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La vita è un sogno che occorre attraversare ben desti

di Francesco Lamendola - 15/10/2007

 

 

Come Shakespeare sembra suggerire in alcune sue opere (cfr. il nostro articolo Malinconia e platonismo nel «Sogno di una notte di mezza estate» di Shakespeare), probabilmente sotto la suggestione di dottrine neoplatoniche largamente diffuse nel Rinascimento europeo), e come afferma esplicitamente Calderòn de la Barca ne La vida es sueño), noi possiamo paragonare la vita umana a un sogno dai vividi colori e pervaso da una tale forza illusionistica, da presentarsi con tutte le apparenze della realtà "vera". Anche per l'Induismo la vita degli esseri e tutto il mondo materiale non sono che un sogno, un sogno della mente divina. George Berkeley (ce ne siamo occupati nel saggio Introduzione alla filosofia di G. Berkeley) che, probabilmente, non aveva mai letto i grandi classici dell'India, ma che era permeato di filosofia neoplatonica, senza saperlo affermava qualche cosa di molto simile: e cioè che il mondo materiale non ha consistenza ontologica indipendente, ma esiste solo in quanto viene percepito (esse est percipi), o dalle menti finite, o dalla Mente Infinita, Dio.

Proviamo a prendere per buona questa ipotesi di lavoro e vediamo dove ci può portare.

Noi non sappiamo bene da dove veniamo, né come siamo entrati in questo sogno. Certo, "sappiamo" di venire dall'Essere: ma non sappiamo, né ricordiamo esattamente che cosa ciò voglia dire; come il dormiente non sa quando e come la sua coscienza sia scivolata nel sonno, ossia in un altro piano di realtà. Sappiamo, più o meno chiaramente, che siamo qui per fare qualche cosa; che la nostra non è - né potrebbe esserlo, anche volendo - una passeggiata di puro piacere; che qualcosa o qualcuno ci ha messo in mano un testimonio, ci ha affidato una missione (cfr. spec. i nostri articoli Ogni uomo è un viandante con la doppia cittadinanza e Di chi è la mia vita?). Forse, come pensavano Pitagora e Platone, abbiamo già vissuto alte vite prima di questa; o forse non esistevamo che come progetto nella mente divina (cfr. Dov'erano gli enti prima di esistere?). In ogni caso, entrando nella vita - il che avviene già nell'utero materno - ci troviamo, confusi e inesperti, davanti a una realtà che conserva per noi qualche cosa di misterioso e inesplicabile; una realtà che ci sforziamo d'interpretare, leggendone i segni come sui volti di persone che non conosciamo, ma sempre con l'intima sensazione di sfiorare soltanto le superficie delle cose e non le cose stesse. Siamo come un viandante che si addormenti, stanco, e si risvegli di notte in bosco misterioso, pervaso da indecifrabili presenze, alcune benevole, altre malefiche.

 

"Io non so ben ridir com'io v'entrai

tant'era pien di sonno a quel punto

che la verace via abbandonai",

 

dice Dante nel primo canto del suo immortale poema.

Comunque, con l'incoscienza propria dei bambini, finiamo per adattarci alla nostra situazione e, invece di sforzarci di comprenderne il senso, la abitiamo con la massima (apparente) disinvoltura, come se non vi fosse niente di più logico e naturale del fatto di essere al mondo, circondati da altri esseri come noi, che vediamo entrare (e talvolta uscire) dal nostro orizzonte coscienziale: venuti, come noi, non si da dove e diretti verso non si sa cosa; né, soprattutto, perché.

I bambini in età pre-scolare, probabilmente, conservano - fino a un certo punto - se non la memoria, una sorta di vaga reminiscenza di quel mistero originario, dal quale proveniamo ma che poi, addentrandoci nel mondo materiale, tendiamo a scordare rapidamente. Un indizio di questa persistenza è dato, fra l'altro, dai fenomeni cosiddetti parapsicologici, che coinvolgono con frequenza, appunto, dei bambini e dei pre-adolescenti (cfr. l'articolo I bambini vedono cose che noi non vediamo). È come se il fatto di non essere stati ancora persuasi, dal mondo degli adulti, che soltanto la logica razionale consente di accostarsi alla realtà vera, desse loro, o ad alcuni di loro, l'accesso a quella dimensione sovra-razionale ove s'intersecano diversi livelli di realtà, alcuni dei quali sono parzialmente svincolati dalle "normali" coordinate spazio-temporali.

 

Una volta che ci siamo immersi nel flusso della coscienza, abituandoci a non scorgere neanche più la sua dimensione sacrale e misteriosa (di mistero nel senso che la parola ha nella filosofia di  Gabriel Marcel: qualcosa che interroga dall'interno tutto il nostro essere), cadiamo sotto l'influenza dell'ignoranza, della passione o della virtù; e, a causa della tendenza all'attaccamento che esse generano, ci leghiamo in modo sempre più stretto a ciò che è illusorio e impermanente (cfr. il nostro articolo Le tre influenze della natura materiale), come è magistralmente descritto dall'autore della Bhagavad-gita. L'uomo d'affari, che vive per accumulare denaro; il politico ambizioso, che vive per conquistare e conservare il  potere; la ragazza vanitosa, che vive per vedersi ammirata e desiderata in continuazione: sono tutti schiavi delle loro passioni e della loro ignoranza. Perfino la pratica della virtù può tradursi in una forma di schiavitù, se non nasce da un cuore puro e assetato di verità, ma da un bisogno di benessere interiore perseguito come fosse un valore assoluto. Ogni genere di vita che sia ispirata e dominata dall'attaccamento non è che una forma di sonnambulismo ed è caratteristica di persone che credono di essere deste e consapevoli, mentre sono immerse in un sonno profondo. Avanzano ad occhi chiusi, vanno a sbattere continuamente contro mille ostacoli e fanno del male a se stesse e agli altri; ma, poiché non ne hanno alcuna consapevolezza, continuano a reiterare sempre gli stessi errori, con monotona ostinazione.

Il fatto che la vita possa essere un sogno, come pensava anche Platone, non significa che si possa viverla immersi nel sonno; al contrario. Sarebbe come sognare due volte, moltiplicando cadute e delusioni. Dobbiamo invece sforzarci di viverla con la massima lucidità, consapevoli della natura illusoria del mondo spazio-temporale in cui siamo immersi. Non ci è dato, infatti (tranne che nella rara esperienza dell'estasi, propria del mistico), di spostarci su un altro piano di realtà: e l'illusione, finché dura, è per noi la realtà. Tuttavia sappiamo che si tratta di una realtà effimera, di un velo di apparenza che copre la realtà profonda delle cose: guai a scambiare il velo per le cose stesse; guai a scambiare la luna con il dito che indica la luna. La vita presente, immersa nel flusso dello spazio-tempo, è simile a una barchetta di cui ci serviamo per attraversare un braccio di mare aperto; ma la vita vera non è la barchetta; è l'oceano che la circonda d'ogni parte. Dobbiamo imparare a diventar pesci, per poter nuotare agilmente sulle onde e respirare l'ossigeno presente nell'acqua; non possiamo aggrapparci eternamente alla barchetta. Non è fatta per affrontare le grandi ondate dell'oceano, ma solo per consentirci la traversata di uno stretto braccio di mare. E, soprattutto, la barchetta non è noi; è solo un mezzo di cui ci serviamo, fintanto che non siamo capaci di trasformare le nostre braccia in pinne e i nostri polmoni in branchie. Ma un giorno dovremo fare a meno di essa, e lo sappiamo: anzi, parlando propriamente, questa è l'unica cosa di cui siamo del tutto certi e convinti fin da quando veniamo al mondo.

Quando giungerà il momento di abbandonare la nostra barchetta, allora si vedrà se saremo stati capaci di sfruttare il tempo messo a nostra disposizione, ossia la durata della nostra vita, per proseguire il viaggio con le nostre sole forze. Platone ha sintetizzato questa dottrina in una pagina del Fedone carica di una potente suggestione:

 

"- È bene, però, amici, - riprese Socrate, - che ora si consideri un'altra cosa, che cioè, se l'anima è immortale, essa richiede delle cure e non solo per il tempo che chiamiamo vita ma per l'eternità; non preoccuparsene sarebbe un grosso rischio. Se, infatti, la morte fosse separazione da tutto, sarebbe una bella fortuna per i malvagi che, una volta morti, verrebbero a trovarsi liberi del corpo e dell'anima e, quindi, da tutte le loro iniquità. Dato che è chiaro, invece, che l'anima è immortale, essa potrà avere nessun altro scampo dai mali, né salvezza se non col diventare, quanto più è possibile, saggia e virtuosa, poiché l'anima quando giunge nell'al di là, non ha null'altro che la sua formazione morale e il suo costume di vita, cioè, a quanto si dice, soltanto quello che giova o nuoce moltissimo al defunto, giunto alle soglie dell'eternità. A questo proposito si racconta che quando uno è morto il suo demone che l'ha avuto in custodia durante la vita, ha l'incarico di condurre la sua anima in un luogo prestabilito, dove si raccolgono tutte le anime per essere giudicate. Da qui, spinte da colui che ha il compito di accompagnarle, esse vanno verso le dimore dell'Ade. Qui, una volta subita la sorte loro assegnata e trascorso un periodo di tempo stabilito, un'altra guida le conduce nuovamente verso la terra, ma questo attraverso un vastissimo arco di tempo. (…)

"Dunque, l'anima prudente e saggia segue la sua guida e non ignora il suo destino; quella che, invece è legata bramosamente al corpo, come dissi prima, per lungo tempo, resta attratta violentemente al mondo sensibile e solo dopo molta resistenza e gran patimenti se ne distacca, trascinata a forza e a fatica dal demone che le è stato assegnato. Giunta, infine, dove sono le altre, impura com'è per le cattive azioni commesse, per nefande uccisioni o altri delitti del genere che fanno il paio con queste e son degni di anime simili, a quest'anima che tutti fuggono e scansano, nessuno vuol far da guida e da compagno di viaggio ed essa se ne va, così, errando disorientata, penosamente sola, fin quando non sia maturato il prescritto ordine danni e, fatalmente, allora, non sia condotta nel luogo che le spetta. L'anima, invece, che ha trascorso una vita pura e sobria, trova gli dei a guida e compagni di viaggio e pone la sua dimora nel luogo che le si addice."(cap. LVII Fed., tr. di N. Marziano, in Platone. Apologia di Socrate, Critone, Fedone, Convito, Milano, Garzanti, 1975, pp. 163-64).

 

Dobbiamo essere ben desti, quindi, nel sonno chiamato vita, per poter affrontare il risveglio nella vita vera, che ci si apre oltre la soglia della morte. Perché chi avrà vissuto la vita dormendo, non avrà sviluppato alcuna attitudine ad affrontare le condizioni di quell'altra vita e di quell'altro mondo, rispetto ai quali la vita presente e il mondo materiale non sono stati che una fuggevole preparazione. Ecco perché dobbiamo prepararci ad essere persone autentiche, capaci di pensare, sentire ed agire in modo autentico: a nulla ci serviranno, quando sarà giunta l'ora, le maschere, le astuzie e i mille nascondimenti coi quali ci siamo camuffati, per ingannare gli altri e perfino noi stessi.

Ci sia consentito richiamare alcuni punti del precedente articolo Dobbiamo rompere l'assedio della bruttezza e della stupidità, in cui abbiamo evidenziato la situazione di radicale inautenticità in cui si è  ridotto a vivere l'uomo moderno. Una inautenticità, si direbbe, sistematica e sfrontata, nella quale il suo spazio fisico si è degradato a non-luogo, la lingua che egli parla è diventata una non-lingua; i giocattoli con cui giocano i suoi bambini sono diventati non-giocattoli; le sue parole sono diventate non-parole; i suoi pensieri sono diventati non-pensieri; i suoi sentimenti sono diventati non-sentimenti.

Guai a noi se, come effetto della bruttezza e della stupidità del non-luogo, della non-lingua, della non-parola, dei non-pensieri e perfino dei non-sentimenti (vero e proprio Paese di Alice allo specchio), cominceremo a innamorarci di una forma di vita totalmente inautentica, totalmente adulterata. In tal caso avremo vissuto il sogno della vita profondamente addormentati; e, al momento dell'inevitabile risveglio, ci troveremo del tutto impreparati ad affrontare l'Assoluto. Per chi si è abituato a coltivare  sempre e solo il banale "buon senso" di ciò che è relativo, immerso nelle tenebre dell'ignoranza e della presunzione, il risveglio potrebbe essere molto amaro. Potrebbe somigliare a un incubo, dopo i sogni voluttuosi di una vita inautentica, costruita sulle fragili  fondamenta di un "realismo" del tutto illusorio e fuorviante.