempio: io sposo una persona sana e allegra, alla quale voglio bene: ho preso un impegno nei suoi confronti; se circostanze impreviste ridurranno quella persona ad altro da ciò che era (malattia, incidente, depressione, alcolismo), tutto questo non mi scioglierà dal mio impegno e non mi libererà dalla mia responsabilità. Non posso restituire il biglietto, semplicemente.

Ora, lo stesso ragionamento vale nei confronti di noi stessi: se qualche evento imprevisto ci colpisce, ci mutila, ci riduce all'ombra di ciò che eravamo, tutto ciò non ci esenta dalle responsabilità che ci eravamo assunte nei confronti della vita, ossia dalla nostra disponibilità ad accoglierla e a portarla avanti nel modo migliore possibile, per noi e per gli altri. Certo, tutto questo è un mistero; è un duro mistero, forse. Ma va rispettato. La vita è un tutto: non ci è dato prenderne solo gli aspetti positivi e dire: "No, grazie" davanti a quelli oscuri. La saggezza taoista esprime questo concetto mediante la raffigurazione delle due polarità, yin e yang: non si può concepire l'una senza l'altra; esse si abbracciano, si compenetrano, si completano a vicenda (pur senza mescolarsi e senza confondersi).

Del resto, si rifletta. Può capitarci di essere dei testimoni involontari di una scomoda verità: di un omicidio altrimenti "perfetto", di un segreto aziendale - o magari di stato - che riguarda la sicurezza e la salute di altre persone. Possiamo far finta di non aver visto niente, in nome del nostro diritto al quieto vivere? Possiamo rivendicare il nostro "diritto" a non assumerci responsabilità che non erano nei patti, che non avevamo preventivato, che non avremmo voluto? La stessa cosa accade quando una persona in difficoltà viene a trovarsi, in apparenza per caso, sulla nostra strada. Possiamo fare come il sacerdote e come il levita, e passar oltre; oppure possiamo fare come il buon Samaritano, e farci carico - nella misura delle nostre possibilità - di quella sofferenza. Perché lo stesso principio non dovrebbe valere nei confronti di noi stessi? Se la nostra vita è un discorso, chi siamo noi per pensare che tale discorso non interesserà più nessuno e diverrà privo di significato, qualora un incidente o una grave malattia dovessero ridurre quel discorso a un soffio o, magari, ad un rantolo? Tutto è grazia, diceva Bernanos. Anche un soffio, anche un rantolo solo un discorso carico di significato, per chi lo sa ascoltare. Anche attraverso di essi parlano i valori supremi, e si servono del valore della vita - sia pure mutilata - per comunicare qualcosa a qualcuno.

 

Dunque, la mia vita non è mia, perché essa è un discorso che va oltre le mie intenzioni, i miei progetti, le mie aspettative. A quel discorso posso offrire le mie energie, il mio entusiasmo, le mie azioni: potrò scegliere di essere come l'alveo di un fiume, che accoglie le acque e ne agevola la corsa verso il mare. E, nella sua corsa verso il mare, il fiume potrà mescolare le "sue" acque con quelle di cento e cento altri fiumi. Ma le acque non sono veramente sue: vengono dai monti, vengono dalle nuvole, vengono dalla pioggia; vengono, in ultima analisi, da quel mare al quale ora desiderano ritornare.

Tale è il nostro destino: veniamo dall'Essere e all'Essere vogliamo ritornare. Possiamo farlo lietamente, di buon grado, consci di essere solo degli utili strumenti di un qualcosa di cui noi siamo solo una parte, un linguaggio, una parola. Oppure possiamo recalcitrare, tirare indietro, giocare al risparmio. Continueremo ad essere una parola anche nostro malgrado. Sarebbe meglio, pertanto, essere una parola di amore e di speranza, una parola di fedeltà all'Essere. Tante parole intonate formano un'unica armonia: l'armonia della vita, l'armonia del mondo.

 

Si sarà notato che non abbiamo detto nulla, in questa sede, circa il valore della vita non umana, ossia dei moltissimi altri viventi che sono ospitati nell'Essere. Lo faremo in un'altra occasione. Qui, per adesso, abbiamo preferito limitarci ad alcune riflessioni su quella particolare forma di vita che sfocia nell'autocoscienza - la vita umana, appunto.