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Guerra in Iraq: solo un'impasse "democratica"?

di Enea Baldi - 20/10/2007

 

Guerra in Iraq: solo un'impasse


Dopo le audizioni al Congresso degli Stati Uniti di un mese fa, in cui il generale David Petraeus, comandante in capo delle forze americane in Iraq e l’ambasciatore statunitense a Baghdad Ryan Crocker presentarono i risultati del protocollo sul conflitto, la situazione per l’esecutivo Usa si è ulteriormente aggravata. Il presidente George W. Bush subito dopo la lettura del protocollo Petraeus annunciò alla nazione il ritiro di parte del contingente militare stanziato sul territorio. L’opinione pubblica e molti tra deputati e senatori di entrambi gli schieramenti, si pronunciarono a favore del completo rientro delle truppe impiegate in Medio Oriente, ma il presidente Bush, in quella occasione, dichiarò che l’impegno americano sarebbe continuato ben oltre la durata del suo mandato in scadenza nel gennaio del 2009.
Successivamente al rapporto Petraeus giunse quello di Phyllis Bennis e Erik Leaver entrambi esponenti di Ufpj “United for Peace and justice”. Nello studio dell’Ufpj si affermò che le operazioni militari degli ultimi mesi non portarono in Iraq né sicurezza né stabilità. La scorsa estate non a caso, fu quella con più vittime dall’inizio del conflitto nel 2003. Il “controrapporto” dà un’immagine realistica di come vivono oggi 25 milioni di iracheni. “Per anni abbiamo sentito le stesse bugie sui progressi che gli Usa stanno ottenendo, ma non sono mai stati reali”, ha dichiarato Leslie Cagan, coordinatore dell’Ufpj, che ha poi aggiunto: “Speriamo che il Congresso si ricordi che questi piccoli miglioramenti in una situazione orrenda come la guerra in Iraq, sono costati finora 480 miliardi di dollari dei contribuenti americani, soldi che non potranno essere spesi per la ricostruzione, per l’educazione e la sanità. Oltre al dato economico Petraeus non ha citato le vittime tra i soldati americani, 3.774 dall’inizio della guerra, e quelle irachene oltre 600.000, più quattro milioni di sfollati”. Il generale Petraeus in quell’occasione, presentando i grafici per dimostrare la diminuzione della violenza a Baghdad, dimenticò di dire che la composizione confessionale dei quartieri della capitale irachena, è assolutamente stravolta rispetto a pochi mesi fa: l’anno scorso Baghdad era abitata per il 65% da sunniti, mentre oggi è sciita al 75%. Omise inoltre il fatto che la maggior parte della popolazione, non ha corrente elettrica per più di cinque ore al giorno e non ha accesso all’acqua potabile, che i tassi di disoccupazione superano il 40% e che la produzione di petrolio è crollata rispetto a prima della guerra. A compromettere ulteriormente la credibilità della strategia bellica yankee, è intervenuto sabato scorso l’ex comandante Usa in Iraq (ora generale in pensione) Ricardo Sanchez, il quale ha dichiarato che “il fallimento catastrofico nella conduzione della guerra in Iraq da parte dell’amministrazione Bush, ha fatto sì che gli Usa si siano impantanati in un conflitto da incubo, senza via d’uscita”.
Un duro atto d’accusa quindi, l’audace dichiarazione dell’ex generale nei confronti dell’esecutivo Usa, che ha poi definito il “parziale ritiro”, come “un tentativo disperato di un’amministrazione incapace che non ha saputo accettare e gestire la realtà non solo politica ma soprattutto economica della guerra”. “C’è stata una disgraziata e clamorosa esibizione di incompetenza strategica da parte dei nostri leader nazionali (senza citare Bush, n.d.r.)”, ha dichiarato Sanchez ad un gruppo di reporter di guerra. Il generale Sanchez comandò la coalizione a guida Usa in Iraq dal giugno 2003 al luglio 2004, proprio nel momento in cui l’insurrezione anti-Usa si consolidava; quando nel 2006 andò in pensione riferì che a rovinare la sua carriera fu lo scandalo degli abusi sui prigionieri ad Abu Ghraib. Gli attacchi del generale, diretti in gran parte contro il Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, che allora era guidato dall’attuale segretario di Stato Condoleezza Rice, non risparmiano critiche anche al Congresso, al Dipartimento di Stato e alla politica in generale. Si prospetta un periodo difficile per la politica e l’economia americana, un periodo che ricorda quello della “Guerra Fredda”, quando la stangata vietnamita non bastò a dissuadere gli Usa dal progetto di dominio sui popoli del mondo, un progetto avallato, ieri come oggi, da gran parte dei paesi europei.