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Capitali finanziari in fuga dagli Stati uniti

di Francesco Piccioni - 18/10/2007

 
Per la prima volta dal 1990 si rovescia il flusso: 163 miliardi di dollari escono dal paese. Petrolio alle stelle: il barile sopra quota 88

Per una volta la notizia più importante del giorno non è il nuovo record del petrolio. E' vero, ha superato ieri soglia 88 dollari al barile, salendo di altri due dollari in un giorno solo dopo un'identica performance lunedì. Ma per la prima volta da quasi 20 anni si è registrata una fuga di capitali dagli Stati uniti.

E' una svolta storica, a suo modo, perché dal 1990 il flusso di capitali stranieri aveva finanziato tutti i deficit che gli Usa andavano accumulando, comprese le spese militari. Valanghe di denaro, provenienti soprattutto dalla Cina e dai paesi produttori di petrolio, sono stati investiti nei più diversi asset, con una preferenza particolare per i buoni del tesoro, considerati i più sicuri del mondo. Ad agosto invece, complice l'esplosione della crisi dei mutui subprime, ben 163 miliardi di dollari hanno abbandonato il territorio e l'economia statunitense, verso altri lidi. Soltanto il mese prima il flusso era opposto, con arrivi pari a 94,3 miliardi. Il tracollo è particolarmente evidente per i buoni del tesoro a lunga scadenza, con un saldo negativo di 69,3 miliardi (a luglio era attivo per 19,5).

Il dato ha come sempre sorpreso gli economisti (la «scienza triste» farebbe bene prima o poi ad abbandonare ogni pretesa predittiva...), che si attendevano chissà perché un flusso in entrata di 60 miliardi. Se si tiene conto che questi flussi positivi costituivano da tempo la risorsa principale con cui gli Usa finanziavano il disavanzo dei conti con l'estero, si comincia ad intuire la gravità della situazione.

L'altro pilastro che sosteneva l'economia Usa sono i consumi (oltre il 70% del Pil). Ma su questa voce è caduta la mannaia della crisi immobiliare, oltre che del credito. Lo ammettono senza mezzi termini sia il segretario al tesoro, Henry Paulson, che il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke. Il primo ha spiegato ieri che questa crisi «non è ancora terminata e rappresenta il rischio principale per l'economia». Anche perché sta producendo un rapido aumento dei pignoramenti (+50%, che diventa un +200% nel settore subprime), calcolato dallo stesso Paulson in «più di un milione per quest'anno». Bisogna poi aggiungere i due milioni di mutui «normali» a tasso variabile, che nei prossimi mesi subiranno un certo «aggiustamento», che incrementerà le difficoltà di chi già ora «non riesce a rimborsare i mutui tradizionali».

La prima conseguenza è chiara: l'industria delle costruzioni si sta fermando, visto che la domanda di case è in arretramento. L'indice di fiducia dei costruttori - il Wells Fargo Housing Market - è sceso ieri al minimo storico (18 punti). La seconda è che la casa, per gli americani, è stata per anni quasi una carta di credito, grazie alla possibilità di ipotecarla per finanziare i consumi. Ora, titola la Cnn, «è finito il tempo del consumatore in vena di follie», anche perché il tasso di risparmio delle famiglie Usa è andato in negativo per la prima volta dalla Grande Depressione. Anche per il Pil, quindi, sembra iniziare una stagione più «fredda».

E una qualche influenza sulla dinamica della crescita, in effetti, dovrebbe averlo prima o poi anche il prezzo del petrolio. Gli operatori di mercato si attendono ormai i 90 dollari al barile, e come sempre è ricco il ventaglio delle spiegazioni. L'Opec afferma di star monitorando attentamente la situazione e di «osservare con preoccupazione il recente rialzo del prezzo». La colpa viene attribuita alla «speculazione» poiché «la produzione è più che sufficiente» a soddisfare la richiesta. Non velato l'accenno alle «tensioni mediorientali» (soprattutto alla frontiera turco-irachena, con l'esplicita minaccia di Ankara di invadere il nord del paese per «ripulirlo» dai combattenti curdi); nonché alla «fluttuazione del dollaro e le raffinerie» che non lavorano al massimo del loro potenziale. Rituale la garanzia che il cartello è pronto a «rispondere a ogni problema di rifornimento, in modo tale da garantire che il mercato resti ben approvvigionato durante i mesi invernali». E' stato perciò confermato che a partire dal primo novembre la produzione Opec aumenterà di mezzo milione di barili al giorno, che vanno a compensare la diminuita produzione dei paesi non-Opec (meno 100.000 bg). Bisogna anche ricordare che mezzo milione di barili corrisponde a meno di nove minuti di consumo globale.
Si comprende facilmente come il prezzo del greggio Wti (il più pregiato) sia schizzato ieri ancora più in alto (88,20 dollari), per poi ripiegare a 87,61. Per Wall Street, nonostante tutte queste pessime notizie, è stata una giornata solo parzialmente negativa. Ma i mercati finanziari tirano avanti per ora solo grazie alla (fonata) speranza che la Fed abbassi ancora i tassi di interesse.