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La forza del dollaro debole

di Galapagos - 17/10/2007

 
La corsa del petrolio appare inarrestabile. Alla base motivazioni geopolitiche, dicono gli esperti. Anche in passato era successo che tensioni sul fronte mediorientale spingessero verso l’alto le quotazioni del greggio e quelle del dollaro. Oggi non è così: le aspettative sul prezzo petrolio sono fosche (in caso di guerra all’Iran potrebbe schizzare a 200 dollari al barile), ma il dollaro non da segnali di ripresa. Anzi. Quello al quale stiamo assistendo ha una doppia spiegazione.

La prima sta nel petrolio: le aspettative sono per un ulteriore incremento della domanda nel 2008 a fronte della quale sta una offerta quasi stagnante non per solo per volontà politica dei produttori o delle multinazionali, ma perché estrarre petrolio è sempre più complicato e costoso. Forse di petrolio sotto la crosta terrestre c’è n’è ancora molto, ma a ostacolarne l’estrazione è la tecnologia che richiede investimenti enormi e soprattutto incerti. E questo consente di dire che di petrolio ce ne sarà sempre di meno e sarà sempre più caro.

A influenzare la quotazione del petrolio è anche il trend ribassista del dollaro. E’ evidente che se il dollaro tornasse forte, il prezzo del greggio tornerebbe a scendere, anche se sarebbero dolori per gli importatori europei. Ma nel breve-medio periodo non c’è speranza che il dollaro recuperi. La congiuntura Usa, infatti, è debole e ad attrarre gli investimenti esteri è più l’area dell’euro (e quella dello yuan) che quella del dollaro. Il dollaro è destinato a rimanere debole per parecchio (in pochi mesi potrebbe scivolare a quota 1,50 sull’euro, ne sembra convinto anche Rato, il direttore del Fmi) per scelta della Fed, il cui presidente Bernanke, rinnegando le proprie idee, ha dichiarato di temere più la recessione che l’inflazione. In questa ottica il dollaro debole è una carta da giocare (l’Italia l’ha fatto per anni) per rilanciare la competitività degli Usa.