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Liberarci dall'aspettativa, figlia malata dell'idea di progresso

di Francesco Lamendola - 16/10/2007

 

L'industrializzazione e l'avvento della società di massa, che ne è stata la naturale conseguenza, ha introdotto due fattori  completamente nuovi nell'orizzonte spirituale dell'Occidente: l'idea di progresso e la sua figlia malata, l'aspettativa del "benessere". L'idea di progresso, sconosciuta sia all'antichità che al Medioevo e allo stesso Rinascimento, si afferma con la filosofia razionalistica dell'Illuminismo, anche se le sue premesse sono già contenute nella cosiddetta rivoluzione scientifica del  XVII secolo. Gli stessi ingenui cantori del "progresso", come l'inglese John Bury (autore di una celebre Storia dell'idea di progresso, uscita in Gran Bretagna nel 1932 ma tradotta in Italia, da Feltrinelli, solamente nel 1964) riconoscono il carattere di novità che tale idea ha rivestito nel panorama culturale dell'Occidente.

Quanto al concetto di aspettativa, esso viene a designare una ben precisa categoria sociologica con l'avvento della società di massa, quando larghi strati della popolazione europea e statunitense (sostanzialmente, i ceti medi) possono accedere ai consumi di beni e servizi prima riservati a una piccola minoranza; quando l'industrializzazione provoca la nascita di una realtà del tutto nuova, il tempo libero (che non esisteva nelle società pre-indiustriali per il semplice fatto che non esisteva contrapposizione fra tempo di lavoro e tempo libero, ma semmai fra tempo profano e tempo sacro, che è ben altra cosa); e quando la diffusione di pratiche mediche quali le vaccinazioni obbligatorie, l'ospedalizzazione della sanità, la produzione industriale di farmaci chimici abbattono la mortalità infantile, allungando la vita media della popolazione (si badi, la vita media e non la vita: non è che ora si viva più a lungo, ma è drasticamente diminuito il numero dei decessi infantili).

Tutto ciò ha provocato un clima generale di aspettativa: di vivere più a lungo; di poter godere di oggetti prima inaccessibili; di poter fruire di servizi riservati, fin allora, a pochi privilegiati; di poter godere la vita più intensamente; insomma di poter essere più felici di quanto lo fossero state le generazioni precedenti. È la "fiumana del progresso", così ben descritta da Giovanni Verga (grande critico della modernità e dei suoi miti) ne I Malavoglia, che porta la vecchia famiglia patriarcale di padron  'Ntoni, povera ma unita da valori e legami profondi, a disgregarsi irrimediabilmente nel vano inseguimento del miraggio di un maggiore benessere, di una maggiore prosperità e sicurezza economica. Ed è il dramma che innumerevoli volte si è prodotto, ogni qualvolta il modello "progressivo" della civiltà occidentale è entrato traumaticamente a contatto con altre società, storicamente legate ad altri valori. Gli ultimi cacciatori nomadi Khoisan (Boscimani) si sono sedentarizzati e acculturati quando le giovani generazioni hanno giudicato insopportabili i sacrifici e l'incertezza legati al sistema di vita ancestrale e hanno ritenuto che la sicurezza nel disporre di cibo e acqua, di medicine contro le malattie e le infezioni e l'accesso a beni non strettamente necessari valessero la pena di voltare le spalle alla loro storia e alla loro cultura. Analogamente, milioni di disperati del Terzo e Quarto Mondo si stanno riversando entro i confini dell'Europa e del Nord America, dopo che le immagini della televisione, e soprattutto della pubblicità commerciale, li hanno convinti che non vale la pena di rimanere a vivere di stenti nei loro paesi d'origine, dove non giungerà mai il progresso, ma che è preferibile rischiare la vita pur di attingere direttamente alle fonti del "benessere" occidentale.

Si è creata, dunque, un'aspettativa planetaria: di poter vivere sempre più a lungo (e magari, in un futuro non lontano, di sconfiggere fisicamente la morte stessa); di accedere a una lunga serie di beni e servizi, che vanno molto oltre la vera necessità, fino a sconfinare insensibilmente nella sfera dei bisogni artificiali indotti dalla moda e dagli stili di vita consumistici; di poter gestire la propria vita in assoluta libertà, perseguendo il principio del massimo piacere e senza guardar tanto per il sottile né ai propri doveri, né ai diritti dei propri simili.

 

Ma che cos'è, propriamente parlando, l'aspettativa? Non è, come il vocabolario della lingua italiana vorrebbe farci credere, un semplice sinonimo di attesa; è qualcosa di molto più complesso e di molto più specifico. Non qualunque attesa è un'aspettativa: lo sono quelle attese che nascono da una promessa, implicita o esplicita, di un bene dato per certo, ma il cui conseguimento è differito nel futuro, comunque in un arco di tempo non troppo lungo. In altre parole, si crea in noi aspettativa allorché qualcuno o qualcosa ci ha lasciato intendere che, in un prossimo futuro, noi entreremo in possesso di qualcosa che è legittimo desiderare e che è giusto acquisire, per la ragione che, in ultima analisi, ci spetta di diritto, dato che altri già la possiedono. Si sono create, così, tutta una serie di aspettative sociali: dal tempo libero alla salute, dalla lunga vita alla rappresentanza politica, per non parlare di elettrodomestici, automobili, televisori, computer e telefonini cellulari, nonché dei vestiti firmati, delle ferie in luoghi esotici, di una vita affettiva e sessuale quanto mai varia e ricca. Nessuna di queste aspettative esisteva prima dell'avvento della società di massa, se non per un piccola minoranza di persone; e nessuno soffriva della mancanza di tali beni o di tali opportunità, prima che ilo pseudo-democraticismo dei consumi di massa ne creasse il "bisogno".

Come ha osservato Mirko Grzimek, morire di parto a trent'anni non era cosa che facesse scandalo, nelle società pre-industriali; certo, addolorava le persone care; ma nessuno la considerava una specie di "ingiustizia". Ogni giorno di vita che si aggiungeva agli altri era visto come un dono, e nessuno pensava di essere stato defraudato se la morte arrivava prima della vecchiaia. Se questo è vero per l'idea della morte, a maggior ragione si può estendere il ragionamento ai beni materiali e agli oggetti di consumo. In una società non basata sulla crescita, ma sull'autoconsumo e, quindi, sullo stato stazionario (come lo sono tutte le società pre-industriali), non esiste la contrapposizione ideologica fra povertà e ricchezza, fra scarsità e abbondanza. Ne esiste bensì la percezione  empirica, quando una tribù di Eschimesi, ad esempio, vive una stagione di carestia oppure una stagione di floridezza per la caccia fortunata; ma non il concetto ideologico, ossia programmatico. E così avveniva anche nella società contadina: in tempi di carestia si soffriva la fame, in tempi di buon raccolto ci si concedeva qualche lusso, ad esempio un po' di carne - qualche volta - oltre alla solita polenta; ma si accettava dal Cielo quel che il Cielo mandava: la carestia e il buon raccolto, la scarsità e l'abbondanza, la vita e la morte. Abituati più alla scarsità che al suo contrario, si avevano pochissime pretese e  ci si faceva una ragione del proprio destino: ciascuno al proprio posto, soddisfatti di vivere dignitosamente il proprio ruolo. Ricordiamo  certi paesi di montagna della nostra infanzia: senza luce elettrica, senza acqua corrente: poverissimi, secondo i parametri oggi diffusi; per non parlare delle condizioni di isolamento (mancava, magari, perfino la strada asfaltata per arrivarci): ma puliti e, anzi, tirati a specchio; e dove non era cosa rara sentire le persone cantare. Canticchiavano tra sé e sé, lavorando e sbrigando le faccende quotidiane: segno di un cuore sereno, di un animo pacificato.

 

Poi è arrivata l'industrializzazione, che ha portato il vento del benessere e ha creato una serie di intense aspettative. I paesi di montagna si sono spopolati (ve ne sono parecchi del tutto abbandonati,  sulle Prealpi Carniche, ad esempio); non solo nei Paesi del Terzo e Quarto Mondo, ma anche in quelli del Secondo (gli ex Stati socialisti) le persone più giovani non hanno che un'idea in testa: andarsene, fuggire dalle proprie radici, dimenticarle e seppellirle; e rifarsi una vita in Occidente, venendo a godere di quel sospirato benessere che la pubblicità e alcune dottrine politiche (la dottrina Bush, fra le altre) presentano come un naturale diritto di ogni essere umano. E, se è un diritto, ne consegue che chiunque o qualunque cosa si opponga alla sua soddisfazione deve essere rimosso ad ogni costo, perché ingiusto e anti-moderno (ergo, anti-storico). 

 

Dicevamo che l'aspettativa si crea quando qualcuno ci suggerisce che presto otterremo un bene, sia che esso fosse realmente da noi desiderato, sia che il desiderio sia stato indotto in noi da una iniziativa dell'altro. Quest'ultimo, però, non ce lo promette: se lo promettesse, non sarebbe un'aspettativa, ma una semplice attesa di qualche cosa ritenuta certa. Ce lo suggerisce soltanto: e il confine con una nostra erronea percezione (quando crediamo che il possesso di un bene futuro ci sia stato fatto balenare davanti) è, a volte, molto labile, Un sorriso allusivo, uno sguardo insinuante, una stretta di mano particolare o una carezza solo apparentemente distratta, possono ingenerare forti aspettative; così come l'alludere a un avanzamento di carriera, alla possibilità di un viaggio, a un miglioramento della nostra salute (se l'altro è un medico o un guaritore): tutte queste cose danno origine a delle aspettative.

Ora, la caratteristica fondamentale dell'aspettativa è l'impazienza, ossia la persuasione che quel che ci spetta debba arrivare il più presto possibile: infatti, se ci spetta, ogni ritardo equivale a un torto che ci viene fatto, a un'ingiustizia commessa nei confronti del nostro buon diritto. La persona che vive in uno stato di aspettativa è carica di impazienza: scalpita e freme perché non tollera i tempi lunghi dell'attesa, quello che vuole lo vuole adesso, subito. Quindi l'aspettativa non ha a che fare con la capacità di progettare e veder realizzato, gradualmente e con sacrificio, il conseguimento di un bene ritenuto importante, bensì con l'ansia divorante, con la frustrazione del non-ancora, con l'aggressività a stento trattenuta del "perché no?". Inoltre scarica il peso della decisione sull'altro: è l'altro che si deve decidere a darmi quel che mi ha lasciato sperare; laddove "l'altro" può essere anche il destino, ad esempio nel caso del giocatore accanito e compulsivo, che da una vincita fortunata si aspetta un radicale cambiamento della propria vita.

La nevrosi dell'uomo contemporaneo dipende appunto dalla generalizzazione dell'aspettativa, il che avviene quando l'aspettativa si sposta da un singolo bene all'orizzonte indistinto della vita intera. Vi è una diffusa aspettativa che qualcosa accada: che faremo l'incontro della nostra vita; che giungeranno gli extraterrestri a bordo dei dischi volanti; che apparirà qualche leader carismatico - politico o religioso - che rivoluzionerà le nostre vite; che insomma succederà qualcosa a riempire il vuoto desolante delle nostre vite. Superficialmente, l'aspettativa generalizzata può essere scambiata per una forma di inquietudine, mentre invece presenta con essa sono una somiglianza esteriore: perché l'inquietudine nasce come un bisogno di cambiamento che ci investe dall'interno, e che può  realmente consentirci un salto di livello esistenziale (verso il basso ma anche verso l'alto); mentre l'aspettativa è l'attesa di un evento benefico, o magari salvifico, che verrà a gratificarci dall'esterno e senza fatica da parte nostra.

Appunto, senza fatica. L'uomo-massa, che ha abdicato alla sua natura di individuo, vuole star meglio ma lo vuole subito e senza faticare. Non è forse un suo diritto, egli pensa, accedere al "benessere", quel benessere che la pubblicità gli mostra di continuo come un supplizio di Tantalo, per lasciarlo poi deluso e assetato ogni volta?

Già: l'uomo-massa vorrebbe stare meglio, vivere meglio. Ciò significa che non è felice, che avverte un profondo disagio esistenziale, nonostante egli segua scrupolosamente i suggerimenti del consumismo e le sue ricette contro malinconia e tristezza. Eppure, per quanto si stordisca con le strategie del "divertimento assicurato" e con tutti i riti e i miti del "benessere" a un tanto il chilo (discoteche, crociere, ecc.) e perfino con i rimedi disperati della soteriologia spicciola (sette di salvezza a base di ufologia, scientologia, esoterismo e magia nera), la sua malinconia e la sua tristezza non diminuiscono affatto.

Né lo potrebbero. Una strada assai diversa dovrebbe percorrere per star meglio: disintossicarsi dai veleni dell'idea di progresso - primo fra tutti la sua figlia malata, l'aspettativa generalizzata; - e far silenzio entro di sé per udire la voce interiore della chiamata. Tutti siamo chiamati per realizzare la parte migliore di noi stessi, ma pochi se ne rendono conto. La chiamata è universale: ciò che varia è la nostra disponibilità a udirla, accoglierla, metterla in pratica, scegliendoci e, al tempo stesso, oltrepassandoci.