Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Corta ed equa: la filiera che vorrei

Corta ed equa: la filiera che vorrei

di Chiara Colli - 11/10/2007

 

A livello globale, i trasporti sono responsabili per il 30% delle emissioni da gas serra. Occorre quindi coniugare le istanza del commercio equo e solidale con la necessità di ridurre al minimo lo spostamento di merci. Si tratta di una riflessione che si impone in un momento di grande crescita e affermazione del commercio equo e solidale, ma anche di grande attenzione e preoccupazione per l’aggravarsi del fenomeno del riscaldamento del paese.
 
Gli Stati Uniti ospitano il 5% della popolazione mondiale e producono circa un quarto dei gas serra di tutto il mondo. Questo dato la dice lunga sulla sperequazione esistente tra Nord ricco e Sud povero del mondo. I nostri consumi sono alla base dell'organizzazione economica mondiale, una organizzazione che allo stato attuale permette ad una esigua minoranza della popolazione mondiale di sprecare risorse a scapito di una maggioranza che vive spesso in situazioni di indigenza. La storia delle politiche attuate dalle multinazionali nel Sud del mondo ci parla di vere e proprie rapine perpetrate ai danni delle popolazioni locali per dare a noi che viviamo nel Nord ricco e "sviluppato" la possibilità di vivere al di sopra delle nostre possibilità. Si tratta di un sistema che non è esagerato definire come neo-coloniale. Avvolti dalle nostre "comodità" non ci rendiamo conto della fortuna che abbiamo avuto ad essere nati in Italia e non abbiamo la consapevolezza di dover dividere un pezzo di questa nostra fortuna con chi non l'ha avuta. Magari, cominciando a consumare meno e meglio.
Il commercio equo ci offre innanzitutto l'occasione di riflettere sulle conseguenze dei nostri consumi e poi, concretamente, ci permette di organizzarli diversamente, per dare dignità e giustizia a chi vive contemporaneamente a noi in altre parti di questo piccolo Pianeta.
 

Le noci dell'Amazzonia: un caso di commercio equo... ed ecologico.
Il commercio equo è uno strumento concreto sia per permettere ai popoli del Sud del mondo di percepire un giusto compenso per il proprio lavoro che per promuovere produzioni, spesso biologiche, che tutelano biodiversità e tradizioni locali. Le organizzazioni del commercio equo, infatti, si occupano anche di formazione, assistenza tecnica, servizi per l'import-export e quant'altro è necessario per un concreto sviluppo delle comunità locali. Nelle loro attività
spesso promuovono produzioni ambientalmente sostenibili.
Un esempio è l'iniziativa di Fare verde per sostenere la cooperativa peruviana Candela di raccoglitori di noci brasiliane nella foresta amazzonica. I lavoratori della cooperativa Candela raccolgono le noci brasiliane che crescono spontaneamente nella foresta amazzonica e con
il loro lavoro contribuiscono a mantenere intatte e biodiverse ampie zone di questo immenso polmone verde importantissimo per l'intero Pianeta.
Nei processi di lavorazione viene utilizzata ogni parte del frutto cosicché gli scarti di produzione sono pari a zero. Il commercio equo, saltando un gran numero di intermediazioni commerciali, ci
permette di sostenere queste produzioni a basso impatto ambientale garantendo ai lavoratori peruviani un giusto compenso per il loro prezioso lavoro.
Si tratta di un modello di produzione e consumo all'interno del quale equità, giustizia, solidarietà e attenzione per l'ambiente si fondono: un modello completamente alternativo a quello proposto dalla cultura dominante della globalizzazione economica che nella stessa area del Pianeta, la foresta amazzonica, sta producendo danni ambientali irreparabili.
Stiamo parlando delle enormi aree disboscate per far posto ad allevamenti e a monocolture geneticamente modificate: produzioni intensive ecologicamente devastanti destinate da un lato ad alimentari gli sprechi e i superconsumi dei paesi industrializzati e dall'altro a far crescere a dismisura profitti e quotazioni in borsa di poche potentissime multinazionali.
Noi possiamo, quindi, attraverso il Commercio Equo e Solidale, fare la nostra parte per affermare un differente modello di produzione, di consumo e di commercio.
 

Equità e ambiente: tutto può essere equo, non tutto è ecologico.
Tuttavia, l'urgenza di porre rimedio a problemi epocali come il riscaldamento del Pianeta ci impone una attenta revisione di tutti i nostri consumi, anche di prodotti del Commercio Equo e Solidale.
A costo di essere ripetitivi, ricordiamo quanto il cibo  viaggi troppo, inquinando e producendo costi occulti che vengono pagati dalla comunità, in termini di denaro ed impatto ambientale. “Food miles” è il termine utilizzato per indicare tali percorrenze da un capo all’altro del Pianeta delle derrate alimentari, conseguenze inevitabili e allettanti fonti di speculazione del mercato globale. Un esempio in casa nostra dell’assurdità di tali meccanismi, ce lo offre il viaggio dei pomodori siciliani, che vanno a Napoli per il centro di raccolta del supermercato e poi tornano a Palermo per arrivare sui banconi di vendita. Localizzare anziché globalizzare, accorciare la filiera, deve essere, invece, il criterio a monte di un “mercato sostenibile” e a maggior ragione “equo”. Se, infatti, negli ultimi anni il Commercio Equo ha avuto, per fortuna, un grandissimo sviluppo, bisogna però prestare attenzione ai rischi che questa fase di espansione può comportare in termini di impatto ambientale, pur restando validi tutti i vantaggi in termini di equità e giustizia del commercio equo e solidale. Ci riferiamo a una serie di prodotti presenti sugli scaffali delle botteghe del commercio equo come il riso, il miele o l'olio d'oliva che sono poco ecologici, anche quando sono prodotti bio.
Da un punto di vista ecologico. infatti, è assurdo importare prodotti da paesi lontani decine o centinaia di migliaia di chilometri se quegli stessi prodotti sono presenti anche sul nostro territorio,
magari a pochi chilometri da casa nostra: le catene logistiche dedicate al trasporto, alla movimentazione e alla conservazione delle merci hanno un elevato impatto in termini di consumi energetici e di emissioni di gas serra. A livello globale i trasporti contribuiscono
per il 30% alle emissioni di gas serra. E noi, se vogliamo salvare il Pianeta da una sicura catastrofe, dobbiamo da subito ridurre drasticamente i nostri consumi energetici, soprattutto di fonti fossili, e le nostre emissioni inquinanti.
Quindi ha senso importare dalla Palestina il cous cous, ma non l'olio d'oliva. Dall'estremo oriente va bene importare la juta e prodotti artigianali ma non il riso. Dall'America Latina va bene importare caffé e cacao, ma non il miele e la marmellata. La costruzione di un mercato equo e solidale locale è l’alternativa che a tal proposito si sta definendo per alcune comunità dell’America Latina. Un esempio è l’organizzazione messicana Uciri, il cui obiettivo, come racconta Francis Van Der Hoff (uno dei padri fondatori del fairtrade e animatore dell’organizzazione), “è quello di permettere a un numero maggiore di produttori di accedere al mercato equo, e di ridurre il più possibile le distanze con i consumatori. Dal punto di vista economico il commercio locale è molto più vantaggioso di quello orientato all’export, perché tutto il plusvalore resta nel nostro Paese.” A diminuire, quindi, non sarebbe solo l’impatto ambientale dovuto a trasporto e conservazione dei prodotti, ma la stessa dipendenza del Sud dal Nord del mondo. Come per il tema di una certificazione effettuata da organizzazioni totalmente indipendenti dal commercio equo (oggi non è così: Flo, l’organo che certifica le produzioni, è interno al fairtade) e la scelta tra la distribuzione attraverso le botteghe o i supermercati, anche l’incentivazione di un commercio equo locale è uno dei nodi cruciali e dei possibili miglioramenti del mercato equo.
Il commercio equo, mentre accorcia la distanza "commerciale" tra produttore e consumatore, dovrebbe preoccuparsi anche della distanza fisica che le merci devono superare per raggiungere le botteghe italiane e, da lì, le nostre case.

Filiera corta ed equità nel commercio, anche a due passi da casa nostra.
Accorciare le distanze potrebbe farci scoprire ulteriori forme di commercio equo da realizzare a due passi dai luoghi dove viviamo. La logica mercantile della globalizzazione fa i suoi danni non solo nel Sud del mondo, ma anche nelle campagne italiane. Per spiegare questo concetto, facciamo l'esempio degli allevatori italiani di mucche da latte. Se vendono il latte a grosse imprese, questo gli viene pagato, nel migliore dei casi, 30 centesimi al litro. Il latte viene
trasportato fin negli stabilimenti di trasformazione, dove subisce trattamenti termici che ne alterano irrimediabilmente la struttura organolettica, confezionato in imballaggi difficilmente riciclabili come il tetrapak e poi distribuito nei supermercati con ulteriore dispendio di energia ed emissione di gas serra per il trasporto e la conservazione. Dopo tutti questi passaggi, il latte costerà circa 1 euro e 30 centesimi al litro.
Se acquistassimo il latte direttamente dal produttore mediante distributori automatici alla spina, il latte costerebbe 1 euro al litro: + 70 centesimi al litro per il produttore e -30 centesimi al
litro per il consumatore. Quindi, il prezzo sarebbe più equo per entrambi. Allo stesso tempo, il latte percorrerebbe distanze molto ridotte per passare dal luogo di produzione a quello di consumo e potrebbe essere venduto crudo, cioè non sottoposto a processi di pastorizzazione che ne riducono la qualità. Per fortuna, questa nuova modalità di vendita del latte sperimentata per la prima volta in Lombardia, si sta velocemente diffondendo in diverse regioni italiane.
Lo stesso discorso è valido per tutti i prodotti agricoli che, se acquistati attraverso una "filiera corta" invece che al supermercato, arrivano più freschi ed ecologici sulle nostre tavole evitando lo
sfruttamento dei contadini in atto nelle campagne italiane ad opera della grande distribuzione.
Adottare il principio della "filiera corta" significa, in buona sostanza, applicare a tutto campo il principio del commercio equo basato sull'idea di saltare il maggior numero di passaggi commerciali per assicurare redditi equi ai produttori.
In realtà sugli scaffali delle botteghe del commercio equo ci sono già alcune iniziative solidali rivolte anche a comunità che vivono sul nostro territorio, come le produzioni dell'Associazione Libera realizzate in Sicilia sui terreni confiscati alla mafia.
 

Un mercato, ma non troppo.
Il dibattito è aperto da anni, ma la questione del rapporto tra commercio equo e grande distribuzione rimane la più spinosa ed attuale.  Il movimento è a un bivio: puntare in maniera più decisa sulla distribuzione attraverso i supermercati o investire sul rafforzamento delle botteghe. In altri termini: ragionare in termini quantitativi, mirando ad un aumento delle vendite, secondo un sistema che si ferma al prodotto in quanto tale (ed adeguandosi, quindi, alle regole del “gioco globale”) o mantenere, attraverso le botteghe, quella componente politica che nei supermercati si perde insieme all’opera di sensibilizzazione dei clienti. A nostro avviso, il secondo è certamente il canale più adeguato per un mercato alternativo volto a correggere le imperfezioni e i danni di quello globale, una  modalità più vicina alle persone e maggiormente capace di stabilire un rapporto umano tra consumatore e venditore.
Si tratta innanzitutto di un problema culturale: i supermercati sono luoghi dove si realizza la maggior parte delle logiche economiche che il commercio equo vuole combattere. Logiche orientate esclusivamente al profitto e poco attente agli aspetti sociali ed ecologici.
Anche per questo Fare Verde ha scelto per il suo progetto di commercio equo, la cooperativa Libero Mondo: una centrale di importazione che ha scelto di non distribuire i propri prodotti
attraverso i supermercati.
Inesorabile quanto sbalorditiva, la prova di quanto sia concreto il rischio che il commercio equo venga fagocitato dal mercato globale è arrivata nell’ottobre 2005. La più grande azienda del settore alimentare, primo compratore di caffé al mondo, la multinazionale sotto boicottaggio da 30 anni per le sue politiche di marketing e trasgressioni verso piccoli produttori ed ambiente, al secolo la Nestlè, lancia in Gran Bretagna un caffé equo e solidale doc, certificato Fairtrade Foundation. Possibile? Dal punto di vista tecnico, si. L’organo che certifica a livello internazionale che nel Sud del mondo si produca secondo i criteri del fairtrade (paghe decenti ai braccianti e possibilità di organizzarsi in sindacati, rispetto di standard lavorativi, di sicurezza ed ambientali), è FLO (Fairtrade Labelling Organization), a cui aderiscono 17 marchi di garanzia del commercio equo (tra Europa, Stati Uniti e Giappone). Ognuno di questi marchi è in un certo senso autonomo (dagli altri componenti ma non dall’organo centrale) in quanto a proposte e certificazione dei singoli prodotti (e non delle multinazionali).
Per questo il caso Nestlè si è potuto verificare “solo” in Gran Bretagna (ed Irlanda), ed un unico tipo di caffé che rispetti certi criteri può essere definito “giusto” nel mare di ingiustizia compiuto da una multinazionale. Una scelta che chiaramente impoverisce il concetto di equo e solidale, limitandolo ad una caratteristica di un singolo prodotto ed offrendo una scorciatoia per (tentare di) rifarsi l’immagine ad un’azienda transnazionale che dovrebbe innanzi tutto essere invitata a superare seriamente le cause del boicottaggio. Purtroppo il caso Nestlè non è l’unico nell’incontro (scontro) di multinazionali e commercio equo. Sembra impossibile, ma dal 2003 in 140 fast food svizzeri di McDonald’s si può bere caffé equo, come anche nella catena di coffeshops della multinazionale americana Sturbucks in cui caffé fairtrade (il 2% del totale) si beve e si vende; e ancora, dalla fine del 2004 Procter&Gamble (una delle 4 compagnie a controllare il mercato mondiale del caffé … e non solo), distribuisce un caffé certificato come “commercio equo” nei supermercati degli Stati Uniti. E non finisce qui. Ci sono aziende che usano prodotti equi e solidali entrate nell’orbita di multinazionali: come Green&Black, società che ha lanciato un marchio di cioccolato equo in Inghilterra acquistato dalla Cadbury Schweppes, e Ben & Jerry’s, azienda americana che produce gelato con ingredienti biologici ed in parte equi, che nel 2000 è stata rilevata da Unilever, colosso transnazionale che spazia dall’alimentare ai prodotti per la casa (Fonte: Altraeconomia).
Un’invasione di campo, questa delle multinazionali, che da un lato indica l’insidiosa ricerca di profitto in un mercato di nicchia potenzialmente sfruttabile, ma dall’altro segnala il crescente peso di produttori e consumatori nel porre il tema dell’equità all’attenzione dei grandi attori economici.

Gandhi diceva "siate voi il cambiamento che volete vedere nel mondo". Con il commercio equo abbiamo la possibilità concreta di costruire una prospettiva diversa di rapporti tra Nord e Sud del mondo, una prospettiva di equità, di solidarietà e di attenzione per l'ambiente.
Cambiando i nostri consumi, possiamo cambiare l'organizzazione del commercio. Ma, attenzione, dobbiamo essere anche disposti a consumare meno, oltre che meglio.