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Antonio Scurati: scrivere romanzi al tempo della televisione

di Marco Managò - 11/10/2007

 

Libri: Antonio Scurati: scrivere romanzi al tempo della televisione


Il volume edito da Bompiani-Rcs Libri, opera del giovane ricercatore Antonio Scurati, è un interessante saggio sulle condizioni attuali in cui si trova a scrivere un qualsiasi romanziere. L’autore, in uno stile elegante e con notevole padronanza del linguaggio, sottolinea più volte la perdita di legami tra la letteratura e l’esperienza. L’ultimo caso di simbiosi si è verificato subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale quando (complice anche la guerra civile) le argomentazioni e le testimonianze suffragavano il legame. Si cita, a esempio, il neorealismo di Calvino.
Per le generazioni successive al termine della guerra, fra cui quella dell’autore, la letteratura risulta indifferenziata dall’esperienza: due realtà identiche e non saldate come era in passato.
La mancata sofferenza non consente un riscontro comunicativo nonché il diritto a renderne conto attraverso la parola scritta.
Termina, oggi, anche la fiducia e il credo per la posteriorità, per quel futuro che diversi autori consideravano come il tempo per il riscatto. Si assiste anche alla fine dell’umanesimo letterario, quel sacro vincolo con l’opera degli avi, quel credito di cui le generazioni successive godevano per progredire; un taglio netto con l’esperienza del passato, di una proficua “comunione” con i defunti.
La nuova dimensione globatizzatrice e ultrarapida della moderna tecnologia è, come afferma efficacemente l’autore “…un’ottica che ha cancellato la distanza, abraso la distinzione tra vicino e lontano, eliminato totalmente la dimensione antropometrica dello spazio… E con questa svanisce anche l’altra dimensione antropologica fondamentale, quella della temporalità vissuta…”. Conclude scrivendo della fine della riflessione critica e del rapporto visivo tra l’uomo e il proprio orizzonte.
Arduo, in tale quadro, per il narratore, assumere una posizione di testimone del tempo, di critico osservatore dinanzi al palcoscenico del mondo.
Si assiste, pertanto, a un incredibile paradosso: quello dell’abbondare dell’inesperienza, di una sorta dell’accumulo della stessa vivendo, in luogo dell’ammasso dell’esperienza come da millenni la storia insegna. In un mondo non contemplabile, indistinto tra realtà e finzione, risulta difficile trovare il bandolo della matassa; la confusione generata è sterile, altresì, nei riguardi di una possibile costruzione positiva della narrazione.
I media odierni massificano e stravolgono l’esperienza al punto di renderla mediata, attraverso l’esposizione della sofferenza altrui, come un simulacro per la propria; le rare manifestazioni di intensa e originale esperienza sono confinate o, in alcuni casi, emarginate con decisione, al confine con la pazzia e l’eresia.
Le prime avvisaglie della spersonalizzazione dell’individuo si evidenziano nell’Ottocento e nel primo Novecento, quando l’industrializzazione crescente e la massificazione in embrione concedevano poco tempo e spazio all’iniziativa individuale. Il verificarsi della prima guerra mondiale sembrò anche la prima occasione per un riscatto dell’esperienza, per un coinvolgimento del singolo scippato alla monotonia del quotidiano. In realtà non fu proprio così e il patrimonio delle testimonianze di una logorante guerra di trincea non si concretò in quel proficuo passaggio di bocca in bocca del vissuto, anzi si disperse in un sorprendente silenzio.
La responsabile della fine dell’esperienza, dell’empirismo come strumento di conoscenza e di trasmissione della stessa, fu l’avanzare della scienza moderna e del suo rigore dottrinale. A tal proposito si riportano le parole di Scurati “… già con Bacone si propone di forzare il carattere casuale, selvatico, labirintico dell’esperienza comune nella struttura assiomatica, deduttiva, procedurale e ordinata dell’esperimento scientifico. La logica dell’esperimento scientifico, che separa verità di fatto da verità di ragione, confinando le prime nell’inconsistente e ingannevole dominio dei sensi, condanna senza appello l’esperienza intesa in senso tradizionale. Noi oggi ci affidiamo non alla sapienza dei vecchi ma al sapere implicito, e per noi incomprensibile, dei nuovi, dei nuovissimi dispositivi tecnologici”.
L’inesperienza della moderna società di massa si perfeziona attraverso tre condizioni peculiari; la prima di queste l’autore la scorge nell’esasperato capitalismo, un regime nel quale si stravolgono le misure e ogni elemento si rapporta, necessariamente, al dio denaro, senza alcun rispetto per il valore intrinseco del bene. Altra considerazione di rilievo è riposta nei moderni mezzi di comunicazione di massa e al genere di immagini che offrono, sempre più autorefenti della realtà trasmessa, certificanti il presente che va in onda senza alcuna sfumatura di immagine, di riconsiderazione del visibile.
Al cinema si sogna e si immaginano le sfumature in secondo piano, attraverso la televisione si ha la certezza e l’assolutezza del visibile. L’ultimo elemento da valutare è quello proprio della comunicazione di massa e del suo esponenziale progredire verso un paradosso, incolmabile, di scetticismo e sfiducia generale, alternati da momenti di assoluta deferenza e credulità acritica.
L’autore precisa: “Se nel caso delle applicazioni tecnologiche della conoscenza scientifica è l’impossibilità di esperire la verità del mondo attraverso le nostre strutture sensoriali a spossessarci della nostra esperienza, nel caso delle pseudo-conoscenze mediatiche lo stesso spossessamento risulta proprio dalla riduzione di tutto lo scibile, e di tutto il vivibile, a una vertigine di sensazioni, per lo più visive, prodotte in forma spettacolare da altri, e a cui noi partecipiamo soltanto in qualità di spettatori”.
La confusione e la sterile osmosi tra reale e immaginario producono un indebolimento della personalità e della coscienza nonché un periglioso stravolgimento dell’arte e dell’estetica. I canoni di questo nuovo approccio dell’uomo moderno sono quelli dettati dal consumo e dalla sua perfida matrigna: la pubblicità.
L’autore, che sottolinea come “gli archetipi si integrano agli stereotipi”, condanna tale degenerazione e offre spunto per una valida opposizione senza scadere nell’ipocrisia.
Porre sullo stesso piano l’esperienza diretta e quella mediata, attraverso i media, significa perdere ogni contatto con la propria natura e con la caducità degli eventi; rivela il credere a una enfasi della vita stessa priva della mortalità e dell’ineluttabile, quasi a immaginare soltanto la morte altrui.
I media presentano spesso una realtà edulcorata o, al contrario, una maschera esteriore della violenza, quasi banalizzata; impossibile sfuggire a tale condizione, ma doveroso contrastarla almeno nei suoi caratteri più negativi, attraverso la cura per la propria piccola sfera di vita personale, quella della ricerca, della riflessione, della sana incertezza… del mestiere di vivere.