I pastori sardi attuano uno sciopero della fame per sottolineare la fine del loro mondo
di Peter Popham - 16/10/2007
Fonte: independent
Silvano Pistis avrà a breve molto da fare. Fra poche settimane inizia la stagione dell’agnellatura sull’isola di Sant'Antioco, a largo della Costa sud-occidentale della Sardegna. E’ il periodo più duro per il sig. Pistis, i suoi due fratelli e la famiglia tutta perché bisogna svezzare e ingrassare gli agnelli per Natale. Il lavoro della terra ce l’hanno nel sangue e non c’è nulla di più tradizionale in Sardegna dell’allevamento delle pecore – ma per
"Non ce la facciamo ad andare avanti," dice il sig. Pistis desolato. "Le grandi aziende che comprano il latte delle nostre pecore per il formaggio lo pagano 70 cent al litro – sono 30 anni che il prezzo non sale. Ma tutto il resto è centuplicato. Avevamo dei sussidi dall’Unione europea – 4.000 o 5.000 Euro l’anno – ma l’anno scorso sono stati soppressi. Non possiamo più andare avanti. Non facciamo una lira. Se continua così non avremo più un lavoro, la terra e finiremo per strada."
Oggi mr Pistis, un uomo di 27 anni con il mento sporgente ed un'espressione seria sul suo viso arrossato, e' a Roma. La scorsa settimana insieme ad altri pastori e pescatori sardi hanno attuato uno sciopero della fame negli uffici comunali di un paese della Sardegna meridionale per attirare l’attenzione della Regione e del Governo sulla loro situazione.
Ora hanno portato la loro lotta nella capitale perché le fosche previsioni del sig. Pistis si stanno per avverare. Lui e la sua famiglia potrebbero perdere tutto ciò che possiedono – pecore, terra, ovili, foraggio, le stalle, tutto. Andrà tutto all’asta per ripianare almeno parte dei 120.000 Euro (£83,900) che debbono alle banche.
Tutto ebbe inizio quando nel 1988 il governo regionale della Sardegna propose loro un bell’affare, come quelli che si offrivano allora ai contadini europei nel periodo delle vacche grasse della Politica Agricola Comunitaria – grandi prestiti ad un interesse fisso molto basso per modernizzare le aziende agricole. Quattro anni dopo, l’affare si sgonfiò platealmente quando l’UE lo dichiarò illegale sostenendo che i bassi tassi di interesse andavano contro le regole della corretta competizione.
Ma a quel punto i prestiti erano già stati spesi e quando le banche alzarono i tassi di interesse, i contadini cominciarono lentamente ad affondare nei debiti. Oggi circa 50.000 proprietari di terra sono debitori alle banche per circa Euro 700 milioni (£490m). La loro unica speranza è quella di convincere il governo centrale ad adottare delle misure di emergenza per fermare il sequestro e la vendita all’asta delle loro terre. Ma la speranza si accompagna alla paura.
La settimana scorsa ad un contadino in sciopero della fame è stato dato fuoco all’azienda e Riccardo Piras, uno dei leader del gruppo che si oppone alle svendite, ha ricevuto una lettera con il disegno di una bara: “Ti spariamo nella schiena e incendiamo la tua terra”, minacciava.
Un avvertimento per fermare la campagna volta a sensibilizzare il governo sui problemi dei contadini. Le splendide coste sarde fanno gola all’industria del turismo mediterraneo e, man mano che le lagnanze dei contadini si amplificano, gli sciacalli della finanza speculativa si organizzano. Il sig. Pistis non ha dubbi che se lui e la sua famiglia venissero sbattuti fuori dalla loro azienda agricola, qualche albergatore si aggiudicherebbe la terra a prezzi convenienti per costruirci un villaggio turistico.
La crisi sarda è uno dei sintomi di una più vasta malattia dell’
Questa politica è un enigma. La pasta, il prosciutto, i formaggi, l’olio d’oliva e altri prodotti italiani sono molto richiesti in tutto il mondo, e tuttavia produrre in Italia – data la volatilità dei sussidi e l’apertura alle importazioni da tutto il mondo – è diventato maledettamente caro. Alcuni dei celebri produttori di prosciutto italiano allevano i maiali in Romania a costi di molto inferiori per poi riportarli in Italia negli ultimi 3-4 mesi di vita per poterli certificare come italiani. Il grano duro usato per fabbricare la famosa pasta italiana può essere coltivato in Ucraina o in altri Paesi meno cari.
Nel frattempo i contadini italiani sono con le spalle al muro. Il sig. Fabbris prevede che entro il 2013, quando cesseranno i sussidi dell’Unione Europea, il 40%