Contro Ankara a mano armena
di Gianfranco Zavaglia - 16/10/2007
D
ue grandi Stati alleati sonosull’orlo di una crisi diplomatica
a causa di avvenimenti
storici che ne coinvolsero
direttamente solo uno, accaduti oltre
novanta anni fa. Assai dura, come
previsto, è stata infatti la reazione del
Governo turco al voto della Commissione
Esteri della Camera dei Rappresentanti
USA che ha condannato
il genocidio degli armeni, perpetrato
all’inizio della Prima Guerra Mondiale.
Prima del voto, Egemen Bagis, il
consigliere per la politica estera del
capo del Governo turco, Erdogan, in
missione a Washington per sventare
l’approvazione del documento, si era
spinto a dire che il riconoscimento
del genocidio armeno «sarebbe un
insulto alla Turchia e per gli USA
significherebbe perdere il nostro supporto
nella regione».
Se nei prossimi giorni il documento
verrà ratificato in seduta planetaria,
la tensione salirà ulteriormente. Bush
ha tentato di evitare la discussione
della mozione, ma la speaker della
Camera, la democratica Nancy Pelosi,
è stata irremovibile, anche per non
perdere un’ulteriore occasione di
mettere in difficoltà il Presidente.
Ankara, oggi più che mai, è un alleato
chiave per Washington, oltre ad
essere l’unico Stato abitato da
musulmani ad avere un trattato militare
con Israele. Basti pensare che
gran parte dei trasporti cargo aerei
per le truppe in Iraq passa dalla Turchia.
La risoluzione approvata dalla
Camera dimostra come negli Stati
Uniti, nonostante il clima di intimidazione
provocato dalla “guerra infinita
contro il terrorismo”, ci siano
ancora spazi di libertà per gli organi
costituzionali. È bene che chi, come
noi, critica il sistema statunitense, e
non solo l’attuale Amministrazione,
lo riconosca come un dato di fatto,
per affinare l’analisi e per non porgere
il fianco alle consuete accuse di
antiamericanismo pregiudiziale.
La condanna del genocidio armeno
da parte del Parlamento USA è stata
preceduta da quella di
numerosi Stati, fra cui la
Russia, la Francia e la stessa
Italia, con il voto della Camera
del novembre 2000. Il Parlamento
europeo aveva addirittura
imposto alla Turchia di riconoscere
i propri crimini storici
come precondizione per l’adesione
all’Unione, ma questa
clausola sembra, però, essere
andata dispersa.
La decisione statunitense, per
la Turchia, ha comunque un
valore ben maggiore, per il
peso globale della superpotenza
e per la lunga e fedele
alleanza mantenuta con essa
durante la guerra fredda. Una
prima incrinatura nei rapporti
fra i due Paesi era avvenuta nel
2003, quando il Governo turco
rifiutò agli USA l’uso delle
proprie basi aeree per l’invasione
dell’Iraq, a causa del
malcontento per l’indipendenza
di fatto che i curdi avevano
incominciato a conquistare dal
1991, nel Nord dell’Iraq, con
l’imposizione delle “no fly
zone” per impedire l’azione
dell’aeronautica militare di
Saddam contro i peshmerga.
Con una sorta di nemesi storica,
la vicenda del genocidio
armeno oggi arroventa la questione
curda. I curdi, al tempo
ancora privi di una coscienza
nazionale, furono assai volenterosi
carnefici, a fianco degli
aguzzini turchi, nello sterminio
degli armeni cristiani. Oggi, il
Kurdistan iracheno gode di
un’ampia autonomia che
potrebbe, prima o poi, trasformarsi
anche in un’effettiva
indipendenza, minacciosamente
deprecata da Ankara. Il
Governo turco teme che un
Kurdistan indipendente serva
da modello e da precedente
istituzionale per la propria
minoranza curda interna.
Inoltre, le città irachene di
Mosul e di Kirkuk sono abitate
da una folta comunità turcomanna,
affine linguisticamente
e culturalmente ai turchi, i cui
rappresentanti politici rivendicano
di essere stati in maggioranza
prima che le violenze nei
loro confronti e l’immigrazione
promossa dai capi curdi
rovesciasse la situazione.
Nella città di Kirkuk, la cui
regione comprende il secondo
giacimento petrolifero del Paese
e il 70% dei suoi depositi di
gas, potrebbe scoppiare la scintilla
di un nuovo scontro generale
in cui rischiano di essere
coinvolti le milizie curde, quelle
arabe, l’esercito iracheno e
quello turco. Questa zona è
oggi inclusa in una regione
araba, ma sul suo destino pende
un referendum che doveva
essere tenuto entro la fine dell’anno
ed è poi stato posticipato,
per annetterla al Kurdistan
il quale aumenterebbe così il
suo peso grazie alle ingenti
risorse incamerate.
Intanto, continuano i duri scontri
fra l’esercito turco e i miliziani
indipendentisti del PKK i
quali, al termine delle loro
incursioni, si rifugiano in territorio
iracheno. Il Governo di
Erdogan ha autorizzato le proprie
truppe a sconfinare ogniqualvolta
la operazioni belliche
lo richiedano, provocando l’irritazione
di Washington che
teme un’escalation militare.
In questa situazione è imperativo
per Washington appianare
la crisi con Ankara. Non sarà
facile, perché il nazionalismo
turco - incardinato sul potere
esercitato nella società dai
militari - è intransigente su certe
questioni ed è da esso, più
che dal fondamentalismo islamico,
non così diffuso nel Paese,
che possono giungere spiacevoli
sorprese. La Turchia laica
e nazionalista non può sopportare
la condanna per legge
parlamentare del genocidio,
perché essa, oggi, assume una
perenne valenza di sanzione
morale nei confronti dello Stato
incolpato. Esclusivamente la
Germania, finora, ha conosciuto
questa condizione e solo
oggi la sua proiezione esterna
incomincia ad affrancarsi dalla
scomunica. Certamente, il peso
di avere sterminato gli armeni
non sarà pari a quello gravante
sui tedeschi, ma il valore simbolico
rimane.
Da alcuni anni, finalmente, si è
tornati a parlare, in Occidente,
del genocidio armeno, a proposito
del quale intere generazioni
sono cresciute senza nulla
sapere. Nonostante alcuni storici
cerchino di ridimensionarne
l’entità, in quel tragico
evento venne ucciso ben più di
un milione di persone, in base
a un piano prestabilito. Di una
delle più antiche civiltà cresciute
intorno al bacino mediterraneo
nulla è rimasto dove
la violenza infuriò. I turchi, in
modo protervo, continuano a
negare l’evidenza e celebrano
addirittura i massacratori,
come è avvenuto, ancora nel
1996, con le onorificenze per
la tumulazione in patria di
Enver Pascià, uno dei maggiori
responsabili.
Detto che, con il popolo armeno,
tutto il mondo civile ha un
debito di omissione di risarcimento
morale, va aggiunto che
la storia è troppo complessa
per essere regolamentata per
via parlamentare o di tribunale.
La mania contemporanea di
decretare per legge quando sia
apparso nel mondo il male
assoluto è sbagliata, perché
cancella i contesti e nega la
comprensione profonda degli
avvenimenti. Le condanne di
alcuni eventi finiscono sempre
per diventare condanne di Stati
e di popoli le cui nuove generazioni
dovrebbero assumersi
la colpa di un passato che non
deve passare. È curioso che,
nella nostra epoca post-ideologica,
in cui impera il pragmatismo
economicista, alcuni, e si
ribadisce, solo alcuni tragici
avvenimenti lontani oscurino
con le loro ombre l’orizzonte
della politica internazionale.