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Elezioni sui protocolli del welfare. Perché hanno vinto i sì.

di Carlo Gambescia - 11/10/2007

 

Sembra abbiano vinto i sì. Un numero elevato di lavoratori e pensionati tra il 70 e l’80 % avrebbe votato a favore del protocollo sul welfare.
Ora, sarebbe interessante conoscere il numero totale dei votanti e la diffusione dei voti per aree geografiche, composizione sociale e dimensione aziendale. Dati di cui al momento non disponiamo. Sempre ammesso che il voto, come alcuni hanno sostenuto, non sia stato manovrato dall’alto.
Dandone, però, per scontata la regolarità che valutazione si può dare?
In primo luogo, che a sinistra sussiste, diciamo così, una forte minoranza sociale riformista. Ma di quale riformismo parliamo? Dal momento che ce ne sono almeno due: quello dei professori neoliberisti, molto ascoltati all'interno del futuro Pd; e quello sindacale, per così dire alla Epifani, legato più che altro a contenere i danni, e fare, secondo alcuni, molte concessioni - come sul lavoro precario - in attesa che giungano tempi migliori. Sicuramente ha vinto questo secondo riformismo minimalista, o difensivo, che con il “vero” riformismo socialista ( e persino laburista) non ha alcun collegamento. Insomma, nell'elettore ha vinto il timore di veder peggiorare la propria condizione sociale …
In secondo luogo, questo timore, che va al di là del voto, ci sembra dettato dalla difficile condizione economica, psicologica e culturale in cui vivono oggi lavoratori e pensionati. Una condizione strumentalizzata, come in quest’occasione, dallo stesso sindacato. Di che cosa parliamo? Della paura del domani, provocata dai prezzi crescenti, dall’indebitamento delle famiglie, dalla diffusa precarietà lavorativa, dal progressivo degrado dei servizi sociali. Si tratta di una condizione - attenzione - non ancora di povertà assoluta ma segnata dal rischio di cadervi. Un timore che spinge le persone ad accettare la logica del male minore, in attesa di tempi migliori. Del resto il clima sociale generale, amplificato a dovere dai media, gioca proprio su questo fattore psicologico-culturale, esemplificato da questo tipo di messaggio, ossessivamemente reiterato: “Benché la crisi economica sia momentanea, bisogna collaborare tutti, anche facendo sacrifici. Sacrifici, che un volta superata la crisi, saranno adeguatamente compensati. Dal momento che la società dei consumi è il migliore dei mondi possibili”.
In realtà, una sinistra riformista “vera”, dovrebbe uscire da questo circolo vizioso minimalista tra crisi economica presente e promessa di un consumismo futuro. In che modo? Ponendo l’accento sul fatto che la progressiva distruzione del welfare state, può minare le basi stesse della socialità e quelle di una futura ripresa economica. Dal momento che senza una solida rete sociale di base, resta difficile, per ogni cittadino programmare i consumi futuri. Pertanto la politica di smantellamento dello stato sociale può risultare dannosa per lo stesso capitalismo. Questo, ovviamente, secondo una logica rigorosamente riformista. Che non ha nulla a che vedere con il riformismo minimalista alla Epifani
Questo riformismo forte ha invece trovato ascolto nella sinistra radicale, attestatasi - e giustamente - sulla difesa del welfare. Ma probabilmente senza ancora disporre di alcun serio radicamento tra gli elettori. Di conseguenza lavoratori e pensionati, vittime di quella cattiva consigliera che si chiama paura, si sono ritrovati nella “tragica situazione” di dovere scegliere tra una sinistra politica e sindacale non riformista ( o minimalista), ma comunque rassicurante "per tradizione", e una sinistra radicale ( o massimalista, ma in senso buono), da poco tempo trasformatasi in riformista (vera o quasi), e per questo ancora divisa su ideologie, programmi, politiche economiche e soprattutto sulla volontà o meno di continuare ad appoggiare il governo Prodi.
E così, l’elettore “intimorito” ha scelto, se ci si passa la battuta, la via vecchia per la nuova… O quasi.