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La fuga di Giona, parabola dell'uomo contemporaneo

di Francesco Lamendola - 18/10/2007

 

 

Tutti conosciamo, più o meno, la storia di Giona: credenti e non credenti.

Ce l'hanno raccontata quando eravamo piccoli; abbiamo guardato con una forte emozione qualche Bibbia illustrata, o qualche quadro, o qualche mosaico (come quello, paleocristiano, della Basilica di Aquileia) che raffigura l'episodio più famoso e sconvolgente della sua vicenda. Il profeta, gettato in mare dall'equipaggio della nave che a lui attribuiva la colpa della

 tempesta che stava per sommergerla, viene inghiottito da un pesce mostruoso; e resterà nel suo ventre per ben tre giorni prima di essere rigettato a riva, sano e salvo.

Un po' come Pinocchio nella pancia della balena.

L'abbiamo sentita raccontare e ne siamo rimasti impressionati, immaginandoci Giona chiuso nel buio antro vivente, solo col suo dramma di ribellione a Dio, di pentimento e conversione; ma, per quanto la nostra immaginazione possa esserne rimasta colpita, abbiamo sempre pensato a quella storia come a una vicenda fantastica e, comunque, che non ci riguarda affatto, ma che riguarda un oscuro profeta - un profeta "minore", per giunta -; un uomo di Dio che non volle ascoltare il suo Dio, che fu punito e che, infine, ritornò a Lui.

Invece quella storia ci riguarda tutti, eccome - anche, ripetiamo, coloro che non sono credenti. La voce di Dio che parla a Giona e gli chiede di andare a Ninive è una efficace parabola della condizione dell'uomo contemporaneo, ben deciso a chiudere gli orecchi alla voce della propria chiamata.

Esattamente come, nelle Satire, il buon vecchio Orazio dice ai suoi lettori: De te fabula narratur: «La favola è raccontata proprio per te, si applica proprio al caso tuo».

 

«Alzati e vai a Ninive, la gran città, a predicarvi, perché la sua malvagità è giunta fino a me» (Giona, I, 2).

Ninive, la capitale dell'Assiria, secondo gli antichi aveva una circonferenza di mura di ben 90 km. Doveva essere pertanto una metropoli smisurata, dalle dimensioni quasi inconcepibili per chi non l'avesse mai veduta.

Ma Giona decide di fuggire lontano dal Signore, il più lontano possibile: fino a Tarsis, misteriosa città spagnola dell'estremo Occidente, laggiù presso le Colonne d'Ercole; e, quindi - per gli abitanti del bacino orientale del Mediterraneo - sinonimo di luogo remoto e quasi inaccessibile, posto ai confini del mondo conosciuto.

Spesso la fuga di Giona viene interpretata e presentata come effetto della paura. Ninive è una grandissima città, capitale di un regno terribile; i suoi abitanti sono potenti e malvagi, così malvagi che l'eco della loro perversione è giunta fino a Dio.

Giona, pertanto, non vuole andare a Ninive semplicemente perché ha paura: ha paura di essere ucciso.

 

Ma non è così.

Il motivo del rifiuto di Giona alla chiamata del Signore è che egli è un ardente patriota israelita e l'Assiria, per lui, rappresenta il nemico possente e pericoloso che minaccia ad un tempo l'indipendenza politica di Israele e la purezza della religione mosaica. Predicare il verbo di Yahwé agli abitanti di Ninive significa, certamente, esporsi allo scherno e, forse, alla persecuzione; tuttavia non è questa la sua intima preoccupazione.

Tutti sanno che gli Assiri sono uomini spietati; d'altra parte, la capitale del loro vasto impero è abituata a udire le voci di molti popoli e, di conseguenza, di molte divinità straniere.

No: quello che Giona teme è proprio la possibilità che i Niniviti lo ascoltino e, caso strano ma - in fondo - non impossibile, si convertano.

E questo, egli non lo vuole.

Non si fida degli Assiri, e non si fiderebbe nemmeno se si convertissero. Inoltre, e soprattutto, ritiene ingiusto che Yahwé offra la salvezza anche ai pagani, che egli odia dal profondo del cuore. Nel suo cieco esclusivismo religioso, è convinto che solo gli Ebrei siano il popolo eletto e che mai e poi mai essi debbano condividere con altri il privilegio del loro antico patto d'alleanza con il Signore.

È questo che lo indigna, è questo che lo fa fremere e trasalire e che gli appare come incomprensibile e assolutamente inaccettabile. La gelosia di chi si ritiene membro dell'unico popolo destinato alla salvezza è ciò che lo spinge a chiudere gli orecchi alla voce divina, a imbarcarsi a precipizio nel porto di Joppe per navigare lontano, il più lontano possibile.

 

«Ma il Signore scatenò un gran vento sul mare e le acque furono agitate da una tempesta così forte che la nave minacciava di sfasciarsi» (Giona, I, 4).

I marinai, secondo le credenze dell'epoca, cominciano a sospettare che qualcuno dei passeggeri abbia commesso qualche grave peccato e sia perciò la causa della collera divina. Già sospettavano di Giona perché, mentre loro si davano un gran da fare in coperta, lui dormiva in fondo alla stiva, immerso in un sonno apparentemente inspiegabile; tanto che il capitano, svegliandolo, gli aveva detto: «Perché te ne stai a dormire? Alzati e invoca il tuo Dio: forse Dio penserà a noi e non periremo» (Ideam, 6).

Ma la tempesta non si placa, anzi aumenta d'intensità. Allora i marinai gettano le sorti per sapere chi ne sia la causa, e le sorti cadono su Giona.

Tuttavia non lo gettano subito in mare. Fanno di tutto per governare la nave, per tentare di riguadagnare il porto a forza di remi; ma ogni loro sforzo risulta vano. Allora gli chiedono che cosa debbano fare, ed è lui stesso a consigliarli: «Prendetemi e gettatemi in mare e le onde si placheranno, perché so bene che è per colpa mia che s'è abbattuta su di voi questa grande tempesta» (Idem, I, 12).

Dopo che il profeta è stato gettato in mare, le acque, come per prodigio, si calmano. E Giona viene ingoiato da un pesce gigantesco, ove rimane sepolto tre giorni e tre notti. In quel tempo interminabile, il cuore stretto nella morsa dell'angoscia, Giona non perde la sua fede ma conserva la speranza che Dio, in qualche modo, lo salverà.

La preghiera che egli leva a Dio da quel nero carcere dalle pareti di carne viva è una delle più belle di tutto l'Antico Testamento. Ne riportiamo solo pochi versi, che tuttavia rendono l'intensità del dramma di Giona e la forza della sua fede:

 

Tu mi hai gettato nel profondo,

nel cuore del mare,

e le acque mi hanno circondato.

Tutti i tuoi marosi, tutti i tuoi flutti

Sono passati su di me.

Ed io dicevo: Sono cacciato lungi

Dagli occhi tuoi!

Come contemplerò ancora

Il tuo santo Tempio?

Le acque mi hanno accerchiato

Fino alla gola,

l'abisso mi si è chiuso d'intorno

le alghe hanno avvinto il mio capo!

Sono sceso fino alle bocche dell'inferno,

e la terra ha chiuso su di me

le sue sbarre per sempre;

ma tu mi facesti risalire dalla fossa,

o Signore, mio Dio. (Idem, II, 3-7).

 

Alla fine del terzo giorno, il pesce rigetta Giona sulla riva del mare.

Allora Dio nuovamente gli ordina di recarsi a Ninive e di predicarvi la conversione: e il profeta, questa volta, obbedisce.

La città è così immensa che Giona impiega tre giorni di cammino per attraversarla tutta; e, senza stancarsi, ripete agli abitanti di affrettarsi alla conversione, altrimenti verranno distrutti.

Ed essi lo ascoltano e si convertono: e la superba città di Ninive, fattasi piccola mediante la penitenza, viene risparmiata dall'ira del Signore.

 

Perché abbiamo affermato che de te fabula narratur?

La voce di Dio che sconvolge Giona fin nell'intimo del cuore, che mette in crisi tutte le sue certezze, è una parabola della condizione dell'uomo contemporaneo. Anch'egli, come Giona, non vorrebbe ascoltare la voce della chiamata; sono ben altre le voci che egli suole ascoltare con piacere.

No, non vorrebbe ascoltare quella voce che sale dal silenzio della sua anima, tanto è vero che sembra disposto a fare qualunque cosa pur di non sentirla; sembra disposto a stordirsi in qualunque modo, fino al completo sfinimento. Ascoltarla, vorrebbe dire riconoscere che noi non siamo gettati a caso nel mondo; che abbiamo una missione da svolgere; che quella missione configge con le nostre umane aspirazioni e con le nostre umane sicurezze. Quella voce sussurra con insistenza che ciascuno di noi deve prendersi cura del prossimo, deve gettare lontano l'amor di sé e farsi piccolo per servire un disegno più grande di noi tutti, che ci trascende e che ci conferisce un significato più alto: ma ad un prezzo.

Non si entra gratis nel piano dell'Assoluto; c'è uno scotto da pagare.

Si tratta, né più né meno, di sbarazzarsi del proprio piccolo ego per gettarsi, con un atto di pieno abbandono, in Qualcosa che merita assoluta fiducia; ma che ci si presenta, anche, come possibilità di dubbio radicale e, dunque, di profonda angoscia. Perché si tratta di riconoscere, nel coro discordante delle molte voci illusorie, l'unica voce vera: quella che ci chiama, quella che ci vuole tutti, né si accontenta di una mezza risposta e di una mezza adesione.

E nessuno può garantirci con assoluta certezza di averla riconosciuta, nel coro delle vocine false e ingannevoli; come nessuno può garantirci, nel mezzo di una foresta sconosciuta, di aver imboccato il sentiero giusto, quello che ci porterà alla meta.

All'uomo contemporaneo piacciono le sicurezze: vorrebbe portarsi sempre dietro la mappa delle regioni sconosciute o, almeno, il paracadute per attutire gli effetti di un salto imprevisto. Gli piace aver sempre a bordo la ruota di scorta. Ha maledettamente paura di rischiare; ha paura di mettersi in gioco. Preferisce giocare al risparmio, al nascondimento; preferisce indossare innumerevoli maschere, per non dover rischiare mai in prima persona.

E invece, questo è proprio ciò che la chiamata gli domanda: di sbarazzarsi delle maschere; di venire allo scoperto; di buttarsi avanti coraggiosamente, senza preoccuparsi troppo delle sue troppo umane sicurezze. Di aprirsi alla Grazia, se si preferisce. Perché, se ascolterà la chiamata sino in fondo, non sarà mai veramente solo: Qualcuno o Qualcosa lo porterà in braccio, perché non gli accada nulla di male. Perché non gli accada nulla di ciò che è veramente male: non sul piano del relativo, ma su quello dell'Assoluto. Nulla di male può accadere a chi decide di essere radicalmente fedele all'Essere, ma solo a chi volontariamente se ne allontana. Perché gli enti, fuori dell'Essere, sono nulla: sono come la nave di Giona, sballottata dai flutti del mare.