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La persona è un mistero perché la sua essenza è l'essere

di Francesco Lamendola - 12/10/2007

 

 

 

Vi è uno scientismo sbracato e un po’ cialtrone secondo cui, al mondo, non esisterebbero “misteri” nel vero senso della parola, ma soltanto “problemi”, ossia punti oscuri che la ragione, poco alla volta, sistematicamente ci permetterà di chiarire. Secondo un tale punto di vista, oggi molto diffuso e continuamente veicolato da programmi televisivi nelle ore di maggiore ascolto e da libri e riviste patinate a larghissima tiratura, i problemi sono sempre qualcosa di oggettivabile, descrivibile e, magari, riproducibile; non coinvolgono la nostra essenza profonda, non ci scuotono, non ci mettono in discussione in alcun modo; anzi, per dirla tutta, non arrivano neanche a scalfire la dura corazza della nostra saccente presunzione.

Al contrario, secondo noi l’essenza della realtà è “mistero”, nel senso più profondo della parola: non un “grande problema” (grande, ma solo quantitativamente: estensive, direbbe il buon Galilei, che di tale paradigma è il padre nobile), ma qualcosa di radicalmente diverso dal ‘problema’. Il mistero è una forma di inquietudine che ci afferra dall’interno e ci scuote come fa il vento gagliardo d’autunno con le foglie di una foresta: le fa cadere una ad una, finché non rimane che l’essenziale della pianta: le radici, il tronco e i rami. Il mistero ci sfida ma, al tempo stesso, ci ammonisce: “Tu, uomo, non potrai mai penetrarmi e neppure comprendermi, se prima non ti spoglierai della tua superbia e non comprenderai che al di sopra della ragione (al di sopra, si badi, e non al di sotto!), vi è una maniera più alta e integrale di afferrare le cose.

Noi crediamo di conoscere le cose perché sappiamo dare ad esse un nome, le cataloghiamo, le descriviamo: tutto il sapere scientifico moderno non è che catalogazione e descrizione di fenomeni. Ma questo vuol dire conoscere solo la superficie delle cose: il fenomeno, appunto (per dirla con Kant), non certo il noumeno. Le cose in sé, la loro essenza profonda, ci rimangono nascoste; peggio, non sospettiamo neppure che esistano: perché per noi, figli di questo rozzo e presuntuoso materialismo scientista, la superficie delle cose e le cose stesse sono un’unica realtà, sono sinonimi. Invece il senso del mistero (che è, con il senso del limite, l’essenza dell’atteggiamento religioso dell’uomo: “religioso” nel significato più ampio del termine) scaturisce dall’intuizione profonda e immediata che l’essenza delle cose, il loro “essere” (per usare la terminologia di Gabriel Marcel) è precisamente ciò che sfugge al loro essere-per-noi, cioè al loro “avere” una determinata valenza, in funzione della quale le registriamo, le cataloghiamo e crediamo di conoscerle. Per fare un semplice paragone, possiamo immaginare che colui il quale ritiene di conoscere le cose solo perché ne registra l’”avere” (ossia la maschera che a noi si offre) sia simile a colui che, tenendo in mano il biglietto d’ingresso al concerto di Mozart, del quale non ha mai udito neppure una nota, ritiene di aver conosciuto la musica di Mozart e di essere perfettamente in grado di esprimere un giudizio motivato su di essa.

 

Ci siamo già occupati, sia pure in maniera non organica, di alcuni aspetti del pensiero di Gabriel Marcel (precisamente nell’articolo Dal desiderio alla nostalgia alla speranza, le tappe del ritorno all’Essere), in particolare della dialettica di desiderio, nostalgia e speranza che caratterizza il movimento ascensionale della coscienza dall’amore delle cose in se stesse, chiuse e finite, all’apertura all’Assoluto in cui le cose trovano il loro fondamento, e noi con esse. Un altro aspetto molto interessante di questo filosofo francese (che, per parte sua, rifiutava l’etichetta di “esistenzialista cristiano”, perché riteneva i due concetti irreconciliabili) è, appunto, la riflessione sulla distinzione fra “mistero” e “problema” e, parallelamente – e conseguentemente – fra “avere ed essere”. Non “avere” ed “essere” nel senso immediato, e un po’ scontato, che hanno questi due termini in Erich Fromm e nel suo fortunatissimo libro che da essi s’intitola, ma in quello di “avere” come maschera contraffatta della persona, come apparenza superficiale che ci irretisce nella illusione di aver compreso e conosciuto l’altro, mentre siamo rimasti, precisamente, soltanto alla sua superficie.

Un critico francese, Robert Perrod, ci sembra aver colto assai bene questo aspetto del filosofo francese e ne fa una sintesi efficace e chiarissima, dato che si rivolge a un pubblico di non specialisti e, comunque, interessato in primo luogo all’aspetto teatrale della produzione di Marcel, piuttosto che a quella strettamente filosofica (ma l’opera di Marcel - filosofo, scrittore, drammaturgo, musicista - è un tutto inseparabile

 

 

Marcel non dimentica mai di essere un uomo vivo, complesso, alle prese con una realtà viva e complessa che la riflessione, nella pretesa di afferrarla interamente, troppo spesso uccide. Un elemento essenziale del suo pensiero è infatti la riflessione tra i ‘problemi’, che ci sono come interni (…) e che siamo capaci di abbracciare con le nostre forze, e i ‘misteri’nei quali siamo contenuti, che sono più vasti della nostra esistenza individuale, e di cui possiamo percepire soltanto la realtà, la presenza: e non li possiamo risolvere, se non impegnando (‘en engageant’) la nostra stessa esistenza in questa soluzione.

“Selon une premiére approximation -  scrive il Fessard (Théậtre et mystère: les sens de l’oeuvre dramatique de Gabriel Marcel, Etudes, 20 mars et 5 avril 1938), ‘mystère’ s’oppone a ‘problème’en ce sens, que le problème, de quelque ordre qu’il soit, est une antinomie qui peut ệttre resolue sans que celui qui veut la surmonter soitmis en question. Tandis que le mystère se présente au contraire  comme un problème tel quel je ne puis ni le poser sans me sentir en quelque sorte pris aux entrailles, ni le résoudre sans m’engager personellement dans la solution.” Il più grave errore di metodo che si possa commettere - e si commette così spesso! – è dunque di voler trattare i ‘misteri’ come se fossero semplici ‘problemi’, di ‘inciampare’, secondo un’altra espressione del Fessard, ne “l’étrange et inévitable dégradation du mystère en problème.”(…)

Correlativa, nella pratica della vita, della distinzione tra ‘mistero’ e ‘problema’ è quella tra ‘essere’ e ‘avere’, tra l’essenza delle persone e quello che la nostra natura ci permette di saperne, di afferrarne. Per esempio, l’amore perfetto è quello che si rivolge alla totalità della persona amata, al suo ‘essere’, mentre un amore, diciamo, quotidiano, si rivolge all’’avere’di questa stessa persona, cioè alla sua funzione verso di noi, funzione, mettiamo, di padre, di figlio, di moglie. Quanto più l’uomo si confina nell’avere, tanto più soffre: la morte, per esempio, ci prostra nel dolore, privandoci dell’’avere’ della persona amata e scomparsa, e nello stesso tempo ci costringe a considerare il suo ‘essere’ – immortale per il credente -, considerazione che apre la via ad una consolazione che non è dimenticanza, che non dovrebbe essere nemmeno rassegnazione.(…)

Per entrare in contatto con l’’avere’ di qualcuno, con questa parte della sua personalità che possiamo conoscere, amare, odiare, ecc…, bastano la conoscenza, i ‘problemi’(…) Chi nega il mistero si trova rigettato nell’angoscia sartriana. (Su questa ‘degradazione’ della personalità nella mente degli altri , interessanti confronti sarebbero da farsi con la filosofia di Bergson e con il teatro di Pirandello).

Ora si capirà come il ‘mistero’, accettato, assunto, rivesta agli occhi di Gabriel Marcel, persino nell’ordine della conoscenza filosofica, un valore positivo. Non si presenta più come quel muro di nebbia che si deve tentare di aprire con avventate ipotesi, con scommesse, o magari con sotterfugi, ma un mezzo di prendere contatto – nel buio della conoscenza – con la realtà spirituale, la quale rende unità e speranza al nostro destino doloroso e troncato. ‘Mistero’ è anche la stessa speranza, fiducia immediata, profonda nel tutto, poggiata, nel caso del credente, sulla esistenza di Dio, e che, sempre in questo caso, suppone, esige la fede, e nello stesso tempo, per quello che c’è in lei di organico, istintivo, vitale, in qualche modo la fonda. Ma la speranza, ridotta, come la si vede tante volte, alla fiducia in un avvenire che rimetterà tutto a posto, non è più altro che un ottimismo, una forma ‘degradata’, un ‘mistero’ dissanguato, riportato nell’ordine dei ‘problemi’ e dell’’avere’.

(Robert Perrod, Tra Baudelaire e Sartre, Milano, Vita e Pensiero, 1952, pp. 236-239).

 

Sono le menti piccole che non sentono in alcun modo la presenza del mistero; per esse non vi sono che ‘problemi’, ciascuno dei quali può essere isolato dagli altri e trattato come una questione puramente tecnica. Già, perché no? Dopotutto, viviamo nell’era della tecnica; la tecnica ci vien presentata come la chiave universale per risolvere qualunque problema.

Il fatto è che le domande più importanti che si presentano alla coscienza non si lasciano ridurre in alcun modo a delle questioni meramente tecniche, per il semplice fatto che sono domande di senso. Evocare il senso delle cose, il senso del tutto significa fare un salto (non un passaggio: un salto!) dalla sfera quantitativa (extensive) alla sfera qualitativa (intensive); dalla sfera dell’”avere” a quella dell’”essere”; dal come le cose avvengono ed esistono, al loro intimo perché. La tecnica, per quanto sofisticata essa sia, non ha nulla da dire circa le domande di senso: essa può solo indicarci come realizzare un progetto nel modo più rapido ed economico; ma non sa e non può entrare nel merito di quella progettualità, della sua significanza.  Attribuire un senso alle cose significa attribuir loro un valore: e il riconoscimento dei valori pertiene alla sfera dell’etica, dell’estetica e della politica, non a quella della tecnica.

L’essere umano può anche auto-ingannarsi deliberatamente e porsi davanti al mistero come se fosse un qualsiasi problema, ma la rimozione o la negazione del mistero non avrà altro effetto che quello di insinuarsi fino al centro della coscienza sotto le forme dell’angoscia e della disperazione. Sotto la maschera dell’efficientismo compiaciuto e del razionalismo autosufficiente, la persona soffre oggi più che mai di una insopportabile angoscia esistenziale, ben rappresentata da Sartre nel romanzo La nausea o da Svevo ne La coscienza di Zeno. La persona si sente gettata-nel-mondo senza scopo e senza finalità; si sente, per dirla appunto con Sartre, immersa fino al collo nella situazione, ossia dominato da fatti esteriori che s’impongono alla sua volontà, la dominano e la sottomettono. E ciò avviene perché egli stesso si è retrocesso al ruolo di “avere”, ossia – in ultima analisi – di cosa; si è dimenticato di avere un “essere”, anzi si è dimenticato della sua natura di “essere”.

 

Ricordargli tale sua intima natura; ricordargli la sua provenienza dall’Essere e la sua nostalgia di farvi ritorno è, dunque, il compito precipuo di una filosofia che - come insegnava il grande Kierkegaard - voglia scendere dal limbo del pensiero astratto per calarsi, qui e ora, nelle emergenze, nei turbamenti, nei dubbi e nelle speranze del singolo individuo concreto, che vuol sapere cosa debba fare della sua vita, che cosa debba pensare del suo esistere, come debba interpretare la sua intima e sempre rinnovata inquietudine.