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Il libro della settimana: Chantal Mouffe, Sul politico

di Carlo Gambescia - 18/10/2007

Il libro della settimana: Chantal Mouffe, Sul politico, Bruno Mondadori, Milano 2007, euro 13.00

Stando agli ultimi sondaggi di Renato Mannheimer la via dell’ antipolitica sembra quella prediletta dagli italiani. A suo avviso i nostri concittadini, stanchi e sfiduciati, graviterebbero tra qualunquismo e nostalgia dell’uomo forte…
In realtà, il vero problema, che Mannheimer è ben lungi dall’affrontare, è definire prima cosa debba intendersi per “antipolitica”. Diciamo – repetita juvant - che esistono tre significati o “scuole” principali.
Il primo ha natura strumentale e viene usato per liquidare l’avversario come antidemocratico. Ad esempio, è costantemente usato per mettere fuori giuoco quei movimenti che si appellano alla democrazia diretta o alla partecipazione popolare di massa, ma privi di qualsiasi accurato riferimento ideologico o politico. Si pensi ai cosiddetti movimenti populisti. Anche il secondo significato è di tipo strumentale, perché serve a liquidare radicalmente come antipolitici quei movimenti e gruppi, che non solo invocano cambiamenti, ma puntano a trasformazioni sociali ed economiche di larga portata, fondate su moventi di tipo ideologico. Si pensi ai cosiddetti movimenti extraparlamentari di destra e sinistra.Il terzo significato, altrettanto strumentale come i precedenti, gode invece di buona stampa, soprattutto negli ambienti economici e finanziari. E indica apparentemente con antipolitica, la “giusta” protesta del cittadino, che critica i privilegi della politica: macchine blu, prebende, sprechi, eccetera. E’ un’ antipolitica “buona”, gradita ai vertici economici, che spesso la usano come testa di ponte neoliberista. Quasi nessuno invece considera l’antipolitica come espressione di una sana e fondante volontà di potenza popolare. Che, se giustamente incanalata, può rifondare una politica di domani, più democratica.
Ora, il recente volume di Chantal Mouffe (Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Bruno Mondadori 2007, pp. 164, euro 13.00), si muove lungo quest'ultima direzione, o almeno "tenta" di incamminarsi... Ma quel che è più sorprendente è che l’autrice, docente di Teoria Politica presso l’Università di Westminster, pur avendo ascendenze marxiane, critica sia la sinistra riformista, di un Giddens, sia quella movimentista alla Toni Negri. E lo fa sulla base delle teorie di Carl Schmitt. La Mouffe ritiene che il conflitto politico in democrazia - e perciò anche quello tra rozza antipolitica di massa e politica civilizzata delle élite liberalsocialiste - sia insopprimibile. Anzi, quel che le tre “scuole” di cui sopra, liquidano come antipolitica, per l’autrice, che identifica, forse frettolosamente, politica e democrazia, è il sale della vita democratica.
Tuttavia il lato debole del libro è nell’assenza di indicazioni sui possibili canali istituzionali verso cui far convergere le forze sociali profonde che sono dietro l’antipolitica. Ad esempio, se è vero che conflitto politico permette di chiarire le rispettive posizioni, sulla base delle quali poi l’elettore sceglierà nettamente, perché non introdurre istituti di democrazia diretta su singoli problemi importanti? Come scuola e salute ad esempio? Si pensi solo, se usato con accortezza, all’importanza dello strumento referendario in ambito locale e nazionale. Sopratutto per rivitalizzare, cittadini, oggi stanchi, di una politica spesso fatta di false promesse.
Si ha, insomma, l’impressione che Chantal Mouffe, a tratti, sia più schmittiana di Schmitt. Al punto da auspicare una specie di conflitto permanente, senza però indicare come convertirlo in concrete istituzioni di governo. Dal momento che l’autrice rifiuta sia la routine liberale e socialdemocratica, sia l’assemblearismo movimentista.
Una debolezza teorica che affiora in particolare, quando la Mouffe affronta il problema del conflitto sul piano internazionale, auspicando la nascita di un mondo multipolare, come garanzia di pace rispetto al sulfureo unipolarismo a guida americana. Il che non è sbagliato, visto che a suo tempo, anche Schmitt rimpiangeva giustamente un mondo del genere. Tuttavia, la Mouffe non fornisce indicazioni su come articolare il suo ideale pluriverso. Non parla di economie autocentrate e di grandi blocchi politici e militari. E soprattutto si disinteressa clamorosamente delle eventuali reazioni americane a un distacco europeo. Certo, va ammesso che sul piano internazionale è molto più difficile, rispetto a quello interno, canalizzare l’ “antipolitica” degli stati e dei blocchi geopolitici (come politica, anch’essa, animata da una volontà di potenza). Tuttavia non si può teorizzare la creativa naturalità del conflitto, come fa la Mouffe, e poi sperare nella spontanea nascita di organizzazioni giuridiche internazionali preposte alla suo contenimento…
Se si sceglie il conflittualismo schmittiano, anche sul piano internazionale, bisogna essere conseguenti fino in fondo, e puntare decisamente sull’ indipendenza militare ed economica europea. Probabilmente armata.
Resta infine sullo sfondo del libro il rapporto tra politica, antipolitica ed economia. Particolare curioso in una studiosa formatasi sulle pagine di Gramsci. Infatti, perché non collegare la crisi della politica, e dunque lo sviluppo dell’antipolitica, a quel senso di isolamento e abbandono, anche psicologico, che tutti avvertiamo, quando i politici ci ripetono che i mercati votano tutti i giorni… Ma non è forse compito della politica quello di proteggere i cittadini anche dalla congiunture negative dell’economia? In conclusione, conta più il voto della maggioranza dei cittadini o quello di un pugno di broker?
Purtroppo, a questa fondamentale domanda, il libro di Chantal Mouffe non risponde.