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Home / Articoli / L'invasione di Alarico in Italia e il sacco di Roma (410 D.C.)

L'invasione di Alarico in Italia e il sacco di Roma (410 D.C.)

di Francesco Lamendola - 15/10/2007

 

 

 

 

Ripercorriamo qui le tragiche vicende che vanno dalla morte di Stilicone a Ravenna, decapitato per ordine di Onorio all'indomani dell'insurrezione antigermanica dell'esercito romano radunato a Ticinum (Pavia), fino al sacco di Roma da parte di Alarico, che parve ai contemporanei una vera svolta epocale (molto più della silenziosa caduta dell'Impero d'Occidente alcuni decenni più tardi) e colpì fortemente l'immaginazione di tutti, pagani e cristiani. Sant'Agostino fu motivato a scrivere il suo capolavoro, "La Città di Dio", proprio dall'esigenza di controbattere le accuse dei pagani, secondo i quali l'abbandono dell'antica religione aveva provocato il disastro politico-militare.

Era dai lontanissimi tempi di Brenno, infatti, che l'Urbe non subiva un simile oltraggio da parte di un nemico esterno; e le vicende dell'invasione gallica, l'episodio del fallito assalto al Campidoglio con l'intervento delle oche sacre, il sopraggiungere di Furio Camillo: tutti questi episodi, narrati con maestria di scrittore da Tito Livio, sembravano appartenere ormai più alla leggenda che alla storia di Roma. Ma ora la dura realtà era che il mito dell'invincibilità di Roma era caduto nella polvere: un esercito di barbari l'aveva conquistata e saccheggiata senza incontrare alcuna opposizione. L'imperatore, chiuso in Ravenna, non aveva potuto far nulla per difenderla e risparmiarle l'onta suprema della conquista; anzi la sua stessa sorella, la principessa Galla Placidia, era stata fatta prigioniera e condotta via dai Visigoti quale ostaggio prezioso; più tardi avrebbe addirittura sposato Ataulfo, successore di Alarico.

Insomma il biennio 408-410 rappresenta realmente un periodo-cerniera nella storia del tardo Impero Romano: dalla relativa sicurezza dei tempi di Stilicone si passa al crollo definitivo del "limes" occidentale e allo scorrazzare indisturbato dei barbari lungo tutta la Penisola Italiana; Roma, prima di cadere nell'agosto del 410, subisce ben tre assedi consecutivi; e niente e nessuno riescono a scongiurare il tragico epilogo che si profila all'orizzonte. Il mondo antico sembra giunto veramente alla fine: una nuova età si affaccia alle soglie della storia d'Europa e del bacino del Mediterraneo.

 

 

CONTENUTO

 

- OLIMPIO SCATENA LA PERSECUZIONE CONTRO I VECCHI AMICI DI STILICONE.

- MASSACRO GENERALE DEI GERMANI RESIDENTI A ROMA E SUE CONSEGUENZE.

- ALARICO APPROFITTA DEL MOMENTO PER TENTARE UN NUOVO RICATTO.

- INADEGUATE CONTROMISURE MILITARI DI OLIMPIO.

- ALARICO DECIDE PER LA SECONDA VOLTA L'INVASIONE DELL'ITALIA.

- ONORIO SI RIFUGIA A RAVENNA.

- ALARICO SCENDE IN ITALIA E GIUNGE AD ASSEDIARE ROMA.

- IL SENATO CONDANNA A MORTE SERENA IN BASE A FALSE ACCUSE.

- I VISIGOTI SI DISPONGONO ALL'ASSEDIO DI ROMA.

- LA CITTA' ETERNA E' STRAZIATA DALLA CARESTIA, DELLA PESTILENZA E DAL CANNIBALISMO.

- INVOCA L'AIUTO DELLE DIVINITA' PAGANE.

- UMILIANTE AMBASCERIA DEL SENATO AD ALARICO.

-I VISIGOTI SOSPENDONO L'ASSEDIO DIETRO PAGAMENTO DI UN FORTE RISCATTO.

- ONORIO, A RAVENNA, DECIDE LA RESISTENZA A OLTRANZA.

- COSTANTINO III, INVASA ANCHE LA SPAGNA, MANDA UNA AMBASCERIA AD ONORIO.

- RIVOLTA DI GERONZIO CONTRO COSTANTINO E INSEDIAMENTO DI MASSIMO IN SPAGNA.

- LA SITUAZIONE A RAVENNA E A ROMA.

- ALARICO ANNIENTA CINQUE REGGIMENTI SPEDITI DALLA DALMAZIA ALLA VOLTA DI ROMA.

- ATAULFO SCENDE IN ITALIA, E' SCONFITTO A PISA MA PUO' RICONGIUNGERSI CON ALARICO.

- A RAVENNA OLIMPIO PERDE IL POTERE E FUGGE.

 -GENERIDO RICOSTITUISCE LE DIFESE IMPERIALI SULLE ALPI ORIENTALI.

- RIVOLTA MILITARE A RAVENNA E ASCESA DEL PREFETTO GIOVIO.

-CONFERENZA DI RIMINI TRA GIOVIO E ALARICO: NUOVE ESORBITANTI RICHIESTE DEL BARBARO.

- DURA RISPOSTA DI ONORIO E BRUSCA INTERRUZIONE DEI COLLOQUI.

- ALARICO OFFRE DI NUOVO LA PACE MA SENZA SUCCESSO.

- NUOVA AMBASCIATA DI COSTANTINO A RAVENNA, CHE OFFRE AIUTI.

- ALARICO ASSEDIA ROMA PER LA SECONDA VOLTA E FA PROCLAMARE DAL SENATO IMPERATORE ATTALO.

-ESORDI DELGOVERNO DI ATTALO NELLA CITTA' ETERNA.

- FAVORISCE UNA EFFIMERA RIPRESA DELPARTITO PAGANO.

- ALLESTISCE UNA SPEDIZIONE CONTRO IL CONTE ERACLIANO IN AFRICA.

- MARCIA, CON ALARICO, CONTRO RAVENNA.

RESPINGE CON ARROGANZA UNA AMBASCERIA DI PACE INVIATAGLI DA ONORIO.

- ONORIO RICEVE UN PICCOLO RINFORZO DA TEODOSIO II E SI LIBERA DI ALLOBICH.

- INFRUTTUOSA SPEDIZIONE DI COSTANTINO IN ITALIA; ASCESA DI COSTANZO.

- FALLIMENTO DELLA SPEDIZIONE DI ATTALO IN AFRICA E MANEGGI DI GIOVIO PRESSO ALARICO.

- AVANZATA DI QUEST'ULTIMO IN EMILIA E LIGURIA.

- ATTALO TORNA IN ROMA STREMATA DALLA CARESTIA.

- RESPINGE LA PROPOSTA DEL SENATO DI MANDARE I GOTI CONTRO ERACLIANO.

- E' DESTITUITO, A RIMINI, DELLE INSEGNE IMPERIALI, CHE ALARICO RIMANDA AD ONORIO.

- ALARICO TENTA DI RIAPRIRE I NEGOZIATI CON RAVENNA.

- SARO E' ACCAMPATO NEL PICENO IN ATTITUDINE NEUTRALE.

- PASSA AL SERVIZIO DI ONORIO E INTERROMPE SANGUINOSAMENTE I NEGOZIATI.

- ALARICO, FURENTE, PONE PER LA TERZA VOLTA L'ASSEDIO A ROMA.

- DISPERATA SITUAZIONE DELLA CITTA'.

- I VISIGOTI VI IRROMPONO LA NOTTE SUL 24 AGOSTO 410.

- SACCHEGGIO DEI GOTIE LORO PARTENZA DOPO TRE GIORNI.

- CONCLUSIONE.

 

I

 

A Ticinum, sin dall'indomani della tragica giornata del 13 agosto 408, in cui Stilicone era stato decapitato, il potere effettivo era passato nelle mani di Olimpio, che riuscì a ottenere la carica di magister officiorum in luogo di Nemorio, ammazzato dai soldati. Era una carica d'importanza decisiva perché, in pratica, comportava il controllo di tutto l'apparato burocratico e del personale di corte. Onorio, che era rimasto sorpreso e scosso dagli avvenimenti del 13 agosto, aveva dovuto - almeno in parte - subire la situazione venutasi a creare. È molto probabile che la condanna a morte di Stilicone gli sia stata strappata con riluttanza da parte di un minisrtroi che aveva il controllo dei soldati scatenati ben più di quanto avesse mostrato di averlo lUi. Quanto alla persecuzione contro la famiglia del grande generale, essa non fu che la conseguenza di quanto si era deciso nei riguardi di Stlicone. Dopo la sua condanna a morte, lasciare in vita i suoi parenti significava esporsi a un pericolo mortale. La vera decisione era stata quella circa la sorte da riservare al generale; il resto non era che il naturale e inevitabile corollario.

Di Batanario, il cognato di Stilicone, si è già detto (cfr. l'articolo Stilicone e la crisi dell'Occidente, 398-408 d. C.). Egli era stato nominato comes Africae il 13 luglio del 401, dopo che la pericolosa rivolta di Gildone era stata stroncata e dopo che era stato eliminato anche il vincitore di Gildone, suo fratello Mascezel. Si trattava di una diocesi troppo importante, a motivo delle sue forniture granarie verso l'Urbe, per lasciarla in mano a un parente di Stilicone. Inoltre essa era segretamente percorsa da una sorda vocazione secessionista ed era il terreno adatto per favorire la nascita di un movimento anti-imperiale.

Anche il figlio del generale, Eucherio, era considerato un grave pericolo per la corte sinché fosse rimasto in vita. Proprio l'insinuazione che questo giovane aspirasse al trono di Costantinopoli aveva fornito esca alla rivolta militare di Ticinum. Onorio, pertanto, diede ordine di ricercarlo e di eliminarlo al più presto. La polizia imperiale non tardò a scoprire che Eucherio era tornato a Roma, ma non aveva osato farsi vedere né presso sua madre Serena, né presso la giovane Galla Placidia, sorellastra dell'imperatore, alla quale forse - e sottolineiamo il forse - era stato un tempo promesso sposo. Effettivamente Eucherio aveva cercato rifugio in una chiesa e, ammonito dalla sorte del padre, si guardava bene dal lasciarsi convincere ad uscire. La polizia lo rintracciò abbastanza facilmente, ma, per il momento, preferì evitare uno scandalo - Roma non era Ravenna - e lo lasciò stare, limitandosi a tenerlo d'occhio. La sua sorte, comunque, come del resto quella della madre, dipendeva dalle future mosse di Alarico e dalla sorte di Roma stessa.

Serena non fu molestata in alcun modo. Ella era rimasta a Roma in quell'ultimo periodo della vita di suo marito, e con lei era rimasta Galla Placidia, che aveva cresciuta quasi come una figlia e che l'avrebbe ripagata nel più ingrato dei modi. Ignoriamo quali sentimenti abbiano agitato l'animo di questa donna forte ed altera, la nipote prediletta di Teodosio il Grande, alla notizia dell'uccisione di Stilicone. Una leggenda vuole che ella ne sia rimasta così amareggiata da chiamare Alarico contro Roma per fare le sue vendette; ma non sembra una tradizione molto credibile. In ogni caso, è probabile che la morte di Stilicone abbia costituito un duro colpo per lei e, forse, esso le aprì gli occhi sulla reale natura di quel movimento antigermanico di cui lei stessa si era fatta portavoce.

È noto come, negli ultimi anni del loro matrimonio (e della loro vita) le difficoltà d'intesa fra Serena e Stilicone si fossero moltiplicate, di pari passo col crescere dell'insofferenza di Serena per la politica amichevole del marito verso i barbari, specialmente i Visigoti. Lo stesso Stilicone l'aveva accusata, davanti al Senato, di aver sabotato il foedus con Alarico e di aver spinto Onorio a interrompere la campagna nell'Illirico. Ignoriamo quanto tali gravi divergenze d'ordine politico abbiano influito sui rapporti personali fra i due sposi. Certo è che Serena, da questo momento - e per il breve periodo che le resterà da vivere - esce completamente dalla scena politica, che fino allora aveva dominato. Ella, in particolare, aveva sino ad allora esercitato un notevole influsso sull'imperatore Onorio, che era al tempo stesso suo cugino e suo genero, ma dopo la caduta di Stilicone tale influenza le sfuggì completamente. Anzi, non rivide mai più l'imperatore; ricevette soltanto, poco più tardi, un'ambasceria da parte di lui, che le riconsegnava la sventurata figlia Termanzia, ripudiata a motivo della condanna del padre.

L'ultimo periodo della vita di questa donna orgogliosa, di questa romana d'antico stampo, fu quindi estremamente triste ed amaro. La lunga, angosciosa incertezza per la sorte del figlio Eucherio, che si nascondeva nella sua stessa città, tramutatasi infine nello strazio e nella disperazione per la sua uccisione, non le furono risparmiati nei suoi ultimi giorni di esistenza. Ella aveva creduto che la salvezza di Roma passasse necessariamente per l'alleanza con Costantinopoli e per il ripudio della politica accomodante versoi barbari; ma, dopo aver visto cadere sull'altare di una tale idea sia il marito che il figlio ed avere assistito al ripudio della figlia, ebbe ancora il tempo di vedere - ormai in procinto di pagare con la sua stessa vita la politica che aveva sempre propugnato - le orde di Alarico stringere Roma nella loro morsa, e crollare tutte le speranze in cui aveva ostinatamente creduto.

Il magister officiorum Olimpio,che aveva afferrato saldamente le redini del potere, non si ritenne al sicuro finché non ebbe annientato ogni vecchio sostenitore del generalissimo. Si istituirono processi sommari, tentando di strappare agli amici politici di Stilicone la confessione che costui stava ordendo un complotto per impadronirsi del potere imperiale. Nessun confessò alcunché di simile; ma nessuno uscì vivo da tali processi. Il praepositus sacri cubiculi Deuterio e il primicerium notariorum Pietro furono sottoposti a inchiesta pubblica, interrogati, torturati; non avebndo confessato i presunti complotti di Stilicone, furono uccisi a bastonate per ordine di Olimpio (che sarebbe stato ripagato di egual sorte pochi anni dopo). Quindi il nuovo primo ministro si affrettò a collocare dei propri uomini di fiducia al posto dei ministri e degli ufficiali che erano stati uccisi nella rivolta di Ticinum e nel corso dei procedimenti penali successivi. Onorio sembrava fidarsi ciecamente di lui e avallava ogni suo provvedimento. Con Olimpio il governo dell'Impero  di Occidente, già fortemente militarizzato, tornò per un breve periodo nelle mani dell'amministrazione civile. Ma davanti alla gravissima emergenza militare che si profilò alle frontiere nord-orientali, appunto subito dopo la morte di Stilicone, i civili si mostrarono clamorosamente inferiori algrave compito che si erano assunti. La loro impotenza nel corso della nuova invasione visigota in Italia avrebbe provocato la loro caduta e, di lì a un paio d'anni, il ritorno al potere di un governo di tipo militare.

 

 

 

II

 

La caduta di Stilicone era stata provocata dal sospetto che egli fosse entrato in collusione con i nemici esterni di Roma: i barbari che avevano invaso la Gallia alla fine del 406, i Visigoti che si aggiravano fra la Dalmazia, la Slovenia e il Norico in atteggiamento ambiguo e minaccioso. Poiché era tutta la politica germanica di Stilicone che venne messa su banco degli imputati, dopo l'epurazione di Ticinum tutto o quasi tutti i principali comandi vennero tolti agli ufficiali di stirpe germanica e affidati a ufficiali di stirpe romana. Vedremo fra breve quale misera prova essi avrebbero fatto una volta chiamati a difendere sul campo, e non velleitari programmi di nazionalismo xenofobo, il suolo della Patria.

A Roma l'imperatore incaricò Eliocrate, che era stato nominato comes sacrarum largitionium, (ossia capo del tesoro) al posto di Patronio assassinato a Ticinum, di confiscare i beni di tutti gli amici di Stilicone, ciò che fu fatto con tale zelo che il fisco, a detto dello storico greco Zosimo (Storia Nuova,V, 35, 4) ne uscì notevolmente rinsanguato. Purtroppo le conseguenze della caduta di Stilicone non si fermarono lì. Come si è visto, mentre il generale vandalo compiva il suo ultimo viaggio da Bologna a Ravenna, i capi foederati che erano con lui si erano dipsersi in attesa di vedere quali decisioni avrebbe preso l'imperatore. Ora le famiglie di questi capi, così come quelle dei loro uomini, si erano stabilite da diversi anni in diverse città della Penisola, formando un gruppo a sé stante della popolazione. La maggior parte delle famiglie di stirpe germanica era concentrata  nelle città di Roma e Ravenna, specialmente nella prima. Nell'Urbe esisteva già da tempo, probabilmente, uno stato di tensione latente fra esse e il resto della popolazione. Roma, roccaforte del nazionalismo italico, sede del Senato e di ogni pregiudizio etnico, nonché dimora di vari ufficiali romani dell'esercito, era certamente il luogo meno adatto per stabilire relazioni amichevoli con i nuovi arrivati d'oltr'Alpe, che solo lentamente e con una certa fatica assimilavano i modi di vita romani e della cui fedeltà come sudditi, in caso di pericolo, non si poteva essere del tutto sicuri. Questo sentimento di disagio, acuito negli ultimi anni dalla potenza crescente dell'elemento germanico nell'esercito e dalla politica ad esso favorevole di Stilicone, aveva portato la tensione a un grado ancora più alto. Il Senato tradizionalista, che non voleva accettare la debolezza di Roma;la Chiesa cattolica che diffidava di tali stranieri, per lo più ariani o, addirittura, pagani; il popolino, abituato da sempre a vedere i Germani solo nelle vesti di prigionieri nei trionfi e in quelle di gladiatori nei giochi del circo: tutti costoro avevano eretto una vera barriera di diffidenza e di sospetto attorno alle famiglie dei soldato germanici residenti nell'Urbe. E lo stesso Stilicone, dopo che a Ticinum era avvenuto l'irreparabile, e sul punto di essere arrestato egli stesso, aveva raccomandato alle città italiche di non lasciar entrare truppe barbare col pretesto, da parte di queste ultime, di ricongiungersi alle famiglie.

Perciò quando giunsero a Roma le notizie dei fatti di Ticinum, del massacro degli amici di Stilicone e, infine, dell'esecuzione dello stesso generalissimo, la tensione lungamente accumulata scoppiò con violenza terribile. Tutto l'odio e la paura che i Romani avevano accumulati negli ultimi anni;  le interminabili giornate d'ansia quando Alarico e Radagaiso sembravano avanzare irresistibilmente,  come forze della natura, verso l'Urbe, trovarono tumultuosamente una via di sfogo. Allora cominciò un nuovo massacro. In città non c'erano praticamente truppe barbare in quel momento; esse erano ordinariamente tenute  nel nord Italia, e comunque fuori di Roma, per ragioni politiche. C'erano però un gran numero di donne e di fanciulli germani -le mogli ed i figli degli ufficiali e dei soldati foederati, e su di essi che  si  scatenò il furore del partito nazionalista italico. Furono i  soldati romani di  stanza in città (Zos., V,35, 5), in preda a un demone di distruzione,  a dar mano alla strage;  ad essi si unì,  molto probabilmente,  anche una parte della popolazione. Il risultato di quella rinnovata strage,  di quella seconda notte di san Bartolomeo,  che gli stessi Romani ricordarono a lungo con vergogna e disgusto,  fu l'annientamento totale dei Germani presenti in città. Non uno,  a quanto pare, uscì vivo da quel macello. Lo stesso Eucherio,  non sappiamo esattamente  se  allora,  o poco dopo, venne tratto dal  suo nascondiglio e  assassinato, d'ordine dell'imperatore, da due eunuchi mandati  apposta da Ravenna per tale bisogna, Arsacio e Terenzio, gli stessi che  s'incaricarono di riconsegnare la sventurata Termanzia alla madre.  Anche questa volta Serena,  che era di puro sangue  romano, nonché nipote di Teodosio il Grande, fu lasciata in pace;   fu lasciata sola con la figlia ripudiata e  col dolore per l'uccisione   del   figlio.

3Dpo la strage, ebbe  inizio il saccheggio. Tutte le  case dei Germani, dopo il lutto,  conobbero la devastazione.  I soldati, come se si fossero messi  d'accordo, ripulirono Roma da un capo all'altro. Questo fu il contraccolpo a Roma dei  fatti di Ticinum e di Ravenna; analoghe scene,  probabilmente,  ebbero luogo anche nelle  altre  città. È quasi certo che una simile epurazione dovette aver luogo per lo meno a Ravenna, ove  i numerosi  amici di Stilicone,  che non erano fuggiti dopo la sua morte, furono annientati.

Le conseguenze di questi massacri indiscriminati furono estremamente gravi.  Si era voluta imitare,  anche qui, la politica tipica dell'Impero d'Oriente: nelle province  asiatiche,  l'indomani  della battaglia di Adrianopoli, in un dato giorno erano stati completamente sterminati  a tradimento tutti i giovani barbari insediatisi nelle  città (cfr. Zos., IV, 26;  Amm. Marc., XXXI, 16, 8). Ma l'Occidente non aveva la forza dell'Oriente; la sua forza militare riposava, in realtà, proprio sulla vasta partecipazione dei barbari al sistema difensivo. Non si poteva strappare d'un colpo quella presenza,  come una spina dal fianco, senza danneggiare irreparabilmente anche  tale  sistema difensivo. Non appena seppero del massacro delle loro famiglie  avvenuto nelle città italiane, i foederati barbari  si riunirono,  giurarono di vendicarsi e, per prima cosa, si mossero per uscire in massa dall'Italia e andare a domandare protezione presso Alarico. Nessuno osò cercare di fermarli; e così ben 30.000 guerrieri, praticamente tutti i reparti di stirpe germanica dell'esercito, andarono a ingrossare le file dell'esercito di Alarico e, naturalmente,  lo incitarono a scendere in Italia per vendicarsi. Rimasero,  a quanto pare, solamente gli Unni, forse  anche parte degli Alani,  che non essendo di razza germanica erano meno odiati dal partito nazionalista romano, e che alcuni ufficiali più avveduti giudicavano indispensabile  cattivarsi per rimpiazzare almeno in parte i vuoti provocati dalla defezione dei Germani.     

II trasferimento dall'Impero ai Visigoti di questa massa bellicosa e sperimentata in guerra, che fu una diretta conseguenza delle vili e sconsiderate  stragi dei  loro familiari, dimezzò la forza di Roma proprio nel momento decisivo e capovolse i rapporti di forza alla vigilia della guerra. È  da credere, infatti, che più dei reggimenti romani, Alarico avesse   temuto la perizia tattica di Stilicone e il valore degli ausiliari barbari. Ora Stilicone non c'era più e quei formidabili guerrieri, i protagonisti delle vittorie di Pollenzo e di Verona, erano passati in blocco dalla sua parte. La via d'Italia e di Roma stessa sembrava aperta. Questi furono i risultati ottenuti dal partito nazionalista romano il quale, nel momento stesso in cui esaltava i valori della patria il contro alla barbarie germanica,  abbandonava la patria in balia di quella barbarie.  

 

 

 

III

 

A questo punto, per comprendere bene lo sviluppo degli eventi, è importante sfatare un mito, e cioé che Alarico abbia invaso l'Italia in veste quasi di vendicatore di Stilicone e dei barbari massacrati nelle varie città. Zosimo, che nelle sue alterne oscillazioni di giudizio segue or questa, or quella fonte, ci presenta Stilicone prima come un barbaro avido e intrigante, poi come un eroe degno di miglior causa e, sull'onda di quest'ultima valutazione  (ripresa, come  sappiamo, da Olimpiodoro di Tebe) ci presenta come un atto di moderazione da parte di Alarico il fatto che questi non abbia subito mosso guerra all'Impero (V36, 1). In realtà, i fatti di Ticinum, di Ravenna e di Roma non potevano in alcun modo essere addotti dal re dei Visigoti come pretesto di guerra. Per quanto riguarda la morte di Stilicone, Alarico doveva ben intendere come essa gli avesse liberato la strada dal maggiore ostacolo sulla via dell'Italia; inoltre gli fece balenare la possibilità, già da lungo tempo accarezzata (almeno fin dalla prima invasione nella Penisola), di potersi sostituire a lui quale nuovo generalissimo di Onorio. E in quanto al massacro delle famiglie dei foederati, bisogna tener presente che esse erano formate per lo più da Ostrogoti, Vandali, Franchi e Alani - a parte gli Unni, ancora poco numerosi - e nulla di più anacronistico si potrebbe attribuire ai Germani del V secolo, che un comune sentimento di fratellanza razziale o di patria. Non solo i foederati dell'esercito romano, in quanto non-Visigoti  (se non forse in piccolissima misura ), non erano considerati da Alarico e dai suoi come membri di uno stesso popolo, ma anzi erano riguardati come  dei nemici che combattevano al soldo di Roma contro di loro, come i principali responsabili delle disfatte di Pollenzo e di Verona. I loro guai attuali non riguardavano i Visigoti, anche se essi furono ora ben felici di accogliere un così consistente rinforzo sotto le proprie bandiere. Questi profughi portavano con sé, oltre al numero ingente e al cieco desiderio di vendetta, tutto un ricco bagaglio di esperienza militare e di tecnica romana, che trasformò quasi di colpo le orde indisciplinate di Alarico in un vero esercito capace di battersi su un piedi parità con le forze di Roma. Ma, per il resto, i risentimenti personali di quei profughi verso l'Impero Occidentale erano cosa loro privata. I Visigoti, lo ripetiamo, non consideravano i foederati loro fratelli più di quanto gli Abissini di Giovanni IV o di Menelik I considerassero tali gli ascari eritrei che, al soldo dell'Italia, avrebbero combattuto contro di loro. È  storia vecchia, che da millenni si ripete sotto svariati cieli. Sarebbe del pari ridicolo affermare che, durante le guerre franco-inglesi del Settecento nel Nord America esisteva uno spirito di solidarietà fra gli Huroni alleati dei Francesi e gli Irochesi favorevoli agli Inglesi.

La verità è che Alarico avverti così poco la "svolta"  politica inaugurata da Olimpio a. Ticinum che la sua prima idea fu quella di sfruttare la scomparsa di Stilicone, il suo vecchio rivale, per farsi sotto e  cercar di ottenere per sé il favore di Onorio, quale nuovo comandante dei foederati barbari e, magari, dell'intero esercito romano. Aveva compreso  cosi poco il significato reale delle epurazioni antigermaniche, che per due  anni tentò ostinatamente di far accettare al governo di   Ravenna le sue proposte e solo quando, finalmente, si rese conto della verità, in un inutile gesto di rabbia e di frustrazione entrò a Roma e la saccheggiò - cosa che avrebbe potuto fare, in verità,  se l'avesse voluto,  anche  subito, nell'autunno del 408.

Così, probabilmente verso la fine  di settembre  o i primi di ottobre, Alarico,  apprese le novità dell'Italia, decise  di ritentare il ricatto già avanzato con successo al principio dell'anno. Anche  questa volta richiese una somma di denaro (non sappiamo precisamente quanto), l'autorizzazione a trasferire il suo popolo dal Norico, ove si trovava, in Pannonia, nonché uno scambio di ostaggi. In particolare, in  cambio della consegna di alcuni maggiorenti goti,  domandava gli fossero inviati il figlio di Giovio  (ex satellite di Stilicone  e prefetto del pretorio dell'Illirico,  tal Ezio, e il figlio di Gaudenzio (altro ex protetto di Stilicone ed ex comes Africae), certo Giasone. A queste  condizioni,  dice Zosimo, "chiedeva la pace e prometteva di mantenerla"   (7,  36, 1). Dal momento che proprio' di qui  si innescò la fatale catena di eventi che  sarebbe  culminata con la presa di Roma,  sarà bene  considerare  con una certa attenzione il tenore delle richieste di Alarico. La tendenza della maggior parte degli storici moderni,  infatti,  è quella di  sottolineare la moderazione di  tali richieste e la sconsideratezza del rifiuto opposto dalla corte occidentale; ma raramente, ci sembra, ci si è soffermati a considerare le reali implicazioni della proposta visigota.

Anzitutto, la premessa.  Su quale base Alarico avanzava la richiesta di un rinnovo del foedus - necessaria, secondo lui, dopo la morte di Stilicone,  che era stato il suo diretto interlocutore fino allora? Zosimo dice che il re dei Visigoti, "ricordandosi dei patti stipulati da Stilicone, chiese la pace"  (nel passo sopra citato), e passa ad esporne  le  condizioni. Ora, non possiamo fare  a meno di notare che non esisteva uno  stato di  guerra fra l'Impero e i Visigoti, in quel momento. Alarico,  che  aveva svolto per più d'un anno, nell'Illirico, le funzioni di magister militum per Illyricum,  ossia di alto ufficiale dell'esercito romano, era stato, è vero, congedato brutalmente dalla famosa lettera di Onorio. Però aveva domandato, in pagamento di quel congedo,  la somma di 4.000 libbre  d'oro, ed era stato accontentato.  Che il pagamento sia effettivamente  avvenuto, è quasi certo;  il Senato e  l'imperatore  avevano approvato,  sia pure malvolentieri,  tale passo, ed erano ormai passati parecchi mesi da allora;  possono esistere quindi pochi dubbi in proposito. Ora,  dopo aver ottenuto il pagamento richiesto, Alarico faceva sapere alla corte di Ravenna che,  dietro pagamento di un'ulteriore  somma, era disposto ratificare la pace!

Ma non basta. Zosimo nota quasi di sfuggita, e in forma del tutto marginale,  che  se le  sue  condizioni fossero state  accolte, egli  sarebbe stato pronto a trasferire il suo popolo dal Norico alla Pannonia, presentando implicitamente la cosa come un atto conciliante verso l' Impero. Non era la Pannonia più lontana del Norico dalla delicata frontiera orientale d'Italia? Non era una provincia poverissima e da tempo quasi  abbandonata dall'amministrazione romana? Inoltre, non vi si erano già stanziati,  col permesso di Graziano,  fin dal 379 grossi nuclei di Ostrogoti?  Senonché, la portata reale del disegno di Alarico era più complessa e  assai meno favorevole  all'Impero, di quanto a prima vista potrebbe sembrare.  Innanzitutto, Alarico aveva fino allora militato come un generale  al servizio dell'Impero di Occidente, ma non aveva mai ottenuto - né, pare, finora richiesto - un regolare trattato di  stanziamento, secondo il regime  della hospitalitas, come l'avevano ottenuto i Goti  con Teodosio, nella Mesia e nella Tracia, dopo la battaglia di Adrianopoli.  Dunque,   se i Visigoti avevano diritto,  come  soldati dell'esercito occidentale,  agli  stipendi, non avevano  però alcun diritto di reclamare  uno stanziamento stabile nel  territorio occidentale.   Si  ricordi  poi  che Alarico,   secondo alcune  fonti, era stato eletto nel 395  solamente  capo, non re dei Visigoti; è    dunque perfino dubbio che  sarebbe  stato titolato a trattare  col governo imperiale  come qualcosa di più che  come un semplice  condottiero di truppe mercenarie.  Di  conseguenza,  sia il trasferimento dei Visigoti - attraverso la Dalmazia - dall'Epiro fino a Iulia Emona,  sia la loro prolungata permanenza nel Norico, erano stati effettuati  senza l'autorizzazione  formale  delle  autorità occidentali e in un clima politico-militare minaccioso nei confronti dell'Impero. Ecco perché, forse, Alarico, dopo la morte  di Stilicone - al principio dell'autunno del 408- proponeva  all'imperatore Onòrio di  stipulare "un trattato di pace"; egli  doveva rendersi  conto che,  pur se non si era ancora combattuto, né si era versato del sangue, uno stato di guerra latente doveva esistere  come  conseguenza dei suoi movimenti minacciosi  attraverso le province occidentali.  Anzi, il fatto che  tale guerra non fosse iniziata data da tempo, e precisamente da quando i Visigoti avevano lasciato l'Epiro per risalire verso la valle della Bava superiore, era da imputarsi unicamente alla debolezza militare dei locali governatori romani, che non avevano potuto o voluto contrastare quella marcia non autorizzata da Ravenna.                        

Ora, Alarico chiedeva in sostanza, insieme al permesso di trasferirsi dal Norico in Pannonia (ma aveva forse  domandato il permesso di arrivare fin nel Norico?), l'assegnazione di una sede stabile e

definitiva per il suo popolo in quella regione.  Chiedeva insomma il riconoscimento dello status di foederatus non in quanto comandante di  truppe erranti, ma in quanto capo di un popolo deciso a ottenere una patria definitiva; e questo entro i confini dell'Impero.  Quanto al fatto che la Pannonia fosse più lontana dall'Italia, e quindi  tale  scelta da parte di Alarico potesse  apparire  a prima vista meno pericolosa per il governo di Ravenna, si trattava in realtà di considerazioni illusorie e tali da costituire una ben misera consolazione per esso. Diamo infatti un'occhiata alla carta geografica. Vi erano nel secolo V due province del Norico, il Noricum Mediterraneum a cavallo della Drava superiore   (comprendente l'attuale Slovenia,  la Carinzia, la Stiria ), e il Noricum Ripense fra questo e il Danubio  (Alta e Bassa Austria approssimativamente). Alarico certamente si trovava nella prima di queste due province,  anche  se non possiamo stabilire esattamente dove. Più a oriente, fino alla grande ansa del Danubio, vi erano la Pannonia Prima (dal Burgenland all'intera regione del Lago Balaton) e la cosiddetta Valeria, una sottile striscia fra la Selva Baconia, il Balaton e l'ansa del grande fiume. A sud della Drava vi erano altre due province, la Savia (Croazia) e la Pannonia Secunda (Slavonia ), confinanti a mezzogiorno con la Dalmatia. Gli Ostrogoti ammessi nell'Impero al tempo di Graziano come foederati si erano stabiliti in questa regione,  fra la Sava e il Danubio (cfr.  Jordanes,  Getica, XXVII),  che  continuava ad essere denominata genericamente Pannonia, col nome dell'antica e più vasta provincia, quantunque ora ripartita in quattro circoscrizioni minori. Si trattava, dunque, di un trasferimento minimo, quello richiesto dai Visigoti al governo occidentale: dal Norico alla provincia confinante, e dunque pur sempre estremamente minaccioso per la sicurezza della frontiera alpina, una spada di Damocle  sospesa sull'Italia. Acconsentirvi  avrebbe significato riconoscere la dissoluzione del limes danubiano, il cui scopo difensivo essenziale era sempre  stato quello di  tenere i Germani a distanza dai valichi alpini orientali; e pertanto sancire definitivamente un insediamento barbarico potenzialmente  ostile in quell'area,  da cui a suo tempo Quadi e Marcomanni - sotto Marco Aurelio - erano con facilità penetrati nella pianura veneta.

 

 

 

IV

 

Tutte queste considerazioni  sia dal punto di vista giuridico-formale,  sia dal punto di vista politico, erano giuste, erano vere e non facevano una grinza.  In sostanza la "buona fede  di Alarico era cosa per lo meno dubbia il re dei Visigoti  stava tentando un nuovo ricatto - e,  se gli fosse riuscito,  ne  avrebbe  probabilmente  tentato presto o tardi un terzo, e un quarto; tutto questo il governo occidentale  lo comprese benissimo fin dall'inizio.  Inoltre,  dopo il presunto tradimento di Stilicone ed il ripudio di tutta la sua politica germanica, era quello certamente il momento meno adatto,  quanto allo stato d'animo del partito nazionalista romana, perché i Visigoti ricominciassero il vecchio gioco del  tira e molla, senza destare una reazione negativa.

Tuttavia, una cosa erano le considerazioni giuridiche e politiche, e una cosa erano gli effettivi rapporti di forza - di forza puramente militare - venutisi a creare. Era consigliabile, era prudente, era saggio opporre un categorico rifiuto alle richieste avanzate da Alarico? E,  se lo era, c'era la volontà politica e la capacità militare di far seguire alle parole i fatti? In altre parole: si era disposti ad assumersi concretamente, immediatamente, le probabili conseguenze  di un rifiuto? Questa doveva essere la corretta impostazione del problema da parte del governo di Onorio non una petizione di principio sulla intangibilità dei territorio romani o una denuncia verbosa,  ma sterile,  della slealtà di Alarico.

Il nuovo governo occidentale dominato dal magister officiorum Olimpio si mostrò totalmente inadeguato a reggere il timone dello Stato in una congiuntura cosi incerta e difficile. Oli  ambasciatori di Alarico vennero rimandati con una risposta negativa, forse con una fretta eccessiva, per la ragione che Olimpio aveva potuto scalzare Stilicone  sulla base di un programma rigidamente  antigermanico e  adesso non poteva spiegare a Onorio che tale programma era irrealizzabile, senza pronunciare la sua stessa condanna. Questa fu la vera e principale ragione del rifiuto opposto ad Alarico. Si era venuta dunque a creare una situazione politicamente  anormale, quella di un governo chiamato ad affrontare un grave problema esterno e che basava. la propria azione non in base a delle considerazioni politiche di natura oggettiva, ma principalmente in base a un proprio calcolo di natura opportunistica.

Ciò fu palese  anche nella scelta degli uomini  che  avrebbero dovuto fronteggiare la grave crisi,  che il rifiuto di negoziare con Alarico aveva reso inevitabile. Poiché Onorio, in questo particolare frangente,  sembrava riporre una fiducia pressoché illimitata in Olimpio, fu il magister officiorum a scegliere i nuovi comandanti dell'esercito, e l'imperatore non si  limitò che  ad avallarne  la nomina. Olimpio però dimostrò chiaramente di ritenere più importante la sicurezza della propria posizione di potere, rispetto alle necessità di efficienza e di professionalità dei nuovi comandanti. Per prima cosa tornò a dividere il comando della fanteria da quello della cavalleria.  Sotto Stilicone essi erano stati riuniti nella sua persona col grado di magister utriusque militiae praesentalis, quantunque  continuasse  ad esistere un comando subordinato della cavalleria, «die nel 408 era ricoperto da un tal Vincenzo, perito nelle