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Esistono valori fondamentali condivisibili da culture diverse?

di Francesco Lamendola - 17/10/2007

 

 

 

 

Francesco Lamendola

 

 

 

La recente decisone di un prefetto che ha autorizzato le donne islamiche a indossare il burkha nei luoghi pubblici, nonostante che la legge italiana vieti esplicitamente a chiunque di girare per la strada con il viso mascherato, ha acceso le solite polemiche pro e contro l’integrazione e su cosa si  debba intendere per integrazione. Al di là del fatto che tali polemiche siano immancabilmente sfruttate da opposte ideologie politiche, che le trascinano su un terreno d rozza e istintiva emotività (o, magari, di calcolo politico travestito da ingenua emotività), resta il fatto che il caso del burkha solleva importanti questioni etiche e cultuali; per non parlare dell’infibulazione o dell’escissione femminile e di casi ancor più gravi, come quello della ragazza pakistana uccisa dai suoi familiari,  perché colpevole d essersi fidanzata con un ragazzo italiano.

La domanda fondamentale che tali episodi sollecitano è se esistano dei valori etici assoluti che possano essere condivisi da culture diverse, pur nel riconoscimento della specificità di ciascuna di esse. Rinunciamo a riflettere, in questa sede, sul problema pratico collaterale che scaturisce inevitabilmente dalla coesistenza di culture diverse sul medesimo territorio e nell’ambito della stessa sovranità giuridica, perché ci allontanerebbe dal nostro assunto fondamentale. Certamente si verificano delle esagerazioni nello sforzo di realizzare le massime condizioni di rispetto della cultura altrui nel proprio territorio: come quando si rinuncia, in una scuola elementare frequentata da una larga maggioranza di bambini italiani, a intonare dei canti natalizi per non “offendere”  l’altrui sensibilità religiosa. Ma di ciò, ripetiamo, non vogliamo parlare adesso, perché questo sposterebbe la discussione su un piano eminentemente pratico; mentre compito della filosofia è riflettere sui problemi generali dell’esistenza e cercar di chiarirne i legami con l’Essere, e non offrire ricette e soluzioni di pronto impiego.

 

Una prima considerazione è che molti usi delle singole culture, essendo il prodotto di condizioni storiche specifiche, sono talmente particolari che, agli occhi dei membri di un’altra cultura, non possono non apparire come delle vere e proprie curiosità, se non, decisamente, come delle stranezze. Gli anelli metallici delle donne-giraffa presso il popolo dei Naga, all’estremità nord-orientale dell’India, in origine erano una forma di difesa contro gli assalti delle tigri e solo in un  secondo tempo l’allungamento del collo, che ne deriva, è stato percepito come un valore estetico. Come insegna anche Lévy-Strauss, col passare del tempo molti usi e tradizioni perdono il loro significato originario e sopravvivono per forza d’inerzia, spesso nell’ignoranza delle loro origini da parte di coloro stessi che li praticano, in un contesto ormai profondamente cambiato.

A noi, comunque, non interessa istituire un raffronto fra tutti gli usi e costumi delle diverse culture, ma soffermare l’attenzione soltanto su quelli che hanno una certa rilevanza dal punto di vista dei problemi morali che sollevano nella percezione dei membri di un’altra cultura, che convivano fisicamente sul medesimo territorio. Non vogliamo cioè discettare se l’infibulazione – per fare un esempio – sia un fatto positivo o negativo in sé e per sé, ma semplicemente riflettere se essa possa venire accettata, come una “normale” tradizione della cultura islamica, nel contesto delle società occidentali ove eventualmente sia praticata. Stesso discorso per l'uso di indossare il burkha: non si discute se sia una cosa buona o meno il fatto che le donne afgane lo indossino nel proprio Paese d’origine, ma se gli effetti pratici che determina e i valori che evoca siano accettabili nel contesto dei Paesi occidentali che accolgono quote di immigrazione dai Paesi di cultura islamica. Ora, è chiaro che il ragionamento vale ne due sensi: se, cioè, determinate abitudini occidentali siano tollerabili nel contesto delle altre culture, nei paesi d’origine di queste ultime. Più in generale, poi, ci domandiamo se possano darsi dei valori realmente universali , condivisibili dall’essere umano in quanto tale, al di fuori e al di sopra delle singole culture, filosofie e religioni.

 

Innanzitutto, uno sguardo alla storia antica. Per gli antichi Ebrei, come – in seguito – per i Cristiani – l’omosessualità era un vizio contro natura, mentre i Greci – com’è noto – la pensavano in maniera completamente diversa: tanto che Platone, nel Simposio, la celebra come la forma più alta di amore fra due esseri umani. E tuttavia, anche nella società greca esisteva una percezione negativa dell'omosessualità, in particolare quando un uomo adulto assumeva il ruolo che, nella pederastia codificata quasi ufficialmente, spettava invece all'eromenòs, ossia al giovinetto (ma su tutto ciò, cfr .il classico studio di Kenneth J. Dover, L'omosessualità nella Grecia antica, 1978; tr. it. Torino, Eiunaudi, 1985).

Ci sia consentito riportare una pagina della teologa Uta Ranke-Heinemann (dal suo libro Eunuchi per il regno dei Cieli, 1998; tr. It.  Milano, Rizzoli, 1990, pp.  314-315):

 

“Dunque ciò che il cristianesimo considera contro natura, tanto che nel corso della sua storia mandò al rogo molti omosessuali per il loro vizio, è indicato nel mito greco [dell'androgino] come 'naturale'. (…)

"L'ebreo paolo, nella lettera ai Romani, annovera con ripugnanza l'omosessualità come e l'amore lesbico tra i vizi tipici dei Greci. Neanche tra loro l'omosessualità era pacifica, come dimostra questo fatto: lo storico greco Pluatrco (morto nel 120 d.C.) dà notizie del 'battaglione degli amanti' di Tebe, una specie di battaglione scelto costituito da omosessuali. Esso funzionava secondo il principio che 'è bene collocare l'amante vicino all'amato' ,perché nel pericolo ci si preoccupa al massimo dell'amato. Inoltre ci si vuole distinguere particolarmente nel valore agli occhi dell'amato. Questo corpo di tebani, chiamato anche 'battaglione sacro', rimase invitto fino alla battaglia di Cheronea, quando fu vinto nel 338 da Filippo II, padre di Alessandro Magno. «Filippo, quando al termine della battaglia ispezionò i morti,  si fermò nel punto ove i trecento ella compagnia giacevano per terra ancora con le armi indosso, tutti colpiti dalle picche dei Macedoni sul petto e l'uno stretto all'altro. Grande fu la sua ammirazione, e sentendo dire che era la compagnia degli amanti e degli amati, scoppiò in lacrime ed esclamò: - Muoia di mala morte di pensa che costoro compirono o subirono qualcosa di cui debbano vergognarsi. -» (Vite parallele di Plutarco, Pelopida, 18, tr. it. di C. Carena, Einaudi, Torino, 1958, vol. II, p. 243). Che Filippo si sia pronunciato contro la diffamazione degli omosessuali dimostra che essa di fatto esisteva.

Un simile disprezzo nei confronti degli omosessuali lo si deduce anche dalle parole di Seneca (padre del noto Seneca, che fu costretto al suicidio sotto Nerone nel 65 d.C.). Così descrive la loro corruzione: «Un'insana passione per il canto e per la danza riempie l'anima di questi effeminati. Si fanno i capelli ondulati, rendono delicata la loro voce perché assomiglia alla morbidezza della voce femminile. Gareggiano con le donne nella mollezza dei movimenti e si dedicano a ricerche oscene. Questo è l'ideale della nostra gioventù. Fin dalla nascita effeminati e fragili, rimangono coscientemente tali, sempre pronti a offendere il pudore degli altri e a non curarsi del proprio». (Controversiae I, Prefazione 8). Lo stoico Epitteto (morto il 135 d. C. circa) descrive gli oratori profumati e riccioluti di cui ci si chiede se siano donne o uomini (Dissertazioni, III, 1).In modo simile si era già fatto beffe di loro il  commediografo ateniese Aristofane, nel IV secolo avanti Cristo: «Colorito pallido, guance rasate, voce femminile, vesti di color croco, reticella per i capelli, così che uno si chiedeva se avesse di fronte una donna o un uomo» (Tesmoforiazuse, V, 130 sgg.).

 

Dunque, la percezione di una determinata pratica culturale (nel senso più ampio del termine) varia non solo da una cultura all'altra, ma anche nella medesima cultura, nel corso del tempo e a seconda delle situazioni. Quello che era nomale diventa turpe e peccaminoso, e viceversa.. Ciò significa che non esistono  valori assoluti e che ogni pratica deve ritenersi valida e accettabile quanto qualsiasi altra?

La tentazione di saltare subito a una simile conclusione è piuttosto forte, ma è bene non essere precipitosi, perché le conseguenze  di un tale relativismo sarebbero estremamente gravi. Ogni azione umana, infatti, riflette un codice valoriale; e, quando parliamo di azioni e pratiche collettive, stiamo riflettendo non semplicemente su singole azioni e pratiche, ma sull'essenza stessa dell'etica. Se esiste un'etica universale, allora si possono ricondurre tutte le azioni  e tutte le pratiche culturali entro un orizzonte comune e condiviso di valori fondamentali e, quindi, di norme e sanzioni; se non esiste, non rimane che andare verso lo scontro di civiltà: non solo di quella occidentale con quella islamica, ma di tutte le culture contro ciascuna. Tertium non datur, checché ne dicano i campioni di un multiculturalismo  astratto e velleitario, i quali nemmeno si rendono conto che le loro premesse - relativistiche, illuministiche e "laiche"- sono semplicemente una forma culturale come le altre e non la panacea universale per far convivere senza scosse e senza traumi culture diverse su un medesimo territorio.

Questa impostazione del problema potrebbe anche sembrare troppo teorica, ma è facile rendersi conto che non lo è affatto, se solo si riflette che, oggi, grazie alla globalizzazione, il mondo intero è divenuto un villaggio e che, a rigor di termini, non esistono più culture separate che possano vivere indipendentemente le une dalle altre. Perfino nelle foreste pluviali della Nuova Guinea o fra i ghiacci dell'Artide, l'arrivo del modello di vita occidentale ha incrinato tradizioni millenarie; e, viceversa, non esiste più paesino dell'Occidente, per quanto appartato fra le montagne e lontano dalle grandi vie di traffico, che non debba fare i conti con la presenza di immigrati delle più disparate provenienze, portatori di pratiche e valori molto diversi da quelli del Paese ospitante, ma anche fra le loro differenti comunità.

Certo, possiamo deprecare che i miti della modernità - primo fra tutti il mito del progresso e, poi, la sua figlia malata, l'aspettativa - abbiano distrutto in pochi decenni culture millenarie e creato un guazzabuglio mondiale, caotico e quasi ingovernabile, percorso da spaventose tensioni e contraddizioni stridenti; che l'egoismo e la miopia dell'umanità ricca abbiano contribuito a distruggere le culture tradizionali, per poi attrarre sconsideratamente flussi migratori di portata biblica verso l'Occidente. E tuttavia ciò non ci aiuterebbe né ci scioglierebbe dalla necessità di capire se vi siano dei valori assoluti, tali da potersi imporre al di sopra della Babele di usi, costumi e religioni che caratterizza la realtà attuale.

Certo, per il mistico un tale problema non si pone neppure. Quando egli, nell'interiorità della propria coscienza, realizza l'unione con l'Assoluto, allora cessa di essere un sufi, o uno yogin, o un buddhista o un cristiano: per lui, ogni cosa si reintegra nella luce dell'Amore divino; nulla è più di ostacolo, se non come prova che dev'essere superata e occasione di ulteriore perfezionamento. L'esperienza vissuta del trascendente fa cadere le barriere artificiali e non è più questione di Yahwé, Allah, Dio, Brahman e Tao: tutto è Uno, e tutti gli uomini di buona volontà non possono che essere fratelli.

Ma per l'uomo comune? L'umanità è fatta, al novantanove per centro e oltre, di uomini e donne comuni: attaccati ai loro usi, alle loro tradizioni,  alle loro credenze, come se fossero gli unici buoni e veri - mentre quelli degli altri sono falsi e cattivi (gli dei falsi e bugiardi, diceva Dante parlando del paganesimo greco-romano). Grandi anime si sono sforzate di enucleare il principio fondamentale dell'etica, per gettare un ponte al di sopra delle diverse tradizioni culturali e gerarchie valoriali. Albert Schweitzer, ad esempio, credeva di averlo trovato nel principio universale del rispetto per la vita. Ma anche la vita, come abbiamo visto a suo luogo (cfr. il nostro articolo Di chi è la mia vita?), non può essere assunta alla dignità di valore assoluto, perché vi sono valori che la trascendono: l'amore, la libertà, la verità, la giustizia. Vi sono persone che hanno sacrificato la propria vita per affermare tali valori, e ciò viene percepito come un fatto altamente ammirevole anche all'interno di quelle culture che sostengono con forza il principio della sacralità della vita stessa.

 

A nostro parere, dopo aver sfrondato, con implacabile senso critico, la credenza nella universalità di molti valori, comprese la giustizia, la libertà e la verità (Ma cos'è la verità?, chiede il procuratore Ponzio Pilato a Gesù Cristo, in Gv., XVIII, 38), uno solo regge alla prova ed è proprio l'amore, a patto di intenderlo nel senso di dono e non di attaccamento, di apertura e non di esclusivismo, di porre l'altro e non di cercare la propria gratificazione. L'amore: una parola così inflazionata che si ha quasi vergogna di pronunciarla ad alta voce; che non si ha quasi il coraggio di darne una definizione. Forse, la definizione migliore è quella che ne ha dato Cristo quando gli fu chiesto quale sia il comandamento più grande e, subito dopo (avendo egli risposto Ama il tuo Dio con tutto il cuore e ama il tuo prossimo), chi sia il nostro prossimo. Egli rinunciò a dare una vera e propria definizione; piuttosto raccontò una parabola: la parabola del buon Samaritano. Amare vuol dire, pertanto, farsi carico dell'altro, della sua sofferenza, del suo bisogno, senza nulla chiedere in cambio. Ecco, questo è forse il valore universale capace di imporsi come auto-evidente, al di sopra di tutte le culture e di tutte le pratiche.

Certo, si potrebbe obiettare che la pratica di indurre le vedove indiane a gettarsi sulla pira del defunto marito nasce come gesto di amore, ma è una forma di amore che - quantomeno - crea divisione, perché ripugna alle convinzioni profonde e alla sensibilità delle altre culture, e specialmente della nostra. Ebbene, non pretendiamo di avere in tasca la soluzione miracolosa per dirimere tale questione, né altre simili, di natura etica, che inevitabilmente si presentano nell'incontro (spesso forzato, e perciò inautentico) fra culture diverse. Questo significa che neppure l'amore è un valore assoluto, visto che le sue manifestazioni si prestano a interpretazioni così contrastanti?

Forse no. Forse, le contraddizioni e i contrasti sorgono allorché si perde di vista l'essenza dell'amore e si indugia a considerarne le manifestazioni culturali, storicamente diversificate. Ma l'essenza dell'amore non dovrebbe prestarsi ad equivoci. Essa, infatti, si riconosce dai suoi frutti: se è autentica, non può dare frutti cattivi; mentre, se non lo è, non può dare frutti buoni. Di nuovo, si obietterà che le folle in delirio che adoravano Hitler o Stalin erano pervase d'amore: eppure, in nome di quell'amore, esse furono capaci di calpestare i principi fondamentali dell'etica - della propria etica. Ma bisogna ricordare con forza che non ogni forma di amore è un valore; già lo abbiamo detto: non l'amore che nasce dal bisogno di attaccamento, ma solo quello che sa dire con benevolenza: tu, merita l'appellativo di valore. Solo quello che si propone, e che non perde mai di vista, il bene dell'altro.

 

Il bene dell'altro è qualcosa di oggettivabile? Sì e no. Sì, se ci si basa sulla massima di fare all'altro quel che vorremmo fosse fatto a noi stessi; no, se si pretende di sapere con certezza che cosa l'altro  consideri il proprio bene. Quest'ultimo aspetto è particolarmente delicato e richiede una vasta, paziente capacità di cogliere le sfumature, di camminare lungo sentieri a fil di rasoio. Se il mio amico ritiene un bene per sé il fatto di uccidersi lentamente con l'assunzione di eroina, è chiaro che il mio amore per lui non potrà consistere nell'assecondarlo. Ma se decide di donare tutte le sue ricchezze ai poveri e di affrontare una vita di durissime privazioni  per seguire una precisa vocazione,  il mio amore per lui si manifesterà nell'accertarmi, per quanto possibile, circa la genuinità di una tale vocazione  e, poi, nell'aiutarlo a perseguire il suo obiettivo, anche se - poniamo - non ne condividessi né le premesse spirituali, né le conseguenze pratiche.

Ma che fare, obietterà ancora qualcuno, quando dei testimoni di Geova  si oppongono alla trasfusione di sangue, dalla quale dipende la vita o la morte del loro bambino? Qual è dunque il vero amore: il loro, che così hanno deciso, pur straziati dal dolore; oppure il nostro, che vorremmo procedere alla trasfusione, loro malgrado?

Non esistono, lo ripetiamo, ricette preconfezionate e prontuari di morale universale. È inevitabile, su questo terreno, procedere a tentoni, andando magari a sbattere dolorosamente, cadendo e - talvolta - non riuscendo a comprendere.

Eppure, la "regola" universale, forse, esiste: agisci ogni volta in modo da considerare il tuo prossimo non come un mezzo, ma sempre come un fine. Non l'abbiamo inventata ora, l'aveva formulata Kant più di due secoli fa; ed è, probabilmente, ancora più antica.

 

Muniti di questa bussola, talvolta incomprensibile, dobbiamo sforzarci di attraversare il mare della vita. Non è detto che, grazie ad essa, saremo sicuri di non fare mai naufragio. Ma, se ciò dovesse accadere, avremmo comunque la consapevolezza di aver fatto del nostro meglio per portare un po' di luce e di calore in questa foresta crudele, che ottimisti in mala fede ci presentano come il non plus ultra del progresso: la società globalizzata, consumista, senz'anima dei nostri giorni, costruita a misura delle multinazonali e non dei veri bisogni degli esseri umani.